lunedì 29 settembre 2014

Pasolini

Abel Ferrara
O mi suicido o filmo”. Di questa necessità assoluta, fisica e morale, di fare film parla Pier Paolo Pasolini nell'intervista, basata su testi autentici, che rilascia a un giornalista (era Furio Colombo) in Pasolini di Abel Ferrara. Ma parla anche Abel Ferrara: è una dichiarazione che vale in modo egualmente perentorio per tutto il suo cinema. Ah, ma tutto questo film sconvolgente si fonda su un doppio movimento, su una sovrapposizione.
Da un lato c'è una mimesis, un impegno di riproduzione perfetta di P.P.P. Non intendo solo l'abbagliante sforzo mimetico di Willem Dafoe, che crea un vero sosia non solo fisico; il film riproduce a tocchi sicuri tutto il suo mondo, le persone, la Laura Betti di Maria de Medeiros, il Nico Naldini di Valerio Mastandrea, la madre interpretata da Adriana Asti, il gossip sull'ultimo film di JancsóVizi privati, piccole virtù), un name dropping che si spinge all'acribia di menzionare Gaetano Perusini. Dall'altro, questa sorta di sovrimpressione per cui Ferrara parla anche di se stesso, nel senso della sua necessità quasi sacrificale di fare un cinema di idee e interrogativi morali (occorre ricordare che Ferrara riflette sul proprio lavoro di regista in tutta la sua opera?). E' proprio questa dialettica Pasolini/Ferrara che spinge Ferrara a “filmare la mente di Pasolini”, offrendoci (visualizzando) nel suo film non solo scene del romanzo Petrolio ma la sceneggiatura inedita Porno-Teo-Kolossal: a girare il film di Pasolini che Pasolini non ha girato. In quest'ultimo compito è geniale la trovata di usare Ninetto Davoli nel ruolo che Pasolini voleva offrire a Eduardo De Filippo (mentre, in un gioco di specchi, accanto a lui Riccardo Scamarcio fa Ninetto Davoli). Come stile Ferrara si ispira a Dove sono le nuvole e La Terra vista dalla Luna - mentre la scena dell'orgia nella città di Sodoma sembra incrociare Pasolini con Ferrara stesso.
Pasolini comincia con P.P.P. intervistato mentre è intento al montaggio di Salò – un'apertura che esprime l'interesse compulsivo di Ferrara sia per il tema del male e della scelta sia per quello del cinema e della riproduzione. Anche la diversità di statuto delle immagini, per cui nel film vediamo scene prima raccontate poi visualizzate, non stupisce, conoscendo quella continua riflessione sull'essenza della riproduzione che caratterizza il cinema di Ferrara a partire almeno da Occhi di serpente ed esplode nella seconda parte della sua produzione.
I personaggi di Ferrara sono fondamentalmente soli (Il cattivo tenente). In Pasolini P.P.P. è, certo, inserito in una tessitura di affetti; nondimeno c'è un che di solitudine in lui (lo sguardo divertito con cui vede danzare Laura Betti è un affettuoso sguardo da fuori); P.P.P. solo anche quando sta con altri, e forse non si vede mai tanto bene come nella scema al ristorante con Ninetto Davoli (Scamarcio) e famiglia.
Nell'intervista, già citata, a Pasolini nel film, P.P.P. propone come titolo “Siamo tutti in pericolo”. Quando sfoglia il giornale spiccano notizie di uccisioni politiche (anche per equivoco), di vittime, fra cui il volto devastato della superstite del massacro del Circeo (riferimento, questo, non solo al male diffuso ma anche richiamo a Salò che con le sue immagini apriva il film).
Il cinema di Ferrara un cinema martirologico. E' fondato su personaggi autodistruttivi che si tuffano nel patimento e nell'umiliazione, in una spirale di colpa e redenzione. Nei suoi giri in auto nella notte romana in cerca di prostituti, in soggettive rese drammatiche dalla fotografia “sporca” , quasi sgranata di Stefano Falivene, Pasolini cerca il sesso - ma soprattutto corteggia la morte. Ferrara lo mostra bene nei primissimi piani dei “ragazzi di vita” assiepati davanti ai bar, dove l'inquadratura ravvicinata si carica di minaccia; e basta vedere la scena in cui dopo il pompino il prostituto picchia Pasolini in faccia. E' interessante lo stacco da questa scena all'immagine (ritornante nel film) dei nudi scultorei dell'EUR: la sensualità del corpo, certo, ma rifratta attraverso il filtro imitativo del modernismo fascista; ed è come il richiamo, molto pasoliniano invero, a una sessualità originaria perduta. All'immagine della statua segue quella dell'architettura dell'EUR, astratta e bianca, inumana nella sua fredda bellezza. Lo splendido montaggio del film è di Massimo Gaudioso, che esprime nel gioco dei dettagli il dramma e il desiderio, come nella scena della cena di Pasolini con Pino Pelosi (il suo futuro assassino).
Circa la sequenza dell'assassinio a Ostia, va citata una soluzione magistrale nella score. Sull'immagine della gente che osserva - senza sconvolgersi – il cadavere all'alba del mattino dopo, e di lì sul dolore di amici e parenti (indimenticabile il viso di mater dolorosa di Adriana Asti), e sul soffermarsi della mdp sopra gli oggetti di Pasolini (le foto, la Olivetti Lettera 22, l'agenda aperta, ultima immagine del film), su tutto questo sentiamo la voce di Maria Callas (che poi è la Medea pasoliniana) in “Una voce poco fa”; con scelta folle e geniale Ferrara manda il solo inizio dell'aria in una sorta di loop, che nel suo ripetersi continuamente in rapporto con le immagini ruba a Rossini il suo carattere solare, lo piega a una devastante drammaticità. Solo sul nero dei titoli di coda l'aria prosegue distesa, e tuttavia contaminata dal dramma che abbiamo visto.
Quel grumo di dolore, colpa, oscura redenzione nel patimento, accomuna il regista friulano-romano e quello newyorkese (come gridano i suoi capolavori, Il cattivo tenente, Fratelli, The Addiction) in questo film potente. Non è piaciuto alla critica italiana? Tanto peggio per la critica italiana.

Anime nere

Francesco Munzi
In un passaggio di Anime nere vediamo Luciano (che vive allevando capre in un paese diroccato dell'Aspromonte) raccogliere in chiesa un po' di “polvere del Santo”, il pietrisco attorno alla statua, per ingerirla coll'acqua come cura. Questo rito arcaico lo avevamo già visto nel lungometraggio lirico/documentario Le quattro volte di Michelangelo Frammartino – al quale molte cose dello splendido film di Francesco Munzi ci riportano, non solo l'ambiente calabrese, l'Aspromonte, o magari i musi vagamente inquietanti delle capre.
Quello che i due film hanno in comune è una sensazione sconvolgente di verità. Anime nere, la cupa vicenda dei fratelli Carbone, è un film di fiction, ma sotto il plot si estende un tessuto che si può definire antropologico. Non nel semplice senso di un'attenzione inserita nel narrato (come in Scorsese per esempio), bensì di un fondo vasto, prepotente, inglobante, che quasi arriva a soverchiare la trama. Vedi per esempio le scene del lutto: se l'incidente che le origina viene dallo sviluppo drammatico, esse vanno oltre per imbeversi di un senso documentario (e Munzi negli anni novanta è stato anche documentarista). Il film mescola a eccellenti attori professionisti molta gente del luogo e usa il dialetto calabrese, sottotitolato, che aggiunge verità a verità. Fin dall'ambientazione: non dimenticheremo il paese diroccato sulla montagna (è Africo Vecchio, abbandonato dagli abitanti dopo una frana), con l'inquadratura dall'alto che mostra le case scoperchiate.
I tre fratelli Carbone sono Luciano, Rocco e Luigi: criminalità calabrese che si regge in un fragile equilibrio fra cautela e rancore verso la famiglia in ascesa dei Barreca, che hanno ucciso il patriarca Carbone anni prima. In disparte stanno gli ambigui Carruba, alleati dei Carbone ma infidi. “Pi iddi finiu”, sono finiti, dice il capoclan, e decide di non schierarsi al loro fianco.
Dalla drammaturgia classica del film di mafia (o di 'ndrangheta), lo svolgimento si allarga – e raggiunge un'alta potenza tragica – al quadro di una Calabria congelata nel tempo, all'immutabile resistenza dell'arcaico in questo mondo chiuso. Nel quale la legge dello Stato è l'altro assoluto: nemmeno nemico, perché dire nemico è già un riconoscimento di parte in gioco; piuttosto, qualcosa di ostilmente alieno. La vecchia madre piangente sputa contro i carabinieri che indagano sull'assassinio di suo figlio.
La stessa transizione da una criminalità di origine contadina ad una criminalità metropolitana e internazionale – dall'abigeato al traffico di droga – è nel film complessa e contraddittoria. In questo senso il punto focale del film è Luigi (Marco Leonardi), nel quale si congiungono mondi ed epoche. Infatti lo vediamo all'inizio trattare da pari a pari sullo yacht di un trafficante di droga ad Amsterdam; ma al ritorno in Lombardia ruba una pecora da macellare e mangiare: questo non è “lavoro” criminale, è la rivendicazione istintiva di una continuità col passato (il “moderno” Rocco, in auto, brontola: “Ma ancora fate 'ste stronzate?”). A questa scena si collega, quando Luigi torna in paese in Calabria, quella del pranzo collettivo a base di carne di capretto, che Luigi sceglie nel gregge e sgozza personalmente: c'è come l'idea di un contatto diretto, materiale, predatorio coll'animale-cibo.
Invece l'imprenditore Rocco (Peppino Mazzotta) è tutto proiettato nel mondo d'oggi: una criminalità (chiaramente ricicla i soldi della droga) in giacca e cravatta. Vive a Milano, ha sposato una settentrionale (Barbora Bobulova), che quando vengono a cena i parenti chiede ironicamente “A che ora arrivano i pregiudicati?” Il film usa questo personaggio per rappresentare fisicamente la distanza antropologica. Quando la tragedia comincia a dipanarsi e lei raggiunge il marito in Calabria, è molto bella la sua soggettiva sulle due donne che pregano: una soggettiva silenziosa con la quale Munzi riesce a far sentire fortemente una distanza invalicabile.
Invece Luciano (Fabrizio Ferracane), il maggiore, chiuso e introverso, è rimasto al paese; mantenendo coi fratelli il legame familiare ma non quello criminale, si macera nel tentativo di rimuginare il dolore per il padre ucciso ma vivere un'esistenza “pura”, contadina, di allevatore. Va notato che le capre in relazione a Luciano sono connesse a immagini di vita (il gregge, la cura della bestia malata), in relazione a Luigi a immagini di violenza e morte (lo sgozzamento, il tiro a segno coi teschi come bersaglio).
E poi c'è il figlio Leo (Giuseppe Fumo), un ragazzotto violento che per un litigio è pronto a sparare contro la vetrata di un bar, e che si sente figlio più dello zio Luigi che di Luciano; lo zio apprezza la sua aggressività (che sarà motore di un tragico sviluppo) vedendovi la somiglianza con sé rispetto al fratello, di cui materialmente non capisce l'estraniamento alle logica del clan.
In questi personaggi ben delineati (occhi come palline di vetro nero!) il film mette potentemente in gioco il tema del destino e della caduta. Sono, i tre fratelli, personaggi tragici, ciascuno determinato senza saperlo dalle proprie contraddizioni, in un gioco psicologico affascinante. La tragedia viene innestata dalle bravate di Leo, ma in realtà è intrinseca alla vita stessa dei tre – e di tutto il mondo che li circonda. Non ci si libera del passato; non c'è una divisione in buoni e cattivi perché tutti sono anime nere. Anche chi non vuol esserlo è costretto a fare il male nello sconvolgente epilogo.
Anime nere brilla per coerenza e sicurezza di costruzione, padronanza dei mezzi linguistici, originalità espressiva. Per esempio, è senz'altro bella la scena di tesa suspense, di notte, nei corridoi della scuola abbandonata, ma quel che è veramente splendido è il mattino dopo: Francesco Munzi mantiene il cadavere a terra fuori fuoco, per concentrare tutta l'emozione su chi è accorso; l'enunciazione visiva del corpo avviene solo un momento dopo, quando scoppia la manifestazione del dolore. In un film ricco di silenzi, il discorso sa esplicarsi sul puro piano dell'immagine: come nel pre-finale, quando le capre uscite dal recinto che invadono l'aia, e guardano dentro casa dalla porta aperta chiedendosi se entrare o no, rappresentano con notevole forza visuale la fine del sogno di “chiamarsi fuori” di Luciano.

Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin)

Orson Welles
Questo film inizia con un aereo in volo, l’aereo di Arkadin, vuoto; con il suo amore per cominciare dal fondo della storia, Welles parte da un’assenza.
La festa in maschera di Arkadin, ispirata a Goya, è la scena generatrice del film, che è tutta una raccolta di maschere grottesche. Sulla folla regna Arkadin/Welles. Com’è solenne la sua apparizione, con una mascherina bianca! Ma Arkadin è la maschera di una maschera. Infatti sotto ci sono l’immensa barba, il solito naso finto di Welles, una parrucca di capelli rigidi (che serve a rendere il viso di Welles meno rotondo di quello reale). Cosa rimane di Orson Welles sotto tutto questo trucco? Solo gli occhi. Questa figura che si muove come un armadio torreggiante sui suoi ospiti/vittime (Welles, che di suo non era agile, qui volutamente è più massiccio e lento che mai) non è niente, se non un paio d’occhi che spuntano dal trucco teatrale. Domanda, metaforica sul piano diegetico: non sarà finta quella barba?
E allora, quando Arkadin è scomparso dal suo aereo, cosa si è lasciato dietro? Un niente, uno sbuffo di fumo. Proprio come la Maschera della Morte Rossa nel racconto di Poe una volta abbrancata si dissolve in aria, Arkadin è un nulla omicida dietro la maschera: un fantasma, una leggenda. Il suo corpo è un’enorme menzogna proprio come la sua vita. Per questo vediamo solo un involucro senza contenuto; lui è scomparso - scomparso, più che morto (il che apre ipotesi illegittime ma affascinanti sul piano diegetico).
Quando Van Stratten inganna la gente all’aeroporto facendo loro credere che quel signore che offre soldi non è Arkadin, ecco che a un uomo dall’identità inventata viene tolta proprio quell’identità, iniziando quel processo di spoliazione della maschera che culminerà nell’aereo vuoto. Ad esso il film ritorna circolarmente in conclusione dopo che l’avevamo visto all’inizio. Dopo il tradimento di sua figlia Raina/Paola Mori (quanta importanza ha il tradimento nel cinema di Welles!), che segue regolarmente le istruzioni-trappola di Van Stratten/Robert Arden nel dialogo col padre per radio, vediamo gli occhi sbarrati di Arkadin - e poi sentiamo solo il “rumore vuoto” dall’altoparlante.
Anche Arkadin possiede un castello come Kane in Quarto potere, ma quello di Kane era un’ombra gotica, quello di Arkadin è un castello da fiaba con le torri bianche a punta, in accordo con l’essenza fiabesca del suo padrone (sua figlia lo chiama l’Orco).
Kane lo vedevamo morire all’inizio del film, circondato dai suoi possedimenti; Arkadin semplicemente non lo vediamo più. Quel misero aereo noleggiato, visto dall’alto mentre Van Stratten è in auto con Raina, è il contrario di una scena precedente in cui un altro aereo di Arkadin passava sotto le loro teste, come a ricordare che erano entrambi sotto il dominio dell’Orco.
Perché portate quell’orribile barba?” - “Per spaventare la gente”. La fine di Arkadin è la fine di una fiaba nera, di una specie di Babbo Natale demoniaco (il suo ultimo omicidio, in Germania, si annuncia mentre da fuori salgono le note di canzoni natalizie: Tannenbaum e Stille Nacht).
Una fiaba nera colma di ambiguità sessuale, con Arkadin che sottopone Raina a una sorveglianza tanto pervasiva quanto irreale e fantastica, attraverso la schiera occhiuta dei suoi “segretari” (ove Welles si concede deliziosi tocchi di humour nero); che quando si toglie la famosa mascherina bianca lo fa in camera da letto della figlia, di cui parla come un innamorato, ed è per scacciare un possibile concorrente. Per quanto sia stupido, Van Stratten ha capito bene quando osserva a Raina: “Ti fa sorvegliare come un marito geloso”.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

Storia immortale

Orson Welles
Un vecchio ricco che muore: la conchiglia che rotola a terra al momento della morte di Mr. Clay/Orson Welles ci riporta dichiaratamente alla palla di vetro con la neve di Citizen Kane (Quarto potere). E sentendo degli oggetti d’arte bruciati del socio francese suicida di Clay, come non pensare alla casa dove ora Clay abita come a una Xanadu miserabile e degradata, una Xanadu ridotta a un guscio vuoto?
Dove Clay passa irosamente i suoi ultimi giorni, proprio come Kane; il trucco da vecchio di Welles nel ruolo di Clay, evidentemente teatrale, non solo è in linea con l’essenza del cinema wellesiano ma nella sua leggera artificialità ricorda direttamente il trucco di Kane. Clay è un Kane degradato, in questa Macao quasi simbolica, suggerita con qualche comparsa cinese e pochi tocchi su vecchie case. Tutto (anche la ricchezza!) è più povero, più meschino ed estenuato. Il tema dell’abbassamento di grado, dell’impoverimento, attraversa tutto il film.
Dopo che il segretario Levinsky gli ha letto la profezia di Isaia e poi gli ha raccontato una storia, Mr. Clay protesta che a lui non piacciono le storie ma i fatti: “I like facts”, ringhia la voce di Welles nella versione inglese; “Voglio che questa storia sia avveri nella vita reale, e a persone reali”.
E questo è appunto il teatro, che incarna le storie nei corpi. Con la differenza - osserva poco dopo Virginie/Jeanne Moreau - che il teatro non comprende la morte reale e il sesso reale (o i sentimenti reali). E invece sì, risponde Levinsky, nel teatro messo in scena da Nerone. Evoca cioè un teatro-hybris, un “teatro del tiranno”, che si confonde con la vita autentica trasformandola in messa in scena.
Poco più tardi nel dialogo fra Levinsky e Virginie sulla terrazza, ritorna il discorso sull’opposizione fra la grandezza dei potenti e la gente comune; ma dall’imperatore di Roma siamo passati a Clay e agli altri ricchi mercanti. Questo calo di status del paragone è un impoverimento, proprio come il film è l’impoverimento di Clay rispetto a Kane. Figlia del socio costretto al suicidio, Virginie anticipa la prossima fine di Clay: “Il suo totale sarà tutto falsato e non varrà niente” - è da notare qui il tono profetico, appropriato per una storia il cui svolgimento è stato messo in moto dalla lettura di una profezia.
Con Levinsky Virginie parla tristemente del suo viso, dice che il marinaio la vedrà vecchia, si accorgerà che la sua apparente giovinezza è trucco (“...que je suis vieille, poudrée, fardée”). Ma questa situazione - una donna più anziana che si trasforma in giovane truccandosi senza ingannare nessuno - non ci riporta nuovamente al teatro? E infatti il dialogo insiste sulla “commedia” che viene messa in scena.
Poi la “commedia” si compie - ma non è una commedia. Concretizzando nella sincerità dei sentimenti il rapporto amoroso, Paul e Virginie sfuggono alla costrizione della messa in scena. Si tratta di una prima sconfitta di Clay. Il quale però può comunque dire “Ora esiste un marinaio...”: oltre all’hybris di incidere nella carne il teatro (Nerone), potremmo vedere qui anche il tentativo di uccidere una storia facendola passare allo statuto di realtà (“I like facts”).
Ma quando Paul il marinaio se ne va, dice a Levinsky che non racconterà la storia; nessuno, aggiunge, gli crederebbe se lo facesse (però la sua ira dice che è un fatto personale). Donde vediamo che anche in questo Clay è sconfitto. Questa storia non verrà mai raccontata come fatto - quindi resterà una storia, e in quanto tale immortale.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

Il processo

Orson Welles
Ne Il processo si affrontano tre opzioni di fondo poco amalgamate. La prima è di contestualizzare il racconto di Kafka nella grande tragedia del secolo, traducendolo in una metafora del totalitarismo (il che suggerisce larga parte dell’imagerie del film, dall’orwelliana sala delle dattilografe agli accusati laceri o seminudi, col loro numero, davanti alla sede della Corte Suprema, che fanno pensare ai campi di concentramento). La seconda è quella di riscrivere Kafka reinventando, in forme adatte alla narrazione cinematografica, un personale incubo kafkiano di Welles, ove l’apologo viene caratterizzato dal filo rosso del rapporto di K. con le donne e il sesso, che attraversa il film rendendolo un grande e contorto incubo barocco sulla sessualità; e questa è probabilmente la scelta narrativa più proficua. La terza, la meno felice, è quella di popolarizzare Kafka, quasi di realizzare un Everybody’s Kafka filmico, a costo di ricamare il film con dialoghi para-kafkiani che mantengono il sapore dell’imitazione divulgativa e didattica.
Rimane l’ipotesi che Kafka sia il meno adatto degli scrittori ad essere tradotto nella natura indexicale del cinema (non per nulla la pagina più autenticamente kafkiana de Il processo è l’apologo iniziale, recitano dalla voce di Welles sulle fredde immagini delle composizioni di spilli di Alexeieff).
E’ interessante che di fronte a Kafka Welles rinunci proprio - quasi come intimidito - ai suoi barocchismi più neri e malsani. Nella filmografia di Welles l’anti-Processo è Mr. Arkadin (Rapporto confidenziale). Perché ambedue i film sono grandi affreschi di follia - ne Il processo, con una resistenza. Ma la visione, che ci è squadernata in Arkadin, della follia che si nasconde dentro il reale (i due comici e paradossali poliziotti di Monaco, il lurido bric-à-brac dove si aggira borbottando il ripugnante antiquario Michael Redgrave, il grande orrore carnale del circo delle pulci che banchettano sul braccio nudo di Mischa Auer) ci appare apocalittica proprio perché si cela nella realtà concreta di uno sviluppo romanzesco, per delirante e fiabesco che possa essere; è il volto assurdo del reale. L’irrazionalità degli avvenimenti e dei percorsi de Il processo viceversa non è unheimlich, perché è il volto assurdo dell’irreale - ovvero del simbolico, dell’allegoria pura - cioè un assurdo di secondo grado.
Ne Il processo, Welles rifugge dall’eccesso barocco. Ne rimangono solo isolati brividi, di solito connessi appunto a quel discorso sulla sessualità che si può indicare come il tratto più alto del film: Jeanne Moreau entraîneuse sfatta di stanchezza in cui si oppone il discorso del corpo a quello delle parole; Romy Schneider che mostra a K. - come in un gioco proibito di bambini - la membrana, teneramente oscena, che unisce le sue dita; o naturalmente le ragazzine indemoniate che urlano e beffeggiano attraverso gli interstizi delle pareti dello studio di Titorelli.
Ma altrove, nemmeno l’abiezione di Bloch/Akim Tamiroff - fatta salva la superba interpretazione del grande attore wellesiano - raggiunge lo stesso livello di turpitudine malata che definisce certe figure de La signora di Shanghai (o che si mischia alla comicità nello stesso Akim Tamiroff de L’infernale Quinlan).
Rimane, certo, la grandezza dei percorsi: ne Il processo Welles costruisce la topografia artificiale forse più bella di tutto il suo cinema, dove lo spazio (ma anche il tempo) si piega su se stesso. Ma questo è un discorso troppo scontato per non lasciarlo qui.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

Lo straniero

Orson Welles
Autore di grandi film da Shakespeare, shakespeariano Orson Welles lo è stato in tutto il suo cinema, dove ritorna ossessivamente il concetto dell’individuo titanico contrapposto alla mediocrità della massa. Beninteso, nella democrazia americana, nei pubblici diritti, Welles - politicamente un democratico rooseveltiano - vede il fondamento del vivere civile. Tuttavia il suo cinema è popolato di giganti più grandi del bene e del male. In un bellissimo libro, Orson Welles: The Stories of His Life, Peter Conrad analizza perfettamente la feconda scissione presente in Welles, per cui il suo ritratto di figure faustiane non è pura mimesi interpretativa, bensì la messa in scena spettacolare, la resa artistica di una duplicità interiore.
Fra questi personaggi davvero shakespeariani il più memorabile, accanto al “cittadino Kane”, è certamente lo Hank Quinlan de L’infernale Quinlan (e in misura minore come profondità Mr. Arkadin). Ma che dire di Franz Kindler, criminale nazista rifugiato in America sotto falso nome ne Lo straniero? Certamente Welles odia la figura che interpreta; merita ricordare che Lo straniero fu il primo film a inserire al proprio interno filmati autentici dei campi di sterminio, per sottolineare la profondità del male. Però per quanto abietto sia Kindler, egli torreggia sopra una comunità di pigmei.
Vi sono nella città di Harper due vecchi saggi: il proprietario del drugstore (un’interpretazione di Billy Hale che ruba la scena a tutti) e il vecchio giudice della Corte Suprema, appartato e inascoltato dalla sua stessa figlia. Il primo richiama una “vecchia America” nostalgica (si pensa ai concittadini degli Amberson); il secondo, quei circoli di intellettuali democratici che Welles frequentava. Ma gli altri!
Una satira feroce investe l’intero paese. L’ottusità con venature isteriche dell’ignara moglie di Rankin/Kindler, Mary/Loretta Young, che è l’ultima ad accettare di rendersi conto di ciò che è evidente. Le zitelle che si bevono le ciance di Kindler ripetendo garrule “Lei è un professore smemorato”. I ragazzotti della high school che nel bosco giocano a rimpiattino (fra l’altro qui il film allude ironicamente a se stesso, come con gli orologi, il cui meccanismo troppo complicato si guasta). Guardiamoli correre giulivi per il bosco, con uno che semina chili di tracce! Ricordano veramente, per leziosità, i coniglietti di dubbia virilità di Tex Avery. Nonostante il discorso di Edward G. Robinson sulla gente semplice che non può più essere ingannata, ne Lo straniero Welles non mostra davvero una grande opinione della massa.
Questo film che Welles ingiustamente non amava sprizza un delizioso humour noir. Si pensi alla scena blasfema dell’assassinio mentre Kindler e Meinike, un nazista evaso, pregano assieme, scena che del resto viene dopo uno dei più esilaranti scherzi sulla divinità che il cinema ci abbia mai dato (la rivelazione dell’autorità cui Meinike obbedisce). O a Kindler che - tedesco nell’anima! - si prepara i suoi appunti per il delitto, da buon professore prima della lezione.
Consapevolissimi eccessi, angolazioni ancora più audaci del solito, giochi espressionistici di ombre, e un grande finale barocco (“Dick Tracy”, fumettistico, diceva Welles): un delirio, l’unico modo possibile per girare questo film giocato fra la dismisura della narrazione e il titanismo wellesiano. Ma il tema wellesiano principale che congiunge questo film alla sua filmografia è che si tratta di un’altra sfaccettatura del falso; mundus vult decipi; Welles è sempre il prestigiatore.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

La signora di Shanghai

Orson Welles
La signora di Shanghai inizia in un tono fiabesco che rappresenta anche una chiave di lettura. Elsa Bannister/Rita Hayworth appare nel parco in carrozza, O’Hara/Welles (che la salva da un’aggressione) la paragona a una principessa; lei in seguito paragonerà lui a un cavaliere errante. Nota l’impennata del cavallo alla vista di un taxi, quando lui la riporta a casa, col classico tassista newyorkese che si incavola: sembrerebbe il passaggio dalla fiaba alla realtà. Ma è proprio la realtà? Perché ormai O’Hara, solo per aver visto Elsa, è stato risucchiato in un mondo stregato, popolato di uomini (e animali) mostruosi.
Il film ci racconta varie cose sul giovane marinaio: reduce della Guerra di Spagna, aspirante romanziere, anche ex sindacalista portuale (“notorious waterfront agitator”, dice di lui la radio parlando del processo); soprattutto, ci dice che è irlandese; su questo il film insiste molto, anche menzionando il suo accento. E questa connotazione irlandese non ci stimola forse a pensare ai rapimenti di giovani ingenui da parte del Piccolo Popolo? Non è qualcosa di simile che accade a O’Hara? Non si può non ricordare una battuta fondamentale di Elsa mentre discute sulla spiaggia con gli orribili Bannister e Grisby: “A chi potrebbe piacere di vivere con noi?”
In effetti tutto il film sembra svolgersi in stato di ipnosi, o di incantamento; la sua atmosfera malata e voyeuristica sfiora il metafisico. Quando Grisby, sullo sfondo di un dirupo, parlando come se fosse in trance, fa a O’Hara la paradossale proposta di ucciderlo, allorché se ne va (“So long, fella”) sembra cadere giù, sparire, come una manifestazione demoniaca che si dissolve dopo la tentazione.
Alla base de La signora di Shanghai sta un’opposizione radicale fra sanità e follia; la sanità è patrimonio di O’Hara, e anche di personaggi umili come la cameriera dei Bannister, o i suoi amici marinai; ma il mondo della follia non si limita affatto alla consorteria di squali umani fra cui O’Hara è finito. Investe tutto il mondo esterno, quello dei turisti di Acapulco, per esempio, o quello della legge. A tale proposito, vedi, naturalmente, la sequenza del folle processo, davvero alla Alice nel paese delle meraviglie; ma vedi anche quei poliziotti vagamente comici che fermano O’Hara dopo l’omicidio (quasi dei Keystone Cops - figure, queste, che incantavano Welles: ne inserisce uno anche in The Hearts of Age). Inutile osservare che, ne La signora di Shanghai, la grande metafora del mondo è la Crazy House del finale (dove fra l’altro il cavaliere errante finisce in bocca a un drago).
Lungo tutto il racconto la voce narrante di O’Hara ci ripete ossessivamente quanto è stato ingenuo (fathead, boob). Troppo ossessivo per non essere sospetto, in un film di romanticismo folle ed esasperato (guai a prenderlo solo come una satira dell’immagine divistica, come suggeriscono alcune interpretazioni un po’ moralistiche) - dove il volto e il corpo di Rita Hayworth si stagliano come un incubo erotico. Ha ragione Yann Tobin: qualunque cosa si possa dire di lui, Harry Cohn non era nel torto quando fece inserire a Welles i primi piani.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

L'infernale Quinlan

Orson Welles
Il famoso piano sequenza iniziale fa incrociare tre volte la coppia degli sposi Vargas/Charlton Heston e Susan/Janet Leigh con l’auto dell’industriale dov’è piazzata la bomba: ovvero, nel piano sequenza si realizza quell’incrocio del destino che muove la macchina del racconto, giacché produce l’incontro di Vargas e di Quinlan, e conseguentemente tutti gli altri. D’altra parte il film, accanto alla figura shakespeariana di Quinlan/Welles e alla tragedia del tradimento, ha per tema l’incrocio, l’incrociarsi, il traversare la frontiera, the crossing in tutti i sensi: la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti ne è simbolo, già evidenziato nel piano sequenza iniziale: Tijuana è una città divisa in due da una linea invisibile (da questa città squallida Welles trae visioni di grande e disperata bellezza).
Seguono le due grandi scene in montaggio parallelo (nella versione restaurata), dove il loro interlinearsi, oltre a rendere più fluido il racconto, in qualche misura fa da contrappeso al piano sequenza precedente. Queste scene dividono l’unità di marito e moglie del piano sequenza; ora la coppia è separata, e con una specie di chiasmo i due si invertono geograficamente, l’americana nella zona messicana e viceversa, entrambi trovandosi in una situazione di disagio razziale e di passività.
Il tema del crossing si riflette nel matrimonio fra il messicano Vargas e l’americana Susan. L’odio di Quinlan per i messicani è sottolineato pesantemente nella battuta che la moglie di Vargas non sembra neanche messicana, un modo per far rilevare che è “bianca”; più tardi la pesante allusione di Quinlan sul fatto che la moglie di Vargas si è fatta abbordare sottende la sua convinzione che sia una donna facile perché ha sposato un messicano. Tutto ciò dà voce a quel concetto di miscegenation che attraversa il film - presente sia nel matrimonio di Susan con Vargas, sia nella scena di Susan con Zio Grande/Akim Tamiroff, figura buffa (il parrucchino, il sigaro comicamente fallico, assolutamente privo dell’imperiosità di quello di Quinlan/Welles) ma anche viscida e perversa (quel modo di leccarsi le labbra dopo l’incontro con la donna), sia nello stupro (suggerito, lasciato nell’imprecisione) da parte dei teppisti al motel. E anche nel razzismo inconscio di Susan che ribattezza sarcasticamente Pancho il giovane teppista dei Grande (del che lui si lagna subito con lo Zio).
L’insistenza di Susan per un motel vicino alla frontiera americana è un volersi ritrarre dal Messico, che fa pensare anche al suo matrimonio. E’ presente l’equazione a livello inconscio fra il Messico e la sessualità - lei è la fredda vergine bionda americana - e non sarebbe azzardato vedere nel laborioso stupro simulato che sperimenta nel film un’iniziazione alla sua sessualità anche nel rapporto col marito. Quando Susan fugge in sottoveste per la scala antincendio, applaudita dalla folla di messicani e americani che la prendono per una puttana, è la massima exposure; per la vergine americana tutta questa avventura è la vera perdita della verginità - in un film pieno di vetrate, di finestre, un film dove molto del privato si vede, si spia, diventa pubblico.. Forse c’è più dell’insulto nell’osservazione di Quinlan che lei si è fatta abbordare: la sessualità come attrazione e ripulsione insieme.
Anche Vargas, il diplomatico, si è americanizzato come comportamento maritale (ha senso che solo nell’esplosione al Rancho Grande torni volutamente allo spagnolo: “mi esposa”); e se è così quella frontiera che è il grande tema del film passa anche dentro di lui. E analogamente, quando per sconfiggere Quinlan deve far ricorso a mezzi che gli ripugnano, Vargas passa una frontiera morale.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

L'orgoglio degli Amberson

Orson Welles
Dopo il titolo, la voce nostalgica di Orson Welles entra su un lungo “nero” che poi sulla spinta di quella voce si apre al visivo con l’inquadratura della casa degli Amberson, in una descrizione incantata del tempo passato. L’istanza narrante si materializza nella voce. L’orgoglio degli Amberson è il film di Welles in cui più forte e dichiarato appare il suo legame con la radio: la voce narrante è generatrice della visione. Si permette anche a un certo punto di accennare un duetto verbale con un personaggio (la saggia signora pettegola), realizzando nella narrazione affascinanti spostamenti dello statuto di realtà. Più tardi, introduce - come per enunciarne la solennità - la potente riflessione del Maggiore Amberson sull’universo e la morte; vicino al finale, introduce e commenta, lenta e triste, la preghiera di pentimento di George. Inoltre, quale concretizzazione dell’istanza narrante, è responsabile della rivoluzionaria freschezza e densità del linguaggio visivo. Per questo alla fine, nei famosi credits visivi che sostituiscono i cartelli, al momento di nominare il regista vediamo nell’inquadratura la voce di Welles provenire da un microfono... “My name is Orson Welles”... che poi si allontana e sparisce nella dissolvenza, e ciò segna la fine del film.
Dice il luogo comune che Welles a differenza di tutti gli altri suoi film non è interprete negli Amberson. Ma la verità è che Welles interpreta gli Amberson due volte. E’ la voce narrante, nella sua materialità generatrice; ma è presente anche in un secondo modo, proiettandosi fisicamente nella narrazione attraverso l’interpretazione di Tim Holt, che in tutto il film sembra il suo doppio, una sovrimpressione spettrale. Welles trasforma Tim Holt in un particolarissimo stand-in di Welles stesso nel ruolo di George Amberson Minafer (già interpretato da Welles stesso nell’adattamento radio dell’ottobre 1939). E qui va ricordato che Welles affermava - ma la veridicità è dubbia - che Booth Tarkington, autore del romanzo, frequentasse la sua famiglia e l’avesse conosciuto nella prima giovinezza: lasciando intendere che il personaggio di George fosse stato modellato proprio su di lui.
Così Welles ne L’orgoglio degli Amberson trasforma la sua consueta tecnica proiettiva - di mettere in scena un personaggio che è una parte di se stesso, di una sfaccettatura della propria personalità polimorfa - in un gioco di specchi raffinato: dove Welles proietta se stesso nel corpo fisico dell’interprete per inscenare per interposta persona la proiezione di se stesso nel personaggio di George.
Una doppia presenza, non fisica ma materiale e fondante. Ora pensiamo alla grande scena della preghiera di George, la notte prima di lasciare per sempre casa Amberson, che chiede perdono alla madre morta (forse la scena più alta e libera, aperta e commossa, senza mediazioni, che Welles abbia mai girato; forse dovremo aspettare il Falstaff per vedere qualcosa di altrettanto diretto).
La voce narrante la introduce, la sorregge, implicitamente la giudica. Si realizza così un corto circuito fra le due presenze di Welles nel film: il Welles voce/istanza narrante, dal suo punto di vista assoluto, non focalizzato, onnisciente, guarda dall’alto e giudica il giovane Welles/personaggio, figura smarrita che è arrivato alla comprensione, nel corpo di Tim Holt.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

Quarto potere

Orson Welles
Siamo nell’ufficio di Thatcher, furioso per una “bufala” giornalistica inventata dal giovane Kane. In questa scena la curiosità a lungo protratta dello spettatore è finalmente esaudita, con l’apparizione di Welles “al naturale”, giovane e sorridente, dopo che lo abbiamo visto truccato da vecchio morente nell’apertura e poi sotto varie forme di trucco nel cinegiornale (la varietà illusionistica e teatrale dei volti di Kane a varie età nel film replica il fervore dimostrativo della magia dello spettacolo che indirizza l’opera di Welles. La parte di Kane è una vera orgia del trucco).
E’ un momento fortemente enunciativo. Citizen Kane (Quarto potere) il pubblico deve vederlo in quanto film di Welles, il genio del teatro e della radio approdato a Hollywood, quello che dopo War of the Worlds i giornali hanno a lungo chiamato “il marziano”.
E Kane dice: “Non capisco niente di giornali, signor Thatcher, quindi provo quello che mi viene in testa”. Basta mettere “cinema” al posto di “giornali”, e l’identificazione è completa; è lampante il riferimento autoironico alla sua avventura hollywoodiana appena iniziata. Del resto, potremmo osservare, se Orson Welles è il golden boy della RKO, l’appellativo si attaglia perfettamente anche a Kane - la cui ricchezza viene, in origine, da una miniera d’oro.
S’intende che l’episodio del telegramma all’inviato a Cuba ci riporta immediatamente a Hearst. Kane è una figura doppia. Non si tratta certo di cancellare idealmente il nome Hearst da Citizen Kane per scrivere al suo posto Welles; il riferimento a Hearst, e quello (crudelmente ingiusto) a Marion Davies nel film sono scontati, attizzati dall’odio del co-sceneggiatore Herman Mankiewicz. Ma Citizen Kane, che all’inizio doveva chiamarsi American, è molto di più; è una gigantesca autobiografia americana (come lo sarà il film col quale forma un dittico, L’orgoglio degli Amberson) e in questa anche Welles ha la sua parte. Ripensiamo a come in tutta la sua carriera Welles abbia costruito i propri personaggi quali doppi che esprimono una parte di sé.
Tanto Welles è elegantemente evasivo quando si esprime nelle interviste, quanto è chirurgicamente lucido quando si esamina nella proiezione dei suoi personaggi. “In fondo oggi ha rifatto la prima pagina solo 4 volte”: una battuta che, a sentirla oggi, non possiamo non vedere come puro autoritratto, se pensiamo che per tutta la vita la caratteristica profonda di Welles - e la rovina dei suoi rapporti coi produttori - sarà l’ossessione di rifare continuamente il film (dice Leland/Joseph Cotten più tardi: “Non ha mai finito niente in vita sua - salvo il mio articolo”; altra battuta che mette i brividi). Quando Leland ubriaco, dopo la sconfitta elettorale, critica il paternalismo di Kane e gli preconizza un triste futuro, questo non fa pensare solo al magnate della sceneggiatura.
Perché la massima grandezza del venticinquenne Welles in Citizen Kane è proprio di amplificare i suoi tratti autobiografici in una proiezione futura; si può dire che sotto la maschera (doppia, anzi, multipla) di Kane Welles mette allusivamente in scena non solo il proprio presente ma anche i suoi timori, un futuro possibile, una propria parte negativa che il film è un mezzo per isolare, esaminare, esorcizzare nella creazione artistica.
Il tema del fallimento esistenziale, e dell’auto-esilio in un artificiale “regno della delusione” (qui l’eternamente incompiuta Xanadu, macchina celibe architettonica), è talmente insistente in Welles fin dal primo film che non si può non pensare a un terrore continuamente presente - anche in questo inizio pieno di speranza - sotto il sorriso un po’ sfacciato del golden boy.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

Animal House

John Landis
Quando gli executive della Universal lessero la sceneggiatura di National Lampoon’s Animal House, scritta da Doug Kenney, Christopher Miller e Harold Ramis, ispirata in teoria alle esperienze di college degli ultimi due, gli vennero i capelli dritti. Persino John Landis, futuro regista del film, fu spaventato dalla foga iper-anarchica dei tre. Comunque, con qualche spruzzata d’acqua sulle gag più distruttive da un lato, con qualche accorgimento per convincere la riluttante Universal a mandare avanti il progetto dall’altro, Animal House vide la luce - e nacque il capolavoro assoluto della commedia demenziale americana.
Risposta paradossale e ghignante ad American Graffiti, Animal House trasforma la nostalgia in irrisione, e la poesia in rivolta. E’ l’epopea della malfamata confraternita universitaria dei Delta in guerra con gli Omega (i figli conformisti della upper class) e contro il preside del college, nel 1962: una guerra contro le regole del gioco e contro l’universo ipocrita che li circonda, combattuta a base di musica, birra, oscena fisicità, fornicazione e toga party. Una guerra che culmina nello sconvolgimento della gran cerimonia laica dei buoni sentimenti americani, la parata cittadina: dove i Delta attaccano imparzialmente tanto i simboli dell’America guerriera degli anni ’50 (il plotone di studenti in formazione militare) quanto la retorica kennediana dei ’60 (il carro con due mani che si stringono, una bianca e una nera - e vengono separate e vanno ognuna per la sua strada). Easy Rider? Il laureato? Fluffa. La vera rivolta sullo schermo è Animal House.
Ma cosa sarebbe Animal House senza John Belushi? E’ questo comico del Saturday Night Live, di famiglia albanese, che regala la sua corposità esagerata all’indimenticabile Bluto, l’animal più animal della house, e che incarna il vero paradigma comico degli anni ’70. La sua comicità è basata sull’iperbole. Sarebbe piaciuto ad André Bréton l’ignobile, dolce, grasso, sudato, sconvolto e immenso John Belushi - che fa schifezze inenarrabili in mensa riempiendosi le guance come un criceto, che lancia un indimenticabile sguardo complice al pubblico mentre spia le ragazze che si spogliano, che per distruggere il corteo cittadino riesuma senza saperlo l’eroismo esotico del nostro Sandokan.
O che in Blues Brothers si toglie - per una sola e unica volta - gli occhiali neri ed esibisce romantico gli straordinari occhioni umidi, mentendo a quattro palmenti, per imbrogliare Carrie Fisher, fidanzata delusa che gli sbarra la strada; salvo farla cadere a terra e scappar via non appena lei si è commossa e ha abbassato l’arma.
Solo sette anni dopo Animal House, John Belushi, che era stato a lungo dipendente dalla cocaina, moriva a 33 anni per un’iniezione di speedball (eroina più cocaina in vena). Il tempo ha talmente fuso la sua immagine con quella del film che oggi Animal House - con tutte le sue gustose interpretazioni, Tim Matheson e Donald Sutherland, Tom Hulce e Karen Allen, senza scordare l’eccezionale Verna Bloom (la moglie alcolizzata del preside) - lo ricordiamo quasi come un lungo a solo di John Belushi. Ma forse è giusto così.

(Il Nichelino)

venerdì 26 settembre 2014

L'imperatrice Yang Kwei-fei

Mizoguchi Kenji
La Cina del VIII secolo della dinastia Tang fa da sfondo al primo dramma in costume girato a colori da Mizoguchi, prodotto dalla Daiei con la Shaw Brothers di Hong Kong. Benché Yoda nelle sue memorie accenni al poco interesse di Mizoguchi per il colore, i suoi soli due film a colori (apprezzati più in Occidente che in Giappone) sono di una bellezza rimarchevole. Per L’imperatrice Yang Kwei-fei Mizoguchi assieme ai suoi collaboratori sceglie tonalità pastello, variazioni sui colori primari, che però acquistano grande profondità e cupezza. In questo film come nel successivo Shin Heike Monogatari, Mizoguchi adotta negli esterni uno stile quasi flamboyant, diffondendosi in vignette di popolo (la sequenza della festa) che sembrano una novità nel suo cinema; peraltro, accanto a questo senso di profusione resta quell’elemento di condensazione rigorosa dell’immagine che conosciamo. Le scenografie curate da Mizutani Hiroshi sono irreali; il regista crea un mondo che non ha a che vedere con la realtà storica, anzi accentua il carattere di diversità e astrazione rispetto a questa (dove poi la vera Yang Kwei-fei era una figura ben differente). Mizoguchi e Yoda la trasformano in una ragazza semplice, trattata come una Cenerentola dalle sorelle; pongono un legame stretto fra lei e il mondo popolare, di cui si fa tramite presso il monarca che esclama: “Dimentico che sono imperatore, mi sembra di essere un uomo del popolo”. Non dimentichiamo che il protagonista è in primo luogo un artista (la sua noia verso gli affari di Stato è espressa all’inizio del film): la sua verità interiore sta nella musica e non nei riti del potere.
Yang Kwei-fei e il sovrano sono esseri vibranti di sentimenti e di passioni, e insieme sembrano aleggiare distanti, silenziosi, puri fantasmi. Nella conclusione le stanze imperiali sono devastate dal tempo, polverose, piene di foglie morte, ma in esse risuona ancora quel dialogo della coppia appena riunitasi nella morte che appartiene al presente narrativo del film; un collegamento fra l’adesso delle voci e il dopo dell’immagine che è anche un’elegia del tempo, come se l’amore risuonasse in quelle stanze ancora molto dopo la scomparsa dei due. Proprio come ne I racconti della luna pallida d’agosto i vivi e i morti (e il tempo dei vivi e il tempo dei morti) coesistono sullo stesso piano.
 
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)


L'intendente Sansho

Mizoguchi Kenji
L’intendente Sansho – Leone d’argento alla Mostra di Venezia 1954 - è uno dei capolavori assoluti di Mizoguchi, tratto da una novella di Mori Ogai del 1915. I vari cambiamenti di nome nel corso del film (due nomi per la madre, due per Anju, addirittura tre per Zushio), pur non essendo affatto anomali per la cultura giapponese, segnalano simbolicamente quella mutevolezza continua e mercuriale del destino che è uno dei motivi base del cinema di Mizoguchi. Al centro del film c’è il concetto di misericordia, e lo materializza fisicamente la statuetta di Kwannon, dea della misericordia, che non a caso per ben due volte nel film ha il ruolo di rendere possibile un’agnizione. E proprio nell’opposizione fra pietà e mancanza di pietà si costruisce il film, attraverso lo sdoppiamento tra due figure paterne per il protagonista Zushio: il vero padre scomparso e il suo crudele padrone Sansho, col quale egli arriva a identificarsi, come sottolineano nella composizione dell’inquadratura le due scene della marchiatura a fuoco. Anche qui, il ruolo delle donne è di portatrici della pietà e della ragione; e anche qui si riproduce – con la storia di Anju, ma anche coi tentativi della madre di fuggire – il tema centrale del sacrificio femminile. Peraltro non si trova mai, in Mizoguchi, un ottimismo moralistico: basta vedere la sequenza della festa orgiastica degli schiavi liberati nell’ex casa di Sansho, che potrebbe richiamare alla mente il buñueliano Viridiana. La fotografia di Miyagawa Kazuo raggiunge in questo film uno dei punti più alti toccati dal grande collaboratore di Mizoguchi, e la stessa eccellenza va riconosciuta alla colonna sonora, con la score musicale di Hayasaka Fumio e il suo abile gioco fra oggettivo e soggettivo. Secondo le memorie di Yoda, Mizoguchi avrebbe desiderato realizzare il film in Cinemascope, formato che aveva conosciuto durante il suo viaggio a Venezia per la presentazione de I racconti della luna pallida d’agosto alla Mostra del Cinema.
 
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)

I racconti della luna pallida d'agosto

Mizoguchi Kenji
I racconti della luna pallida d’agosto – Leone d’argento alla Mostra di Venezia 1953 - rappresenta uno dei vertici dell’attività registica di Mizoguchi, che si misura con il difficile compito di trasporre due diversi racconti del grande scrittore giapponese del diciottesimo secolo Ueda Akinari incrociandoli con una novella di Guy de Maupassant. Accanto a Tanaka Kinuyo (Miyagi), appare nella parte della spettrale Lady Wakasa un’altre delle grandi attrici mizoguchiane: Kyo Machiko, che nel 1950 aveva interpretato Rashomon di Kurosawa Akira, e tornerà a recitare per Mizoguchi ne L’imperatrice Yang Kwei-fei, Shin Heike Monogatari e La strada della vergogna.
La straordinaria fusione operata da Mizoguchi tra realismo poetico e misticismo surreale crea un’atmosfera rarefatta, bellissima e austera. Il film è anche una metafora sul dolore e le aberrazioni causate dalla guerra. In tutto il film vediamo la guerra e i soldati sotto la luce più antieroica possibile. Memorabile e terribile è la comparsa dei due diversi gruppi di soldati che stuprano Ohama e uccidono Miyagi: entrata in campo con la più assoluta semplicità: la guerra è appena fuori dal bordo dell’inquadratura. 
Narrativamente l’opera è strutturata attraverso un articolato e complesso gioco di parallelismi e rimandi (Tobei e Ohama sono il doppio basso-mimetico, caricato di sobri effetti umoristici, della coppia protagonista); entrambi i due mariti si buttano volontariamente in braccio alle loro illusioni, abbandonando le due mogli che oppongono loro la voce inascoltata della ragione; inoltre, la vicenda di Genjuro si sdoppia fra una moglie reale, che abbandona (e riapparirà come fantasma), e una moglie spettrale che invece desidera, finché non dovrà rendersi conto della sua vera natura. 
Ne I racconti della luna pallida d’agosto il mondo dei vivi e quello dei morti si intersecano e s’incrociano, comunicano tra loro, quasi si fondono. Così il mondo “reale” e la fortuna terrena diventano qualcosa di impalpabile e mutevole, in continua trasformazione, qualcosa che mai si riesce a stringere e possedere – e il concetto è connesso nel film al magnifico uso degli spazi da parte della regia di Mizoguchi. Tutte le scene dell’incontro tra Genjuro e Wakasa, attraverso l’alternanza tra esterno ed interno sono un esempio perfetto della dicotomia visiva tra realtà fisica e ombre eteree.
In tutto il suo cinema Mizoguchi riflette sulla figura dell’artista; il film che più chiaramente realizza il suo discorso è, naturalmente, Utamaro o Meguru Gonin no Onna. Nel presente film, Genjuro è un abile vasaio, che però inizialmente non persegue la bellezza in sé (come per Utamaro, l’arte trova in se stessa il proprio scopo) ma a scopo di guadagno e di promozione sociale. Infatti nella spettrale Lady Wakasa Genjuro non è attratto solo dal sogno di un amore aristocratico ma anche dal riconoscimento, per bocca della nobildonna, dell’eccellenza dei suoi lavori. La conclusione lo vede non solo contento di rimanere nel proprio villaggio, come Tobei, ma purificato dai sogni di gloria da ottenere mediante il suo lavoro. Sua moglie Miyagi devota fino all’estremo, la cui voce fantasma accompagnerà Genjuro nella sua esistenza a venire, è l’emblema di questi valori, dell’amore e della serenità familiare. 

(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)

 
 


Vita di O-Haru, donna galante

Mizoguchi Kenji
Leone d’argento alla Mostra di Venezia del 1952, il film è tratto dal romanzo del 1686 Kokoshu Ichidai Onna (“Vita di una donna amorosa”) dello scrittore giapponese classico Saikaku Ihara. Distanziandosi dallo sguardo ironico di Saikaku, Mizoguchi dipinge O-Haru in un’ottica tragica, mostrando il suo carattere di vittima di una società gerarchica, maschilista e patriarcale. Gradualmente assistiamo al suo disfacimento e alla sua rovina, da oggetto di bellezza e ammirazione a ripugnante esempio di corruzione per lo sguardo moraleggiante del prossimo. Le “stazioni” della progressiva decadenza di O-Haru realizzano anche un affresco d’epoca e delle varie forme sociali della condizione della donna nel XVII secolo. 
Dal punto di vista formale è straordinario il modo in cui Mizoguchi crea una dialettica tra esterno e interno per mostrare il conflitto tra dovere e sentimento, come nella scena della dichiaraione d’amore di Katsunosuke. A esprimere la dialettica di emozioni tra i personaggi sono quasi sempre i gesti, i movimenti del corpo, le posture degli attori in scena. La donna diviene personaggio principale e narratore delle vicende del film, cosicché l’oggetto dello sguardo e il soggetto della narrazione diventano tutt’uno.
Vita di O-Haru pone un’opposizione tra lo sguardo della protagonista e lo sguardo degli uomini (e donne di rango superiore) su di lei. Questo è uno sguardo libero, diretto, aperto (anche quando viola spazi chiusi: lo sguardo del messo del signore Matsudaira che coglie O-Haru mentre si esercita alla danza dietro dei paraventi bianchi). Viceversa, lo sguardo di O-Haru è uno sguardo negato, deviato: ora proibito, ora costretto in un sistema di regole che lo determinano rigidamente. Perfino in veste di prostituta deve recitare la commedia di un pudore da giovincella, cosicché lo sguardo, di sotto la manica del kimono che le fa da copricapo, invece di essere provocante è deviato con falsa timidezza. Oppure vedi tutto il gioco degli sguardi quando O-Haru viene presentata al nobile Matsudaira, in presenza della moglie di questi, durante uno spettacolo di burattini che realizza una ironica mise en abyme della situazione. Contestualmente, in tutto il film O-Haru non è agente ma agita, non è determinante ma determinata. Non si può non osservare che questo vale anche per la dichiarazione d’amore del samurai. Ciò non significa che sia una persona remissiva: il film mette in luce più volte il suo carattere ribelle, dalla difesa del suo amore perduto di fronte ai genitori fino all’ultima ribellione contro l’uomo che l’ha presa in affitto come prostituta solo per esibirla ai pellegrini a scopo di moralità. 
La penultima scena, che mostra in campo lungo i cortigiani che cercano O-Haru fuggita nei giardini del nuovo signore Matsudaira, rappresenta un uso particolarmente geniale del framing mizoguchiano: la costruzione dell’immagine, tutta barriere visive, riduce questa scena effettiva a uno spicchio rettangolare di schermo. Nel che possiamo vedere un’anticipazione di quell’allontanamento dal mondo – quella comprensione della sua inessenzialità - che subito si traduce nella sequenza finale, con O-Haru monaca che chiede la carità di porta in porta e vedendo di lontano una pagoda si inchina a mani giunte.
 
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)

 

Miss Oyu

Mizoguchi Kenji
Tratto da un romanzo di Tanizaki intitolato Ashikara, il film è ambientato nell’epoca Meiji. Frutto di un accurata ricostruzione d’ambienti, la ricerca estetica del film, di grande rilievo, più che l’era Meiji, ricorda molto da vicino lo spirito dell’età Heian, età d’oro per eccellenza della storia giapponese: molto spazio è dato alle scene dedicate a cerimonie del tè ed esecuzioni musicali, che rievocano gli splendori dell’età classica. Oyu ama vestirsi in modo arcaico quando offre i suoi concerti di koto, e tutto il suo personaggio è segnato di una raffinatezza quasi estenuata. 
Si potrebbe sostenere che Oyu-sama sia il capolavoro di Yoda come sceneggiatore. All’inizio del film Shinnosuke vede Oyu camminare in un boschetto, si innamora immediatamente di lei, e crede che sia Oshizu: già l’apertura ha espresso tutto; nel corso del film, niente è enunciato, tutto è esplicito, eppure tutto è perfettamente chiaro. I giochi del non detto, ma evidente, si incrociano con la drammaticità del detto – come nella confessione di Oshizu in punto di morte – scavando in profondità nello spettatore, coinvolgendolo emotivamente in modo lento ma inesorabile.
Il film caratterizza splendidamente l’ambiguità di Oyu, fra consapevolezza della situazione – all’inizio con il fidanzato della sorella ha momenti di autentica coquetterie, ed è lei a manovrare affinché questa situazione di rapporto a tre si realizzi – e il senso di colpa quando viene a sapere del reale rapporto fra Shinnosuke e la moglie. Tanaka Kinuyo è perfetta nel rendere questa ambiguità – indimenticabile la scena in cui Oshizu si veste per il matrimonio e Oyu, vicina a lei, la guarda con occhi affettuosi, ma anche con un fondo di impenetrabile durezza, come pozzi di acqua nera. In Mizoguchi il concetto di sacrificio (non solo di una donna per un uomo: qui, di Oshizu per la sorella) è portato al calor bianco. Se, com’è stato giustamente detto, Mizoguchi è il cineasta della passione, anche questa è passione: l’intensità sublime e suicida del sacrificio. 
  
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)
 

Donne della notte

Mizoguchi Kenji
Yoru no onnatachi affronta il dramma della prostituzione nel Giappone del dopoguerra con grande realismo ed estrema autenticità. Il film inaugurerà un filone, poi ripreso in anni più recenti da altri autori con esiti molto buoni, quello dei cosiddetti panpan mono, che descrivevano la vita delle prostitute di strada nei quartieri a luci rosse dei grossi centri urbani. 
Teatro delle vicende è Osaka, ancora ridotta in macerie dai bombardamenti. I titoli di testa appaiono su una larghissima panoramica a sinistra, ripresa molto dall’alto, sulla città di Osaka, e tale panoramica immediatamente introduce agli occhi dello spettatore l’aspetto di realismo documentaristico del film, e la sua ideale parentela con il neorealismo italiano. Questo film di macerie materiali e morali, di gioventù disperata (“Noi giovani non potremo mai più essere felici”) e rabbiosa, è attraversato ossessivamente dal tema dei figli perduti; anche per questo la potente sequenza finale dell’aggressione a Kimiko e Fusako si svolge sotto l’immagine di una Madonna con Bambino nei resti di una chiesa cristiana bombardata. Tuttavia, dopo che Kimiko e Fusalo sono uscite di scena e che un movimento di macchina nell’allargarsi al totale ha eliminato dall’inquadratura l’immagine della Madonna, rimane solo la visione tragica (quasi un tableau teatrale, e ve ne sono diversi nel film) delle prostitute distese a terra in un paesaggio di macerie.
Grande (e spietato), Mizoguchi nel film gioca su un eccellente trittico femminile: Tanaka Kinuyo, la sua attrice-feticcio, come Fusako sviluppa tutta una gamma di tratti della personalità che pur evolvendosi in direzioni opposte si integrano in un quadro coerente; Takasugi Sanae porta un alone di sensualità al personaggio di Natsuko (in seguito l’attrice lavorerà con i principali registi giapponesi, da Ozu a Naruse, da Ichikawa a Kinoshita a Shindo, ma non più con Mizoguchi); infine la giovane Tsumoda Tomie tratteggia molto bene nel ruolo di Kumiko la caratterizzazione generazionale che contraddistingue il personaggio. Purtroppo non si trova notizia di altri film da lei interpretati. 
 
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)
 

Cinque donne intorno a Utamaro

Mizoguchi Kenji
Utamaro Kitagawa (1753 circa – 1806) è stato uno dei più grandi autori di ukiyo-e: “immagini del mondo fluttuante”, stampe realizzate mediante incisione su legno e dipinti che presentano con stile nuovo e vivido scene di natura e paesaggi, ritratti di famosi artisti del teatro, altri personaggi famosi come i lottatori di sumo, scene dei quartieri del piacere, ritratti di geisha e cortigiane, nonché scene erotiche (shunga). La loro produzione di massa le rendeva economicamente più accessibili dei dipinti. 
Pittura di carne e di sangue”, viene definita (da Seinosuke) l’arte di Utamaro, e giustamente – in un film privo di ogni orpello di “documentarismo artistico”, dove l’unica vera enunciazione delle opere di Utamaro si trova solo nella breve inquadratura finale – il suo disegno che meglio vediamo è quello realizzato sulla schiena della geisha Takasode, disegno che morirà con lei: la pittura assume la fragilità, l’essenza transeunte del corpo.
Utamaro è una parabola sull’artista e sulle difficoltà di esprimersi liberamente durante epoche di rigido conformismo, tema nel quale si può anche leggere un’allusione al controllo creativo e alla pressione culturale esercitata sugli artisti giapponesi prima sotto il regime militare e poi sotto l’occupazione americana. Ed è soprattutto un esempio della continua riflessione di Mizoguchi sul tema dell’artista e dell’arte, che rappresenta il suo modo necessario di rapportarsi all’esistenza. “Voglio disegnare!” urla Utamaro, costretto nelle manette, dopo la straziante sequenza dell’addio di Okita; e non appena - nella scena seguente - l’artista viene liberato, comincia a disegnare freneticamente dicendo: “Lo spirito di Okita, il corpo di una cortigiana, Oran che pesca… dipingerò la bellezza delle donne… una dopo l’altra!”. E' allo stesso tempo l’essenza dell’ispirazione di Utamaro e il riassunto del film: l’equiparazione fra Utamaro e Mizoguchi è compiuta.
  
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)