“Era
un posto importante nelle loro vite”. Per questo gli zombi
ritornano in massa all'enorme centro commerciale in Dawn of
the Dead (Zombi)
di George A. Romero, 1978. Quel film è la più potente illustrazione
del concetto di zombie horror
come moralità
apocalittica – correlabile al gusto tardo-medievale della danza
macabra (in effetti l'esatto equivalente pittorico del film, al punto
da far sospettare un'ispirazione, è il
Trionfo della
Morte
di Pieter Bruegel del Prado). Molti anni dopo, il cerchio si chiude
col bellissimo The
Dead Don't Die
di Jim Jarmusch, che rifà con purezza, ma in chiave di commedia, la
moralità
romeriana.
Beninteso,
stricto sensu tutti i
film di zombi sono un'apocalisse; ma sono questi due ad averne reso
il senso in modo semplice e definitivo. Se il film di Jarmusch è
stato largamente sottovalutato, contrapponendolo per esempio a quel
Dead Don't Die tragico
che è il vampiresco Solo gli amanti sopravvivono,
credo si debba al partito preso post-aristotelico per cui la commedia
è considerata inferiore alla tragedia (col che il sommo Stagirita
non c'entra: non è colpa sua se il secondo libro della Poetica
non ci è pervenuto). Sul piano filosofico e politico Solo
gli amanti sopravvivono realizza
una coppia perfetta col presente film – solo che nel film dei
vampiri il punto di vista è quello dell'altra specie. Non ci si
pensa spesso ma con l'estinzione delle prede i primi a sparire sono i
predatori; e gli umani di Solo gli amanti sopravvivono,
dal sangue avvelenato, in un mondo che sta per morire di
riscaldamento globale, sono già morti senza saperlo: i vampiri li
chiamano zombi.
“Era un posto
importante nelle loro vite”. Come in Romero gli zombi di Jarmusch
meccanicamente “ripetono le cose che facevano quand'erano vivi”
(questa è una definizione classica dell'inferno). Memorabile
l'inquadratura degli zombi che camminano nel buio punteggiato dalle
luci spettrali dei loro cellulari. “Invocano quello che amavano”:
“giocattoli”, mugolano i bambini morti. Ma “free cable”,
biascica uno zombi prima di attaccare il padrone del motel – un
esempio dello humour surreale del film. Jarmusch ha sempre avuto un
umorismo cool, svagato e indefinibile, da caffè e sigarette,
se c'intendiamo; ed è questo che attraversa il presente film (grande
il dialogo sul nome Zelda!) opponendolo a qualsiasi altra zombie
comedy. E' per questo che Jarmusch può permettersi di non
indietreggiare neanche davanti a tocchi di umorismo macabro old
times: la gag degli occhi dei due morti che si aprono a turno
mentre la misteriosa addetta alle pompe funebri Tilda Swinton li sta
(follemente!) truccando non sfigurerebbe in una commedia nera degli
anni Quaranta di Red Skelton o Bob Hope o Gianni e Pinotto.
Interpretato da numerosi regulars jarmuschiani, The Dead
Don't Die è un'apocalisse estremamente divertente, dove possiamo
vedere Iggy Pop riemergere come zombi dalla tomba di Samuel Fuller. E
i poliziotti Bill Murray e Adam Driver la attraversano con quella
sorta di imperforabile impassibilità jarmuschiana, antipsicologica,
che è una mescolanza di stile, rassegnazione ed estraneità. La
maschera keatoniana di Bill Murray è l'incarnazione perfetta
dell'estetica di Jarmusch.
Il film è costellato
di gustosi “tormentoni”, il numero uno dei quali è la canzone
The Dead Don't Die di
Sturgill Simpson (che fa anche una breve apparizione come
zombi): spunta fuori di continuo e tutti la conoscono – perché è
la theme song, spiega Adam Driver a Bill Murray, in un primo
esempio di humour metanarrativo, destinato a esplodere in seguito col
suo “Andrà a finire male” ossessivamente ripetuto. E perché lo
sa? Perché ha letto il copione. A Bill Murray, invece, sentiamo che
“Jim” ha dato solo le pagine con le sue scene... “Dopo tutto
quello che ho fatto per lui... Che stronzo”.
L'umorismo
metacinematografico ha sempre avuto fortuna nelle commedie, fin da
tempi non sospettabili di modernismo. In un vecchio film, cito a
memoria, Bob Hope sta precipitando coll'auto nel vuoto, arrivano due
uccellacci e lo tirano su, e lui fa: “Andate via, se no il pubblico
dice che è inverosimile” (però grandi esempi di umorismo
metateatrale ci sono già in Plauto). Ma lo stesso Adam Driver
resterà sconcertato da una scena: deve confessare che nel copione
non c'era! Si giurerebbe che appartenga a questa categoria un momento
in auto in cui Bill Murray dice un po' seccato “Stiamo
improvvisando?” e Adam Driver rimedia con qualche imbarazzo.
Come e più che in
Romero, la verità nascosta dietro i comportamenti ossessivi degli
zombi non è semplicemente che sono morti, è che tutti siamo morti.
Un Tom Waits, eremita barbuto e capelluto che sembra una creatura di
Tolkien (citato nel film), appare come il portatore di un'innocenza
“naturale” dimenticata – assieme ai tre ragazzini che vediamo
sparire di corsa diretti a “un rifugio sicuro”. Occorre ricordare
che tutto il cinema di Jarmusch è una riflessione sull'estraneità?
Ed è la voce over di Tom Waits, mentre dal bosco guarda il disastro
al binocolo nel finale, a trarre la lezione morale con sfacciata
nettezza: i morti che circondano gli ultimi guerrieri erano già
morti prima di morire, fantasmi che si erano venduti la loro anima
dannata per la loro inesauribile fame di “roba” (stuff,
shit).
Probabilmente,
come la vede Jarmusch, noi umani siamo diventati una zavorra del
mondo: una via di mezzo, destinata a sparire, tra il livello
inferiore alla presente civilizzazione, quello veramente terrestre –
l'uomo della foresta Tom Waits – e quello superiore, extraterrestre
– la grande Tilda Swinton, che è qui per studiarci (“Sto
raccogliendo informazioni sulle cose di qui”) e alla fine sparisce
su un disco volante.
Cosa fra l'altro che chiarisce la sua bizzarra battuta quando dice ad
Adam Driver ammirando il suo portachiavi: “Oh, Stars
Wars! Excellent fiction”. Non
per caso, il libro che Tom Waits recupera fra i rifiuti è il Moby
Dick di Melville, altro testo
apocalittico, che così termina: “Una vela si avvicinò, sempre
più, e alla fine mi raccolse. Era l'errante Rachel,
che mentre tornava indietro nella ricerca dei suoi figli perduti,
trovò solo un altro orfano”. Stante che Jarmusch nel suo cinema
ama sempre riferirsi a “testi altri” che assumono un valore
gnomico, Melville è un nume tutelare minore nella raffinata texture
di riferimenti del film: che consta per la maggior parte di rimandi
alla cultura pop, specie al cinema fantastico e horror classico –
compreso Romero, esplicitamente richiamato a proposito dell'auto
degli “hipster di Cleveland”.
Non è la prima volta
che Jarmusch trasferisce il suo minimalismo esistenziale in panorami
contestuali massimalisti – qui è addirittura la fine del mondo –
ma senza mutarne la natura e le coordinate. Mentre la città, dal
nome significativo di Centerville, si popola di morti che camminano,
sotto una luna velenosa e lebbrosa, prima i due poliziotti e poi
Tilda Swinton con la sua katana si aggirano in auto (Jarmusch è il
vero poeta dell'automobile!); e le strade della città invase dagli
zombi, pur viste mille volte al cinema, tuttavia offrono – tra la
fotografia di Frederick Elmes e la coreografia di Jarmusch –
immagini di una tetra bellezza.
Ha scritto William
Carlos William di Paterson e di Paterson: “Sollevate il
lembo della gonna, Signore: stiamo andando all'inferno”.