A
giudizio pressoché unanime, il Far East Film Festival 2017 di Udine
è stata una delle edizioni migliori. Ed ecco una breve carrellata
(si dice breve per educazione, e inganno, ma non è breve) su quei
film che ho avuto modo di vedere.
Partiamo
da Hong Kong,
non solo perché il FEFF è nato lì, ma perché questo è stato
l'anno hongkonghese: con la bellissima retrospettiva
“Creative Visions”
sui film hongkonghesi più importanti girati
nei
vent'anni
dall'Handover
(il passaggio alla Cina); con il restauro
(primo
restauro del
FEFF)
di quel capolavoro assoluto che è Made in
Hong Kong (1997) di
Fruit Chan; e naturalmente col
film di chiusura, Shock Wave
di Herman Yau.
Iniziamo
da questo: interpretato da un
Andy Lau particolarmente ieratico,
Shock Wave è
uno dei migliori film del regista, e forse il più costoso –
ma, merito della buona
sceneggiatura di Erica Li, Yau domina assai bene la materia, con una
tensione continua senza sbavature. Storia del ricatto alla città da
parte di un gruppo di criminali che hanno minato uno dei suoi grandi
tunnel, pieno di ostaggi, è un poliziesco d'azione incentrato sui
concetti di righteousness
e di sacrificio per la comunità, con una tragicità che non potremmo
vedere nel cinema americano. Nota che l'ultima scena, la sepoltura
dei caduti, si svolge in un tripudio di bandiere hongkonghesi, e il
poliziotto con la cornamusa è
sì una caratteristica della polizia di Hong Kong, ma riafferma
visivamente la cultura della città col suo influsso britannico.
Il
prolifico (e disuguale)
Herman Yau era presente anche con un altro film, The Sleep
Curse – che chi ha visto non
rivedrà mai più sul grande schermo, giacché
il FEFF ha potuto mostrare
l'edizione integrale che non apparirà più (se non cult
movie uncut in DVD):
questo
horror contiene un paio di scene efferate
(l'evirazione in dettaglio!)
in
confronto alle quali il
famoso
The Untold Story di
Yau sembra
Walt Disney. Dopo un inizio un po' faticoso, il film prende il volo
con una
doppia storia (“racconto primo” e flashback, ambedue con Anthony
Wong, come padre e figlio) con invenzioni macabre (splendida quella,
unico tocco umoristico, del cervello rubato contrabbandato dentro un
durian) che diventano sempre più sanguinarie, fino all'esplosione
di pura follia del
finale.
Se
questo ci riporta ai bei tempi della Categoria III, va detto che la
nostalgia è la caratteristica principale della parte
più viva del cinema di Hong Kong. Tutta nostalgia di un cinema che
si identifica con la grande stagione degli hopping
vampires)
è il
gustoso Vampire
Cleanup Department (vedi scheda sotto).
Allo
stesso modo, è nostalgia pura l'incantata rievocazione della storia
di Hong Kong, collegata a un discorso sentimentale sull'amore e la
perdita, nella
commedia
surreale Shed Skin
Papa
di Roy Szeto, con
Louis Koo e Francis Ng. Dopo
la morte del padre malato di Alzheimer il protagonista (un aspirante
regista fallito) se lo ritrova in casa moltiplicato per sette – in
quanto fa la muta come i serpenti,
ogni
volta ringiovanendo
di dieci anni, e a un
certo
punto tutte le pelli scartate
riprendono vita!
E
ancora, uno sguardo diretto e preciso alla Hong Kong popolare si
ritrova in Mad World,
dramma dell'esordiente Wong Chun, in cui il camionista Eric Tsang
(uno dei due Gelso
d'Oro alla Carriera
conferiti quest'anno dal FEFF) deve convivere con un figlio bipolare.
Bel
film degno di nota per
la sua sobrietà, privo di quell'ondata di spiegoni, retorica, buoni
sentimenti e cattivo melodramma che ci avrebbe messo un regista
italiano (e un americano, quasi).
Com'è
noto, il cinema hongkonghese
attualmente deve scegliere fra storie di sapore locale e le
coproduzioni Hong
Kong-Cina,
che non sempre riscontrano i gusti del pubblico nella ex colonia ma
in compenso si
aprono
l'immenso mercato della Cina continentale. Di queste è un esempio
Kung Fu Yoga,
di Stanley Tong, con Jackie Chan. Ora, Jackie Chan è sempre
simpatico, e l'imprevisto balletto finale stile Bollywood è una
graziosa idea. Ma
questo
è il massimo che si può dire di un film stanco e singolarmente mal
diretto –
basta
vedere come Stanley Tong, che pure è il veterano autore di Terremoto
nel Bronx,
spreca la pagina di Jackie Chan in auto con un leone, nell'abissale
segmento ambientato a Dubai. Già meglio, benché alquanto
didattico,
Extraordinary
Mission
di Alan Mak e Anthony Pun (ma siamo lontani dal fantastico Operation
Mekong
di Dante Lam, che non è apparso al festival perché già
molto visto a livello internazionale).
Quest'anno
viene dalla Cina
continentale
una
pattuglia eccellente, che ha rappresentato uno dei punti alti del
festival. Il capolavoro del FEFF di quest'anno è I
Am Not Madame Bovary
(vedi scheda sotto)
di
Feng Xiaogang, il quale ha ricevuto l'altro Gelso d'Oro alla Carriera
dell'edizione 2017.
Accanto
a questo film di
straordinario
livello, cito
subito Mr. Zhu's Summer
–
descrizione in chiave leggera, anche se con sottotoni tristi, delle
disgrazie di un insegnante sfortunato e di due ragazzi difficili che
lo mettono nei guai ma che lui aiuta a crescere. Il
film ha un tocco delicato e anche l'elemento
drammatico non è mai strappalacrime. Quel
naturale umorismo che salta sempre fuori quando
sono al centro dei bambini (qui
una vera folla) lo rende
gradevolissimo; il film qui
raggiunge tocchi quasi truffautiani. Naturalmente è anche uno
sguardo sulla scuola cinese, capace di allargarsi anche al
di fuori (assai
bello, quasi una candid
camera, l'episodio
del matto che regala banane, con la reazione allarmata
della gente).
Someone
to Talk To di Liu Yulin, storia
di crisi matrimoniale,
affronta senza antonionismo il tema dell'incomunicabilità.
Questo quadro complessivo sull'incomprensione reciproca, gli
equivoci, gli egoismi esistenziali, le piccole meschinità, mette in
scena una catena implacabile di causa-effetto sulla base di un
pessimismo assoluto. Va aggiunto che certe sceneggiature molto
ordinate, con snodi e giunture tutti perfetti, a volte respingono lo
spettatore; mente qui la quieta bellezza della regia di Liu Yulin,
insieme alle ottime interpretazioni, ci evita tale rischio.
Duckweed
di Han Han, che cresce dopo un inizio infelice, approfitta del tema
del viaggio nel tempo per una descrizione calda e divertente della
Cina fine anni Novanta. Il film è
pieno di jokes alla
Ritorno al futuro che
rendono il dialogo scoppiettante, per
esempio con le previsioni
sballate: “Vendi il computer e investi in uno stock di
cercapersone,
in futuro i numeri di beeper
varranno moltissimo” –
immaginate la faccia
dell'ascoltatore che viene dal presente!
Menziono
infine un bizzarro mix di
western e buddhismo lamaista, dall'ambizioso programma narrativo,
Soul on a String di
Zhang Yang. A parte i suoi
difetti (fra cui quello dell'eccessiva lunghezza),
è comunque interessante
questa ridefinizione delle categorie del western in chiave tibetana;
e le usanze tibetane, così nuove ai nostri occhi, aggiungono un
tocco di
esotismo molto attraente.
Da
Taiwan
arriva Godspeed di
Chung Mong-hoon: gran bel
film, sulle dis/avventure di un corriere della droga e del suo
tassista (proprio così) nell'entroterra dell'isola.
Ha un aspro umorismo e una capacità di scrittura che si esalta nel
dialogo: per capirci, si potrebbe paragonare a un Quentin Tarantino
più malinconico e con un fondo sentimentale. Alcune
scene sono da antologia, o sul piano dello humour “filosofico” o
su quello della violenza. Bisogna
aggiungere che è uno dei film meglio interpretati che si
siano visti quest'anno (anche
questo ricorda Tarantino: la giustezza
di definizione e
interpretazione di ogni
personaggio, anche minore).
Da ricordare in primo luogo
un'interpretazione veramente monumentale, nel ruolo del tassista
immigrato da Hong Kong,
di un'autentica icona della
vecchia commedia cantonese: nientemeno
che Michael Hui.
52Hz,
I Love You di Wei Te-sheng è un
musical (una panoramica di Taipei il giorno di San Valentino,
incentrata su due coppie principali e due secondarie) con
pregi e difetti. Il film comincia a funzionare all'incirca dopo i
primi 25 minuti, in
coincidenza con l'entrata in scena di una coppia gay femminile che va
a sposarsi, il che introduce un elemento di novità (e sono anche fra
le interpreti migliori). Da quando il
film ingrana la marcia, le cose funzionano, e vanno in crescendo;
vale anche per le canzoni,
che all'inizio sono piuttosto fiacche, poi migliorano –
anche se non arriviamo mai ad
Andrew Lloyd Webber. Nelle coreografie (ma non è, se non in piccola
parte, un musical di balletto) spuntano qua e là un paio di idee
graziose, come il coro in Vespa o l'omaggio a Gene Kelly. A
una certa complessiva mancanza di verve si contrappongono attori e
attrici bravi, o almeno simpatici.
Non
sono infine
in grado di dare un giudizio su Mon Mon Mon Monster
di Giddens Ko, perché
ho interrotto la visione dopo trenta
minuti, quando gli studenti
crudeli strappano
i denti al bambino-mostro con le tenaglie arroventate, in
quanto non lo reggevo. Non è
la sua crudeltà alla Arancia meccanica
a disgustarmi, è il compiacimento con cui Giddens Ko
la filma (mdp avanti sul viso
ridente dei torturatori), che ha qualcosa di abbietto.
Anche
se non manca qualche film deludente, come Over the Fence di
Yamashita Nobuhiro o Hirugao di Nishitani Hiroshi, il Giappone
resta la miglior cinematografia asiatica. Non ho visto il film
vincitore del premio del pubblico, Close-Knit di Ogigami Naoko
(Rent-a-Cat), ma il delizioso Survival Family di
Yaguchi Shinobu (vedi scheda sotto)
è stato una degna
apertura del festival. Da menzionare subito è At the Terrace
di Yamauchi Kenji – una
pièce teatrale perfettamente trasportata su grande schermo, uno
sbranarsi sotto le forme rigorose della buona educazione (sembra Noël
Coward), conclusa da magnifici titoli di coda in puro stile Welles
con in più uno scoiattolo trovato
sul set... Orson Welles with
squirrel! Il miglior film giapponese della selezione, insieme
a Love and Other Cults di Uchida Eiji (vedi scheda
sotto).
Senz'altro
buono anche Teiichi – Battle of Supreme High di Nagai Akira;
è tratto da un manga e si vede, nelle atmosfere e nella recitazione
volutamente eccessiva, manga-like, dei suoi giovani
interpreti. Aspramente satirico,
parla
della lotta politica
all'ultimo sangue per la
carica di presidente del consiglio
studentesco in una high
school d'élite che
è il trampolino di lancio per la politica nazionale. Un
film piacevolissimo,
divertente nella sua cupezza
da humour nero, eppure
credibile: un esempio di deformazione satirica che non crea un
panorama nuovo e falsato ma si limita a caricare, com'è
giusto, i tratti del panorama
di riferimento.
Molto
gustoso è Hamon: Yakuza Boogie di
Kobayashi Shotaro.
Avventura gangsteristica di
due personaggi, un giovane pirlotto e uno yakuza tough as
nails, è
il classico film buddy-buddy
con due partner che credono di detestarsi e invece si vogliono bene
ma non lo ammettono.
Due eccellenti
interpretazioni,
con un grande gioco fra
l'ingenuo e vigliacco Ninomiya
e l'insopprimibile Kuwabara;
anche se gli interpreti sono
entrambi bravi, è il secondo
(Sasaki
Kuranosuke) che
ruba la scena. Certi momenti – quando sbarra minacciosamente gli
occhi contro
uno yakuza avversario
oppure quando, rivelando un lato del tutto inaspettato, si mette a
cantare (benissimo) al karaoke – si
possono
definire
solo sublimi. Il dialogo è
gustosissimo (autocritica di Ninomiya quando chiede soldi alla madre:
“Digita 'cattivo figlio' su
una stampante 3D e vengo fuori io”);
il ritmo
è veloce, giustamente distribuito fra commedia di rapporti e
improvvise esplosioni di violenza; e fin dai
primi minuti si nota
una regia di polso.
Satoshi:
A Move for Tomorrow di Mori Yoshitaka è un biopic ben
organizzato su un campione di shogi, l'equivalente giapponese
degli scacchi. Scoop! di One Hitoshi è piacevole, se non
particolarmente memorabile. Ancora Yamashita Nobuhiro con My
Uncle, simpatico ritratto di uno pseudo-filosofo lazzarone,
danneggiato dal profondo iato fra la parte giapponese e quella
hawaiana che segue, assai inferiore. Per la cronaca, Yamashita era
presente al FEFF anche con il ben più notevole Ramblers, del
2004, omaggio ai manga di Tsuge Yoshiharu.
Chiudiamo
con un regular del FEFF, Hiroki Ryuichi, che stavolta va sul
commerciale illustrando un manga su un poliziotto trentenne che sposa
una liceale sedicenne, con il coetaneo della ragazza (il classico
teppista dal cuore buono) a fare da terzo incomodo. Il film è
francamente un Hiroki minore, ma non lascia un cattivo ricordo.
Grazioso il finale, con un'uscita dalla scuola di marito e moglie
riconciliati che inopinatamente si trasforma in balletto da musical.
Ma non abbandoneremo il Giappone senza menzionare il bellissimo
documentario Mifune: The Last Samurai di Steven Okazaki
e un eccellente restauro del capolavoro del 1967 Branded to Kill
(La farfalla sul mirino) di Suzuki Seijun.
Il
cinema della Thailandia è sempre più cresciuto nel corso
degli anni; lo dimostra un ottimo prodotto dell'ultima annata, il
film sentimentale collettivo The Gift. Tra quelli visti al
FEFF, lo confermano due buoni horror. Take Me Home di Kongkiat
Khomsiri colpisce, anche se non è potente come Slice dello
stesso autore. Un giovane, che dopo un incidente è stato in coma e
ha perso la memoria, viene a sapere dov'è la villa di campagna della
sua famiglia. Qui incontra non solo una sorella gemella che non
ricordava di avere ma una serie di personaggi (la famiglia di lei)
impassibili e insieme spaventati. Il film in questa parte possiede un
eccellente senso onirico, e un'angoscia della “stranezza del
quotidiano”: il regista ha certamente riflettuto su Shyamalan. Un
tocco notevole è che tutto questo si svolge non nella solita villa
antiquata e creepy ma in un ambiente moderno, come in The
Black Cat di Ulmer. Si parla
subito di ghosts,
e non è difficile
capire che probabilmente questi strani familiari sono tutti morti. La
seconda parte mostra il
giovane che cerca di fuggire e non ci riesce, e si aggira perduto in
un loop temporale (potremmo pensare a Operazione
paura di Mario Bava): in
questa villa che mostra il suo vero volto, abbandonata e in rovina,
gli spettri fanno rivivere ai suoi occhi le tragedie che hanno
distrutto la famiglia e si svela più di un cupo segreto.
Siam
Square di Phairat Khumwan è un po' difficile da seguire nella
sua intricata rete di rapporti fra i personaggi, anche a causa del
racconto ellittico, pieno di sospensioni e ritorni temporali; ma ne
vale la pena. Non tanto per il lato spettrale, che è piacevole ma
derivativo, bensì perché questo lato spettrale non è fine a se
stesso ma fa da catalizzatore per il vero tema del film, che è
l'adolescenza. Credo di avere visto raramente nel cinema orientale
(che pure di coming of age parla moltissimo) una descrizione
così intensamente e sottilmente malinconica del dolore
adolescenziale: la fragilità emotiva, l'essere “tutta pelle”, la
finta forza, la paura dei sentimenti, insomma la tragicità di
questo periodo della vita.
Dalla
Cambogia – un cinema che sta rinascendo dopo la catastrofe –
arriva Jailbreak, diretto da Jimmy Henderson (il quale,
curiosità, è di origine italiana). Sono botte da orbi in un action
carcerario (poliziotti contro una folla di evasi che si aggira nei
corridoi della prigione) agile, piacevole, vivace e lucidamente
fumettistico. Ottimi esperti di arti marziali; però è inevitabile
che al centro dell'azione brilla la splendida Céline Tran (già nota
nel mondo del porno col nome di Katsuni), memorabile cattiva
super-fetish armata di katana in stile Kill Bill, e circondata
da una gang di bellezze assassine.
Invece
quello della Corea è un cinema che appare più stanco di
alcuni anni fa. E' spesso la tendenza al gigantismo che lo rovina; ne
è esempio un film confuso e divagante quale Master di Cho
Ui-seok (capofila di altri tutti uguali usciti l'ultimo anno), per
non parlare di un filmaccio mediocre come Fabricated City di
Park Kwan-hyun. L'action carcerario The Prison
di Na Hyun è interessante ma prima accenna a significati metaforici,
poi li vanifica riducendosi a pura azione (analogo per
l'ambientazione, è meno ambizioso e migliore il succitato cambogiano Jailbreak).
Passando
a film migliori, segnalo il bel Vanishing Time: A Boy Who Returned
di Um Tae-hwa. C'è una certa poesia nella descrizione della sua
amicizia/amore infantile, e quando più tardi si concretizza la
situazione fantastica essa è insieme originale e ben sviluppata. In
sintesi, tre coetanei e amici della bambina protagonista sono
considerati scomparsi, ma in realtà si trovano a vivere in un “tempo
congelato”, l'eterno presente di un attimo che non passa mai. Il
film raggiunge una logica spietata nella descrizione di questa loro
condizione, con tocchi di veridicità ammirevoli. La situazione
finale è anch'essa sviluppata con coerenza e con una crudeltà molto
coreana. Va detto che le guasta un po' un finale romantico che, oltre
ad essere pomposo, va anche contro le premesse.
Quanto
a House of the Disappeared di Lim Dae-woong, la forza di
questo film sul piano inventivo può essere anche la sua debolezza
nel rapporto col pubblico. Apparentemente è una storia di fantasmi
in una haunted house; e lo si trova piacevole, anche
emozionante, ma non molto originale. L'ultima mezzora però
(attenzione, spoiler!) rovescia completamente la concezione del film,
e anche la sua collocazione di genere, spostando il film sul piano
dei paradossi temporali, nonché dall'horror al mélo. Le invenzioni
connesse a tale spostamento sono intelligenti, estremamente
elaborate; e la svolta narrativa rende originale un film che non lo
era. Sul piano del linguaggio il film è fluido, scorrevole, diretto
in modo competente. Bella l'interpretazione di Kim Yunjin nel ruolo
della protagonista in due età (alternate nel racconto), vecchia e
giovane.
Run-Off
di Kim Jong-hyeon è un discreto film sportivo del genere
struggling team. Nella prima parte, un allenatore sfigato
viene incaricato di organizzare la prima nazionale femminile coreana
di hockey su ghiaccio (in realtà è un imbroglio dei dirigenti).
Mette insieme, come nelle regole del genere, un gruppo di atlete
improbabili che non vanno neanche d'accordo fra loro; una di esse,
Ji-won, è una defezionista dalla Corea del Nord, che fuggendo ha
lasciato al Nord la sorellina – involontariamente, ma la sorella
non lo sa. Sempre secondo le regole del genere, il gruppo supera le
difficoltà (come si dice: from zero to hero) e riesce a farsi
mandare agli Asian Games in Giappone. La seconda parte consiste
largamente di scontri sul ghiaccio, assai ben girati; però, in
aggiunta all'aspetto prettamente sportivo, c'è la complicazione mélo
per cui Ji-won ritrova la sorella, cresciuta, che ora è membro della
nazionale nordcoreana (più forte delle sudcoreane) e la odia per
averla abbandonata.
Nord
e Sud Corea anche in Confidential Assignement di Kim
Sung-hoon, un piacevolissimo poliziesco buddy-buddy che
rinfresca il tema dei colleghi nemici-amici accoppiando in
un'operazione a Seoul un poliziotto nordcoreano e uno sudcoreano –
rispettivamente Hyun Bin e il grande Yoo Hae. Il gioco fra loro è
divertentissimo, estendendosi oltre la reciproca polemica
politico-nazionale per coprire lo stile di investigazione, la
concezione del lavoro e perfino il linguaggio del corpo (con Yoo Hae
che gesticola e parla a manetta, Hyun Bin tutto rigido e contratto).
Il racconto d'azione scorre veloce e sicuro, e le divagazioni sulla
famiglia di Yoo Hae sono deliziose.
Un
paio dei
principali contributi artistici al FEFF lo dobbiamo alle Filippine.
Il FEFF ha presentato Seclusion (vedi scheda
sotto), horror a sfondo
teologico di Erik Matti, che va senz'altro annoverato
fra i suoi film migliori. Ancor più notevole
Die Beautiful,
splendido film transgender di Jun Robles Lana (Barber's
Tales). In
due parole, la fabula
è la storia della vita - amori, amarezze, l'adozione
e la crescita fino all'adolescenza di una bambina orfana - di due
transessuali, Trisha e Barbs, amici fin dagli anni del liceo, che
viene rievocata a partite dalla veglia funebre di Trisha, morta
giovane per un aneurisma. Item
è uno sguardo sul mondo
trans filippino, sulla difficile condizione degli omosessuali, e
anche su quella bizzarra istituzione che sono i concorsi locali di
bellezza aperti
alle drag queens,
svolti anche nei piccoli paesi. Item
è una
spettacolare panoramica
sul make-up, che è l'arte delle due. Piena
di umanità, questa storia di una doppia vita è allo stesso tempo un
dramma e una commedia narrata con contagioso umorismo. E
bisogna ancora menzionare la
cosa più importante: la storia è
narrata con continui salti di tempo, quindi con continue
anticipazioni che trovano la loro spiegazione in seguito; sembra che
ciò possa renderlo difficile ma in realtà, entrati nel gioco, si
segue perfettamente. Questo uso dell'analessi, rinforzato da un
montaggio prodigioso, è uno dei più belli che io abbia mai visto.
Che
cosa resta? Il Vietnam
con il simpatico Tam Cam: The Untold Story
(vedi scheda sotto)
dell'attrice diventata regista Ngo
Thanh Van (Veronica Ngo).
Segue la
Malaysia
con Mrs. K di Ho Yuhang,
coprodotto con Hong
Kong. Ben si capisce perché
il regista malaysiano ha
chiesto a Fruit Chan di fare un cameo in Mrs K:
lui vorrebbe essere
Fruit Chan. Tocchi di estetismo (una panoramica
verticale che sale dalle
gambe di un sicario ma prima di raggiungere la faccia si trasforma in
un'identica pan verticale su un'auto parcheggiata),
che inseriscono
un tocco di ambiguità artistica nel gangster thriller;
una narrazione
che gioca a confondere lo spettatore (sogni
e perfino l'apparizione allucinatoria di tre fantasmi)… Fatto
sta che Ho non è Fruit Chan
– tuttavia,
possiede del
talento, ed è bravo
nell'azione. In
sintesi Mrs K è
un'esperienza altalenante, con momenti felici
ed
altri meno. Buona
la protagonista Kara Wai, e naturalmente il
villain Simon
Yam.
Chiudiamo
con l'Indonesia,
con
My
Stupid Boss della
sua regista più nota, Upi. Molto
diverso da quel che avevamo visto in precedenza di Upi, si apre su un
panorama metropolitano, pieno di colori brillanti e sfacciati che
fanno pensare alla Francia di Amélie
(quella
persiana verde che si apre su un muro rosso!). Una
giovane executive viene assunta in un ufficio dove il boss è un
cretino totale che le ha tutte, dalla ridicolaggine fisica
all'amnesia alla pigrizia alla piccola disonestà nel trattare coi
sottoposti. Lei prima si incazza, ma per ragioni legali non può
dimettersi, poi gli dichiara guerra (mentre il marito passabilmente
scemo difende il boss che è un suo vecchio amico). Naturalmente alla
fine si scopre che il boss ha un grande cuore. E'
una commedia francamente silly –
ma
andando avanti convince, principalmente
per un motivo: l'esagerazione oltraggiosa con cui viene ritratto
questo boss demenziale
(Reza Rahadian, che dopo aver fatto lo scemo per tutto il film è
sorprendente quando assume
un'aria umana
alla fine) ha qualcosa di eroico, e mi sono sorpreso più volte a
scoppiare a ridere per la sua sfacciataggine.
Va
da sé che ci vorrebbe un FEFF almeno trimestrale.
Ma aspettiamo con fiducia il 2018… la
ventesima edizione!… e
saranno fuochi artificiali.