martedì 28 luglio 2009

Harry Potter e il Principe Mezzosangue

David Yates

Il castello di Hogwarts è stabile e immoto, nel magnifico “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” di David Yates; i ritratti non si muovono più dentro ai quadri (con la fievole eccezione di quello di Silente addormentato che compare alla fine). Se nel primo “Harry Potter” Hogwarts era incantata e cangiante, nel sesto ha la materialità oggettiva della “nostra” realtà. Nel finale, la feroce Bellatrix si diverte a spegnere le candele magiche aleggianti nella Grande Sala; il mattino dopo essa è fredda e desolata come un qualunque salone vuoto nella luce mattutina.
Tutto ciò potenzia il realismo cupo - in alcune scene, noir - del film: come quella assai elegante del colloquio segreto fra Piton e Draco Malfoy in un corridoio, inquadrati in campo medio-lungo, con la mdp che spostandosi in carrellata laterale passa dietro un pilastro che forma un “nero” - uscendo dal quale rivela il primo piano, gigantesco per contrasto, di Harry che origlia. Per lo stesso atteggiamento matter of fact, va osservato come Yates filma il Quidditch: dalla meraviglia infantile ed esaltata di Chris Columbus nel primo film della serie si passa a una precisione da telecronaca sportiva.
Altre dimore magiche, come casa Weasley e il capanno di Hagrid, vengono incendiati dai Mangiamorte (riguardo a casa Weasley l’aggiunta al romanzo è dovuta alla necessità di provvedere una scena d’azione spettacolare verso la metà del film). Contestualmente, la magia invade il mondo dei Babbani. La scena iniziale del film si svolge a Londra, quando i Mangiamorte di Voldemort distruggono il Millennium Bridge; e però quella parete a specchio del grattacielo, su cui si riflette l’addensarsi innaturale della tempesta, non ricorda uno specchio magico? Tutto l’inizio del film stabilisce un rapporto incestuoso fra il mondo magico e il nostro. Vediamo Harry flirtare nella stazione del metrò con una bella ragazza babbana, in una scenetta aggiunta al romanzo, e poco dopo Harry e Silente ammirano il cartellone pubblicitario di un profumo "magic" (giustissimo: in effetti la pubblicità è la magia del mondo babbano).
Non è, naturalmente, che Hogwarts non sia più magica: quel suo “congelamento” non avviene sul piano diegetico ma su quello discorsivo: ovvero, la sua magia non viene mostrata; e c’è un motivo. Anche se ci aspetta l’episodio conclusivo de “I doni della Morte”, “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” si può considerare la tappa finale del lungo percorso di Harry Potter in quanto Bildungsroman che incrocia un grande tema della letteratura infantile, il mito di compensazione dell’orfano maltrattato che trova una casa/famiglia alternativa, con la satira affettuosa, quasi wodehousiana, delle boarding schools inglesi. Entrambi questi motivi vengono a concludersi alla fine del sesto romanzo e del sesto film, quando Harry dichiara “Io non tornerò” (come tutti sanno, nel settimo libro Hogwarts appare solo alla fine, quale luogo della battaglia finale); giustamente le parole di Harry che chiudono il film sono “Non mi ero mai reso conto della bellezza di questo posto”. La scansione dell’esistenza in anni scolastici si conclude con la morte di Albus Silente, il padre sostitutivo. Il mettere tra parentesi l’incanto della casa simboleggia l’uscita dalla casa: la fine dell’adolescenza, il passaggio all’età adulta - che per Harry e i suoi due compagni è più doloroso, e anticipato di un anno, rispetto ai coetanei - in un quadro di dolore e di sacrificio che troverà nel settimo episodio il suo inveramento e la sua risoluzione.
Al suo ritorno dopo avere saltato il film precedente, lo sceneggiatore ufficiale del ciclo, Steve Kloves, consegna una riduzione esemplare proprio perché non ha paura di inventare: Kloves e Yates restituiscono il lungo romanzo di J.K. Rowling con forte fedeltà di fondo ma con tocchi di rimarchevole autonomia. Naturalmente, evidenti esigenze di durata hanno imposto il taglio di vari subplot. Un’unica riserva in merito: viene eliminata tutta la questione dell’albero genealogico di Voldemort, il che toglie motivazione e comprensibilità al personaggio (oltre che offuscare il suo carattere di “doppio” di Harry); almeno un accenno nel dialogo sarebbe stato appropriato.
Nella fotografia del precedente “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”, David Yates si era compiaciuto di posizionamenti frontali di gusto vagamente pre-classico, tendenti al tableau. Anche la bella fotografia di “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” - firmata dal francese Bruno Delbonnel, all'esordio nella saga - conferma un (piacevole) gusto un po’ retró del regista. Yates usa abbondantemente uno stilema proprio del cinema classico: mette a fuoco il primo piano tenendo fuori fuoco lo sfondo, non senza l’inversione della messa a fuoco quando il punto di interesse scivola dal primo al secondo piano. Anche il taglio di luce è classico, piuttosto dolce. Sul piano visivo, non si può non segnalare la spettacolare bellezza degli esterni: penso all’inquadratura ultra-pittorica dello scoglio sul mare, o alla bella costruzione scenografica di vicoli alti e stretti quando Bellatrix e Narcissa Malfoy vanno a casa di Piton. Se tutto il film è vivo ed emozionante, la scena madre con il triste lago nella caverna e gli zombi sott’acqua è realizzata con eccellente senso epico; val la pena di notare che la figura di Silente, inquadrato dal basso, che agita la bacchetta richiama figurativamente il Mosè de “I dieci comandamenti” di Cecil B. De Mille - non per nulla la cortina di fiamme si separa a destra e sinistra come il Mar Rosso in quel film.
Il corpo docente di Hogwarts è un vero patriziato di eccellenti attori inglesi. Ora vi accede Jim Broadbent, assai convincente come Lumacorno anche se ha perso i baffoni del romanzo. Il grande Alan Rickman (Piton) con una superba pagina finale si mette in marcia verso il ruolo centrale che avrà nell’ultimo episodio. Ma soprattutto sorprende l’exploit di Tom Felton nei panni di Draco Malfoy. “Harry Potter e il Principe Mezzosangue” è il grande momento del personaggio - che si era alquanto usurato nei film precedenti - e in conseguenza dell’attore. Con un taglio di capelli più adulto, in giacca e pantaloni total black come Voldemort nell’apparizione allucinatoria in “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”, Felton mostra un viso mobile e sensibile e dà un’inedita profondità al personaggio. Vien da pensare che sarebbe stato più adatto lui nel ruolo del vampiro di “Twilight”.

martedì 14 luglio 2009

Coraline e la porta magica

Henry Selick

Che si raggiunga girando alla seconda stella a sinistra o inseguendo nella tana un coniglio bianco, l’altro mondo si spalanca sempre come una promessa di sollievo dalla pesantezza tediosa del quotidiano e dalla nostra frustrazione; e sovente rappresenta, del nostro mondo, una versione speculare, rovesciata (il concetto viene metaforizzato quando il varco per raggiungerlo è lo specchio). Non c’è da stupirsi se ciò si connette all’universo infantile/adolescenziale: perché si collega molto bene alla sensazione malinconica dell’inadeguatezza dei genitori (anche la saga di Harry Potter ne è una gigantesca illustrazione). E questo ci porta alla storia di Coraline, una ragazzina solitaria, appena trasferitasi con la famiglia in un posto di campagna freddo e triste, nonostante il nome di Pink Place Apartments. Si sente trascurata dai genitori, assorbiti nel lavoro. Un fatidico giorno, attraverso una porticina segreta scopre un doppione della sua stessa casa: un mondo speculare, dove tutto pare più felice, con un’altra madre e un altro padre affettuosi e pronti a soddisfare ogni suo desiderio. Solo che hanno bottoni al posto degli occhi. Ed emerge che c’è un prezzo da pagare - Coraline dovrebbe anche lei farsi mettere bottoni al posto degli occhi; e l’altra madre diventa sempre più insistente…
Lo splendido romanzo per bambini di Neil Gaiman è ora diventato il film in 3D di pupazzi animati in stop motion “Coraline e la porta magica”. Henry Selick (“Tim Burton’s The Nightmare Before Christmas”, “James e la pesca gigante”) lo ha scritto e diretto, incrociando la fedeltà al romanzo con un ampliamento così organico e felice che, vien da pensare, Neil Gaiman avrà avuto la tentazione di aggiungere qualcosa al suo libro. Selick razionalizza lo sviluppo con l’invenzione della bambola, spia e messaggero dell’altra parte; aggiunge una figura di alleato, il logorroico Wybie (da Wyborn, un antico nome anglosassone che significa “eroe in guerra”), che si rivela prezioso quasi quanto il gatto parlante già presente nel romanzo; ma soprattutto (favorito dall’utilizzo dei pupazzi animati) potenzia l’elemento di magia e di delirio.
Questo già nel mondo “reale” di Coraline: vedi il pazzesco signor Bobinski, un attempato burattino panciuto che salta come Tarzan, e le due anziane attrici in ritiro con la loro collezione di fox terrier imbalsamati con ali d’angelo. Perfino Wybie, coi suoi guanti-scheletro, ha qualcosa di irreale, e quando compare la prima volta, con una maschera, sembra una creatura mostruosa uscita da “The Nightmare Before Christmas”. Ma il vero vaso di Pandora della magia è il mondo al di là della porticina. Un mondo di cibo squisito, affetto ostentato e desideri esauditi; la sua cifra è l’esagerazione. La mediocrità del mondo vero si rovescia in glamour (l’altro padre anziché lavorare tutto il giorno al computer compone canzoni per Coraline su un magico pianoforte), lusso e spettacolo. L’altro mondo nel film di Selick ha le connotazioni di un musical; e i suoi momenti musicali sono la perversione inquietante dei numeri musicali dei cartoni animati Disney. Il raddoppiamento festoso dei personaggi (ciascuno con bottoni per occhi) porta a una pagina sublime, quando i doppi delle due vecchie attrici si esibiscono (seminude!, una nel ruolo di sirena, l’altra rifacendo la “Nascita di Venere” di Botticelli) in un folle spettacolo nel loro teatro, davanti a una platea di fox terrier seduti nelle poltroncine che abbaiano per applaudire. Tutto si svolge all’insegna di una sfrenata joie de vivre (“Viviamo nel migliore dei mondi”, dice il padre): tutto ciò che ogni ragazzino desidera - ma la morale è quella della casetta di marzapane di Hansel e Gretel.
“Coraline e la porta magica” si caratterizza per un’autentica maestria nell’uso del 3D; bisogna subito aggiungere che, come molta critica ha già rilevato, in questo film il 3D non è usato a fini semplicemente spettacolari ma viene impiegato a scopo narrativo, per esempio nelle trasformazioni dell’altro mondo - che si limita alla casa e dintorni, per cui quando Coraline se ne allontana diventa sempre più semplificato (bidimensionale) fino a sparire del tutto.
Il film rende con ammirevole precisione di nuances le sue cangianti atmosfere: la solitudine e l’attesa dell’inizio, screziate da piccoli segni anticipatori, poi il conforto alla scoperta, e il divertimento che cresce in un’euforia quasi fisicamente intollerabile, e sottilmente minacciosa (l’immagine dell’altro Wybie coperto dai coni di zucchero filato sparato dai cannoncini è insieme gioiosa e inquietante; lo stesso vale per la formica-falciatrice meccanica cavalcata dall’altro padre in un giardino barocco a forma di volto umano). Quando poi l’altro mondo rivela la sua realtà di creazione-trappola dell’altra madre, la sua atmosfera dionisiaca si trasforma in horror fiabesco. Anche la trasformazione della madre nel mostro scheletrito che è in realtà è estremamente calibrata, con segni minacciosi (al primo incontro, il dettaglio della sua mano che tamburella nervosamente sul tavolo anticipa celatamente la futura rivelazione delle dita-artiglio) che aumentano sempre più finché lei assume le sue vere fattezze di donna-insetto dalle membra d’acciaio (ove l’insetto è simbolo di cieca avidità e ferocia).
Storia della realizzazione di una fantasia di compensazione che si trasforma in incubo, “Coraline” esplora un complesso di sentimenti, impulsi e paure infantili - la scontentezza della famiglia, la fantasia di un suo sdoppiamento nelle figure di altri genitori disponibili, e contestualmente la paura di essere imprigionati e divorati dal loro amore possessivo - con memorabile e poetica precisione.

(Il Nuovo FVG)

Amore e altri crimini

Stefan Arsenijevic

La disumanità dei regimi comunisti dell’Est europeo - sia filosovietici che “non allineati” - la possiamo vedere materializzata nell’architettura: l’orrore dei casermoni di cemento che deturpano le città, come la Belgrado post-comunista di “Amore e altri crimini”. In quel rifiuto dell’eleganza si ha l’impressione che si attivasse non tanto una motivazione negativa (disinteresse utilitaristico per l’estetica) bensì affermativa (volontà del brutto). I regimi comunisti parevano intuire che il concetto stesso di bellezza era contro di loro.
Il film di Stefan Arsenijevic, al suo debutto nel lungometraggio, mostra una vera capacità di usare l’orrido architettonico a fini espressivi, ed anzi questo è forse il suo aspetto migliore. Anche se il film si svolge largamente all’aperto, è un ambiente ristretto e claustrofobico, una trappola per topi. La fotografia di Simon Tansek è realistica, i colori sono opachi, la luce è spenta; sembrano le foto di Boris Mikhailov. Tansek concretizza lo spirito del film in una bella raggelante inquadratura “dal fondo del pozzo”, con le mura dei palazzoni che si uniscono a contornare in alto un piccolo quadrato di cielo; ne vedremo una simile alla conclusione, quando passa in cielo l’aereo di Anica, ma in quest’ultima le masse dei casermoni sono separate, meno soffocanti.
Interpretato da un ottimo gruppo di attori serbi (dal vasto curriculum, anche se non conosciuti da questo lato dell’Adriatico), il film incrocia una narrazione sommessa e rarefatta con una robusta vena di naturalismo balcanico per raccontarci l’ultima giornata di Anica - amante di Milutin, piccolo boss malato e in depressione - prima di rubargli i soldi dalla cassaforte e prendere il volo. Il giovane braccio destro del boss, Stanislav, innamorato di lei, le propone incertamente sia di fuggire insieme, sia di restare insieme a Belgrado. Figure inquiete si muovono tristemente in questo universo grigio, un’atmosfera plumbea di malessere diffuso - come la figlia adolescente di Milutin con impulsi suicidi, o la madre di Stanislav, cantante sfiorita che vive nel passato. E’ un universo di sconfitti. Il boss Milutin e il suo rivale Radovan chiedono il pizzo ai negozietti (“Miseri soldi per una misera vita”, dice Milutin) e si battono con avvelenamenti di cani e incendi di chioschi in una tragicomica guerra per spartirsi (come bande di bambini) non i quartieri della Chicago di Al Capone ma gli angoli dello spiazzo fra i palazzoni; sta per essere costruito un centro commerciale che rovinandoli farà cessare le guerre, come in una versione contorta de “I ragazzi della via Pal”. Il concetto che ritorna su tutto è quello dell’abbandono e del tradimento: Milutin ha lasciato un’antica amante, il padre di Stanislav ha abbandonato madre e figlio, vediamo Anica vendicarsi di un suo ex, il gestore della videoteca porno non ha avuto il coraggio di seguire la sua donna all’estero… Piccoli gesti d’amore compongono il ricamo di un romanticismo tragico in cui l’elemento costitutivo è sempre quello della rinuncia. C’è una dignità sacrificale da parte di Anita e Milutin: Milutin, che sa cosa succede, lascia in cassaforte più soldi del solito perché ad Anica serviranno per farsi una nuova vita; Anica, ignara, prende solo parte dei soldi che trova, e lascia per lui una sua fotografia. Con una sottolineatura un po’ troppo marcata, la canzone “Besame mucho” attraversa ossessivamente il film.
Il naturalismo, a differenza del realismo in senso stretto, si combina bene con l’aspetto simbolico. Erich von Stroheim fece dipingere di giallo sul b/n di “Greed” tutti gli oggetti dorati, per indicare la centralità del tema dell’oro. In “Amore e altri crimini” qualcosa non funziona bene in questa funzione simbolica, perché troppo scoperto: ad esempio l’uccello che vola stridendo fra i palazzoni (però è bella la somiglianza finale con l’aereo di Anica). Rimangono impressi, invece, i “segni” quasi preternaturali alla fine - come il metal detector che si guasta, in connessione con l’irrompere della morte.

(Il Nuovo FVG)

domenica 12 luglio 2009

Lettera su Mirabella

Lettera inviata al "Messaggero Veneto" di Udine. Contesto: Michele Mirabella non è stato confermato nel ruolo di sovrintendente del Teatro Nuovo di Udine, e alla conferenza stampa di presentazione della nuova stagione sono volate alcune scintille

Udine, 3 luglio 2009

Signor Direttore,

io mi occupo di cinema e non m'intendo di teatro; non voglio quindi trattare la vexata quaestio della sostituzione di Michele Mirabella, se non per annotare velocemente che pure io ho l'impressione che non ne siano state fornite motivazioni chiare.
Quel che m'importa di puntualizzare è che Mirabella – con il quale ho avuto modo di collaborare in passato – potrà piacere o non piacere ma è uomo di cultura, non pastore di veline e maestro di risse televisive, quale viene dipinto in una lettera di Pina Raso che non posso non giudicare qualunquista e approssimativa. Anche nella famosa conferenza stampa al Teatro, cui ho assistito, mi sembra che Mirabella abbia manifestato la sua scontentezza rimanendo nei confini dell'ironia e del buon gusto.
Non m'intendo di teatro, dicevo, ma di televisione un po' sì, avendone scritto per diversi anni come critico televisivo del “Piccolo” di Trieste. La lettera succitata accumula in una specie di cortina fumogena intimidatoria tutta una serie di concetti-feticcio: le veline, le escort, il silicone, le risse; mi stupisce la mancanza dei telefonini, che erano un altro simbolo del Male qualche anno fa. Ora, devo dire che il curriculum di Mirabella non si limita certo alla tv, ma anche in campo televisivo va dalla collaborazione con Renzo Arbore (non propriamente Enrico Papi!) a un programma di successo come “Elisir”; non ricordo che l'uomo abbia mai avuto a che fare con le forme più discutibili o degradate di intrattenimento televisivo. Si direbbe, dalla lettera, che il contatto in sé con l'universo della tv sia un marchio d'impurità, quasi che la tv stessa sia un pozzo infernale.
Per inciso: a costo di scandalizzare qualche “bonhomme”, mi piace aggiungere che persino con le veline si può fare sia cattiva televisione sia buona. Qualche esempio di quella buona? L'Antonio Ricci di “Drive In” e di “Striscia”, la Gialappa's Band, e proprio Renzo Arbore ancor prima.
In conclusione, è sempre meglio analizzare, distinguere, “non ridere né piangere ma comprendere” (e questo lo ha detto Spinoza, non Spin-off, quindi anche chi tema di essere contaminato dall'inferno televisivo può ripetersi queste parole senza peccare).

Distinti saluti

Giorgio Placereani