lunedì 13 febbraio 2023

Il primo giorno della mia vita

Paolo Genovese

Come tutti sanno, ne La vita è meravigliosa di Frank Capra (1946) James Stewart vuole uccidersi ma è visitato da un “angelo di seconda classe” che per salvarlo gli mostra come sarebbe stata peggiore la vita nella sua città senza di lui. Non tutti sanno che ciò fu parodiato nell’ultima puntata di Dallas (1991), in cui il cattivissimo J.R., nella stessa situazione, riceve la visita di un demoniaco Joel Grey.
Ne Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese il concetto è che quando stiamo per suicidarci compare un personaggio (il bravo Toni Servillo) che ci offre sette giorni di riflessione, sospesi in una dimensione fra la vita e la morte in cui siamo invisibili a tutti. Qui i “clienti” di Servillo sono quattro: una poliziotta disperata per la morte della figlia (Margherita Buy), una ex ginnasta paralizzata (Sara Serraiocco), un bambino sfruttato da genitori ripugnanti come figura di culto sul web in qualità di mangione (Gabriele Cristini) e un “motivatore” in depressione (Valerio Mastandrea), che invero ha meno motivi degli altri per uccidersi ma non molla.
Se la sceneggiatura è prevedibile, e francamente la sorpresa maggiore del film è assai forzata, la regia di Genovese (il cui Perfetti sconosciuti ha il record di essere il film italiano di cui sono stati fatti più remake nel mondo) è adeguata. Solo a tratti però si perviene alla commozione preventivata. Molto buono il montaggio di Consuelo Catucci, con le sue veloci successioni di primissimi piani nei dialoghi; e buona la cupa fotografia di Fabrizio Lucci. Margherita Buy è convincente nel suo ruolo, mentre Mastandrea fa il possibile per tirar fuori qualcosa da un personaggio debole (e telegrafato). Parlando in generale, a volte si desidera la presenza sul set, più che di un angelo, di un insegnante di dizione.

sabato 11 febbraio 2023

Tár

Todd Field

Chi ama la musica classica, e non i trapper, non può che amare il notevole Tár di Todd Field, interpretato da una grande Cate Blanchett, che si è meritata la Coppa Volpi a Venezia e ora una candidatura all’Oscar. Questo dramma psicologico su una direttrice d'orchestra ci porta dentro la comprensione della musica attraverso una domanda: che cosa significa dirigere un pezzo? Com’è che Mahler o Beethoven escono dalla partitura e diventano vivi nell’interpretazione? Su questo terreno il film è illuminante, a piccoli tocchi, fra cui una magnifica micro-lezione su Bach che la protagonista impartisce senza gentilezza a un odioso ragazzino fanatico che rappresenta tutto l’orrore della cultura woke. Le prove d’orchestra sono la continua ricerca della perfezione. Delizioso il “Vergessen Sie Visconti, ok?” (“Dimenticatevi di Visconti”) che Tár rivolge all’orchestra provando Mahler. Parimenti Tár ci porta dentro la politica delle grandi orchestre, terreno di scontro sia come gestione sia come motivi personali.
Arrogante e geniale, dotata di un umorismo sarcastico, Lydia Tár è una direttrice d’orchestra, lesbica e sposata con una donna che è il primo violino nella sua orchestra a Berlino. Hanno una bambina, che viene bullizzata a scuola e Tár risolve la questione con una gelida minaccia alla bulla. Per l’acutezza delle sue opinioni, per il modo vigoroso di esprimerle e anche per il carattere outspoken Tár fa pensare a un altro genio femminile omosessuale, non immaginaria questa: Camille Paglia.
Da una posizione di fama mondiale, Tár cade rovinosamente, perdendo anche la famiglia, quando viene accusata di essere una predatrice sessuale e di avere stroncato la carriera a una musicista morta suicida. Il film è un apologo sulla fragilità del potere nella nostra epoca, che non dipende dalla posizione conquistata ma va negoziato continuamente con i media. La caduta di Tár comincia con un fake (un video preso con l’Iphone e artatamente rimontato) – e poi su di lei si scatenano attivisti e metooiste. “Al giorno d’oggi essere accusati significa essere colpevoli”, sentiamo nel film.
Certamente Lydia Tár ha in sé un lato oscuro. Si spinge solo fino al favoritismo nelle scelte (peraltro in sé oculate), o arriva alla persecuzione? Imbroglia le carte per imporre nel concerto per violoncello e orchestra di Elgar una violoncellista che le piace (nella prima apparizione vediamo solo i suoi piedi scendere le scale, risuonando ominously come le note iniziali della Quinta – e poi, ellissi). Poi però si è studiata un concerto di lei in videocassetta, e la ragazza è bravissima.
Fino a che punto Tár abusi del suo potere, il film lo lascia alla decisione dello spettatore, bilanciando imparzialmente l’autodifesa di Tár e le accuse che la travolgono – non per opportunismo (sarebbe stato più facile fare una sviolinata al MeToo) ma perché il personaggio è tridimensionale. C’è un’ambiguità di fondo negli esseri umani – e quindi nei personaggi artisticamente riusciti – che rende difficile, e in arte affascinante, scrutarci dentro e giudicare. Peraltro esiste anche il tema generale della non coincidenza fra l’arte e la persona, che qui, sebbene non portato in primo piano, rimane implicito. Quel ch’è certo è che questo personaggio formidabile ci appare nel corso del film come un’adulta in un mondo di bambocci.
Sotto la narrazione corre una riflessione continua sul suono (reali o immaginari quelli che sente a volte Tár?) all'interno della grande esposizione sulla musica. C’è in Tár una capacità di messa in scena elegante, di narrazione in piccoli episodi netti e pensosi, che ricorda il cinema di altri tempi. Il racconto è libero, ellittico, con sospensioni narrative e dettagli appena accennati (solo nella parte finale diventa alquanto sbrigativo); questo è un film che stabilisce le proprie regole e non fa compromessi – del resto Field è stato allievo di Stanley Kubrick ai tempi del suo primo film – un po’ come la sua protagonista. Nell’epoca del cinema pappa-in-bocca per lo spettatore, Tár è un film profondamente adulto.

venerdì 3 febbraio 2023

Io vivo altrove!

Giuseppe Battiston

Viva la campagna”, cantava cinquant’anni fa Nino Ferrer – ma è dubbio che questo sentimento bastasse a renderlo un bravo coltivatore. Lo stesso vale per i due Fausto di Io vivo altrove! di Giuseppe Battiston. Fausto Biasutti (Battiston) è un bibliotecario passabilmente frustrato: “La trama è fiacca, lo sguardo è povero” sono le prime parole che sentiamo nel film – ed è un inizio ironicamente apotropaico. Fa amicizia con Fausto Perbellini (Rolando Ravello), un fotografo dilettante (le sue foto, che vediamo alla fine, sono belle, e sono in realtà di Emilia Mazzacurati); alla sua età non verdissima questi vive ancora con la madre, ma lei vuole togliergli il laboratorio di sviluppo nel bagno per farne la sauna desiderata dal suo compagno (dal tempo dei bamboccioni la satira è passata a quello delle âgées immortali). Colpo di fortuna, Fausto B. eredita dalla nonna una proprietà in Friuli e coglie l’opportunità di mollare tutto, coinvolgendo Faust P. in un progetto di vita autosufficiente in campagna coltivando mirtilli.
Con Bouvard e Pécuchet Flaubert ha costruito una gigantesca epopea nichilista della stupidità umana e dell’illusione enciclopedica; dove l'ostinazione dei due protagonisti diventa una via crucis di entusiasmi e cadute sotto la lente di un umorismo spietato e misantropico che in certi punti sembra anticipare Morte a credito di Céline. Del romanzo di Flaubert Giuseppe Battiston riprende la prima parte per il suo esordio di regista, ma con un rovesciamento di prospettiva. Mentre lo sguardo di Flaubert è verticale, dall’alto, come si conviene a una satira impietosa, lo sguardo di Battiston – anche sceneggiatore con Marco Pettenello – è orizzontale: umano, alla pari, di adesione; il suo umorismo non è crudele. Il simbolo del film e dei suoi due protagonisti è il mirtillo, che sentiamo definire all’inizio “pianta acidofila ma caparbia”. Io vivo altrove! è un encomio e quasi un’elegia della caparbietà.
Non è che Fabio B. sia proprio popolare in paese (“Va via, mona!”), e l’incidente con la birra fabbricata non fa nulla per aumentare l’apprezzamento dei due. Intanto la terribile signora Gina (una grande Ariella Reggio) li guata dalla casa confinante, borbottando “Imbecilli”, ed è sempre pronta a comprare i pezzi di terra che i due sono costretti a vendersi. Una lunga serie di pasti francescani di insalata punteggia il film, mentre si fronteggiano i disastri dell'entusiasmo e la durezza della realtà: vediamo Fausto B. che strappa l’erba a mano, poi passa al falcetto, poi passa alla falce – e poi un’inquadratura col drone mostra il misero cerchio di terra liberata in un campo enorme. Fallimento dopo fallimento, chimera dopo chimera, i due tirano avanti ostinatamente, autoilludendosi e congratulandosi a vicenda, sempre inappuntabili sul piano formale, sempre dandosi del lei con un rispetto formale ottocentesco (o giapponese). Ma nella luce fredda della sconfitta finale, stanno per mollare tutto. “Qui i mirtilli non crescono”, sibila la signora Gina. Viso drammatico di Battiston – e poi l'imprevisto “Non ce ne andiamo”.
Di solito un regista al suo esordio dice troppo, c’è una difficoltà ad asciugare e tagliare. In questo caso si direbbe che Battiston abbia preferito l’opposto – alcuni passi del film lasciano l’impressione di essere stati asciugati troppo. Per esempio, uno dei momenti migliori, quando sull’onda emotiva di una canzone diegetica che passa da suono off a over vediamo la sera degli abitanti del paese, compresa la Gina che mette fuori il suo gatto, e avrebbe potuto essere allungato diventando uno squarcio psicologico-lirico.
Giuseppe Battiston ha una carriera teatrale ricca e intensa, nella quale per esempio è stato Welles e Churchill, o un grande Macbeth in una splendida messa in scena di Andrea De Rosa accanto a Frédérique Loliée, e attualmente Dovlatov. Non sempre, con alcune notevoli eccezioni, ma più d’una volta il cinema lo ha impiegato in modo un po’ facile, con una minore ampiezza interpretativa. In questo suo primo film da regista l’ampiezza si ritrova; il viso è aperto, cordiale, c’è un elemento di ingenuità nella voce, più chiara (inteso non come pronuncia ma come colore); e la rivelazione finale della sua tragedia, in una carrellata fra le tombe, illumina retrospettivamente le sue lettere alla figlia e quella seconda pianta-simbolo che è la “calendula greca”. C’è una gentilezza in questo film.