Laura Samani
Per
parlare dello splendido Piccolo corpo
di Laura Samani (fotografato da Mitja Licen, montato
da Chiara Dainese, prodotto
da Nadia Trevisan
e Alberto Fasulo) si potrebbe
partire da un magro pasto in montagna – consumato
su un ripido declivio coperto dal tappeto giallo delle foglie cadute
– composto di funghi crudi e nocciole,
quelle poche nocciole
che non sono fraides,
marcite (il film è parlato
in veneto e friulano, le
due lingue del Friuli, con
sottotitoli italiani).
C’è qui come altrove una
stupefacente immediatezza sensoriale, e immediatezza
è la parola chiave dell’opera.
Immediatezza delle sensazioni, del tempo, del cammino, delle
atmosfere – una materialità
su tutti i piani che dal concreto estremo
sfiora il metafisico, e che
fa pensare al miglior cinema di Ermanno Olmi, o
nel campo contemporaneo a
Michelangelo Frammartino.
Il film (avviso: questo testo
contiene spoiler basilari) si ambienta nel
Friuli ancora arcaico del
primo Novecento.
Su un’isola di pescatori,
Agata (Celeste
Cescutti)
partorisce una bambina morta prima di
poter essere battezzata. In
base alla concezione (di allora) della Chiesa cattolica, la bambina
dovrà passare l’eternità
nel Limbo; e
Agata, risponde alla sua domanda il prete del luogo, potrà rivederla
soltanto nei sogni.
Il
marito si rassegna; Agata,
che l’ha portata in grembo
e partorita con dolore,
no. Un
compaesano – che due secoli
prima sarebbe stato un benandante – le parla di un santuario
in Val Dolais, sulle
montagne, dove i
neonati morti si risvegliano miracolosamente per il tempo di un
respiro, quello che occorre per il battesimo. Agata
disseppellisce di notte il corpicino e, con
la bambina morta dentro una cassa legata sulla schiena, fugge
dall’isola e si avventura in un faticoso
viaggio a piedi verso
il santuario, attraverso il
territorio sconosciuto della pianura
e le montagne. Per strada incontra un giovane moralmente
ambiguo
soprannominato Lince (Ondina
Quadri), che sembra volerla
aiutare ma ha i suoi piani – ma
che comunque finirà
come compagno del viaggio.
Fin
dall’inizio – dove il canto a “Maria sensa pecà e sensa
macia” risuona sui titoli di testa, e l'apertura è sul rito
apotropaico per la donna incinta (“Fora la disgrassia, entra la
grassia, disgrassia va via, entra Maria”) – il film va oltre
quella che potrebbe essere la descrizione dall'esterno di una
credenza popolare per aprirsi a una dimensione di intensità e
meraviglia. Così, la concretezza della sabbia e delle piante
salmastre dell’isola, delle strade di montagna e dell’erta
scivolosa di foglie morte, dell’aria fredda del lago e della neve,
si lega alla concretezza delle credenze e delle superstizioni. Come
quella montagna che inghiotte le donne, e che Agata sfida
“travestendosi”, annerendosi il viso con la terra prima di
addentrarsi. Tutto è magico, tutto conserva una risonanza
primigenia. Un mondo che ci ricorda l’etnologia “disponibile”
di Carlo Ginzburg.
E’,
il film, un viaggio non solo geografico, che va dal “qui ed ora”
(ad Agata familiare) dell’isola a un progressivo rarefarsi fino una
dimensione finale che si tinge di un crudele tono fiabesco.
Paragoniamo due episodi relativi al valore di scambio: se
all’inizio del viaggio il valore del latte materno nei seni riporta
ancora a una determinazione storica di classe (tentano di rapire
Agata per cederla come balia a una famiglia facoltosa), verso la
conclusione il valore dei capelli che le donne sagge le tagliano dopo
averla salvata dall’emorragia è pur sempre valore di scambio,
mercantile, ma viene assimilato e come contagiato dal resto della
sequenza, per cui tutto ha un sapore di rito antico.
Quasi
tutti i personaggi sono femminili – anche Lince si rivela donna,
nei suoi abiti di maschio – e sono portatori di un antico sapere
femminile che si è nascosto e perdura sotto l’ordine maschile
della società. Tutta una società femminile emerge in primo piano
nel film. Donna è la brigantessa a capo della banda, donne sono le
guaritrici dove Lince porta Agata in emorragia, donna è la
sacerdotessa del santuario. E’ significativo che solo le donne
hanno, nel racconto, il privilegio di vedere il corpo della bambina
nella cassa: la brigantessa, la sacerdotessa, e la stessa Lince
(prima ingannato da Agata che come in una fiaba gli promette metà
del contenuto della cassa) solo alla fine, quando la sua femminilità
ci è stata svelata. Prima, c’è per lei un passaggio intermedio,
di transizione: Agata le confessa la verità sul contenuto della
cassa, senza mostrarglielo, e Lince ha un momento di ripulsa in cui
esprime la sua paura: “Mi fâs pore… No si dà un non as robes
muartes”.
Questa
centralità dell’elemento femminile vale anche, e soprattutto, per
le credenze. Quando Agata all’inizio del film, nel rito apotropaico
già citato che invoca Maria, si fa un taglio sulla mano e poi fa
colare il sangue nell'acqua del mare, è con tutta evidenza un rito
antichissimo, precristiano, e se lo colleghiamo all’universalità
femminile del film, ci rendiamo che la Maria venerata nel film (non
il Padreterno) è un esempio di sincretismo religioso e
assimilazione: dietro di lei traspare la divinità femminile, la
Grande Madre. Non ci stupiamo quindi di vedere alla fine che a lei è
dedicato il santuario, con la sua immagine corredata dagli ex voto.
Con
il passaggio del lago, oltre il quale sta il santuario, inizia la
parte fantastica e simbolica del film. Ricordiamo che in precedenza
le donne sagge dicevano che nessuna era tornata indietro a
raccontarne (e avevano ammonito Agata: “Pensitu di meritati
chest miracul?”). Il battelliere che porta Agata sul lago –
leggiamo nei titoli di coda – si chiama Caronte.
Questo
santuario si trova oltre la vita – e la conclusione nella fredda
pace delle acque profonde del lago, dove Agata può abbracciare la
sua bambina, rappresenta una sublimazione del viaggio nell’acqua,
l’elemento femminile per eccellenza; e il nome della piccola ora
battezzata è Mare.