venerdì 30 dicembre 2016

Rogue One

Gareth Edwards

Rogue One (il sottotitolo A Star Wars Story esiste solo sui poster e quindi non conta) è spesso definito uno spin-off, ma in realtà è un falso spin-off che si rivela un prequel, saldandosi nel finale con il Guerre stellari del 1977 (in seguito chiamato Episodio IV). Talché questo film – che spiega come mai la principessa Leia Organa possedesse i piani della Morte Nera – potrebbe ben avere per sottotitolo “Episodio 3½”.
Ma prima di parlarne, s'impone un avvertimento importante: la presente recensione può essere letta solo da chi abbia già visto il film, perché rivela liberamente tutte le sorprese del film.
Diretto dal vivace Gareth Edwards, sceneggiato da Chris Weitz e Tony Gilroy, Rogue One è classico Star Wars fin dall'apertura canonica anche se poi l'inizio, con la sua voglia di saltare da un pianeta all'altro (ciascuno con la sua brava didascalia), appare un po' incerto nell'avvio del discorso: non confuso, ma soffre di un eccessivo accumulo. Gli sceneggiatori avrebbero potuto tenere maggiormente presente il saldo classicismo del giovane George Lucas nel 1977. Poi comunque il film trova il suo ubi consistam e si sviluppa come un soddisfacente, emozionante segmento della saga costellato per buona misura di citazioni visuali come la battaglia conclusiva (Guerre stellari) o i Camminatori AT-AT in carrellata laterale (L'Impero colpisce ancora).
Anche qui c'è un padre perduto da ritrovare o da rinnegare; e anche qui si ritrova quella presenza della cultura orientale che caratterizza la saga, di cui è incarnazione fisica il semi-Jedi ben interpretato da Donnie Yen, cieco e abilissimo come Zatoichi.
Rispetto al recente Il risveglio della Forza, c'è un interessante adeguamento. Qui devo richiamare un discorso già fatto. La prima trilogia di Star Wars va dal 1977 al 1983: saga della primavera, opera di un giovane, distinzioni morali nette: “O gran bontà de' cavallieri antiqui!” La seconda trilogia (che sul piano diegetico precede) è degli anni 1999-2005: saga dell'autunno, opera di un vecchio, distinzioni morali blurred: vediamo il male che nasce dal grembo stesso del bene.
Il risveglio della Forza recuperava (con ingiusta disapprovazione di Lucas, che aveva ceduto i diritti) l'elemento primaverile ed epico della prima trilogia. Anche se il passato non si dimentica, pure in termini di film visti; il dolore è sempre il dolore; così una sfumatura amara è inevitabile. Il primo Star Wars è del 1977, l'ultimo del 2015; e quante cose sono successe in America in quel quarantennio che vale quanto un secolo? Dunque i film di Star Wars si dispongono lungo un arco, ai cui estremi sono la cupezza disperata de La vendetta dei Sith e la confidenza fiabesca di Guerre stellari. Ora, rispetto a Il risveglio della Forza, Rogue One è un po' più spostato verso l'amarezza.
Consideriamo i ribelli. Non è revisionismo ma realismo se Rogue One porta in primo piano il peso morale della militanza, il dover obbedire senza discutere a un ordine di omicidio, e in generale il senso di colpa di ciascuno per qualcosa che ha dovuto fare. La ribellione è una guerra, e le guerre sono fango e sangue.
Di più, il film inventa una scissione fra i ribelli, con una frazione estremista guidata dal semi-folle Saw Gerrera (Forest Whitaker). La scena nella città di Jedha con le guardie imperiali che pattugliano le vie con soldati a piedi attorno a un carro armato contro i ribelli che chiamano terroristi, e tutta la scena dell'attacco alla pattuglia, alludono a un panorama contemporaneo riconoscibilissimo (non per nulla la città ha un aspetto mediorientale).
Ancora di più. La sceneggiatura risolve con brillante spietatezza un problema: ha disseminato nuovi eroi, i quali compiono una grande impresa; ma di loro non v'è traccia nel resto (già narrato) della storia. Come spiegarlo? Soluzione: la loro missione per rubare i piani della Morte Nera diventa una missione suicida, anche per i due protagonisti Felicity Jones e Diego Luna. Questo dà alla parte finale del film un aspetto solenne e mortuario che lo eleva (e che naturalmente si collega anch'esso alla temperie orientale).
Come già accennato, è molto ingegnosa l'opera degli sceneggiatori per far sì che Rogue One si “incastri” perfettamente con l'Episodio IV. Accanto a Grand Moff Tarkin nel film rivediamo Darth Vader (ma anche i senatori Bail Organa e Mon Mothma) e perfino, di sfuggita, C-3PO. Alla fine compare Leia Organa, giovane e bella come l'avevamo vista nel 1977, e le sue uniche parole chiudono Rogue One con il sottotitolo dell'Episodio IV: “A new hope”. E il caso, la coincidenza della scomparsa di Carrie Fisher in questi giorni, rende ancora più commovente questa conclusione.
Inutile però negarsi che il punto su cui si discuterà ancora a lungo nei circoli cinematografici è un altro, la resurrezione digitale di Peter Cushing. Operazione riuscita in modo impressionante, questa. Solo perché sappiamo che è già morto cogliamo a volte un accenno minimo di meccanicità, ma talmente minimo che lo cogliamo perché lo aspettiamo: il bambino che l'ignora non avrà problemi a ritenerlo un attore come gli altri.
André Bazin si sta rivoltando nella tomba, certo. Ma siccome non è mai successo che chi possiede una tecnologia non la usi (lo dice anche Kim Jong-un, purtroppo), è chiaro che le possibilità di far rivivere un attore sono destinate a espandersi anche al di là della giustificazione diegetica come qui. Evidentemente in futuro l'“immagine fisica” (non più un ossimoro) di un attore sarà di proprietà dei suoi eredi come oggi lo sono i testi di uno scrittore. E cosa succederà quando scadranno i diritti sull'immagine? Diventeranno di dominio pubblico? Qui c'è materia per gli avvocati! 
 

giovedì 15 dicembre 2016

E' solo la fine del mondo

Xavier Dolan

Uno scrittore di teatro omosessuale che, ancora giovane, sta morendo torna in visita alla famiglia, dalla quale era fuggito e che non vedeva da oltre dieci anni, per dirglielo. Alla fine non ci riuscirà.
Il problema di E' solo la fine del mondo di Xavier Dolan è che può essere definito una guerra della regia contro la sceneggiatura. Anche questa è firmata da Dolan, ma a partire da una pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce; comunque, almeno in parte la contraddizione estetica è interna non solo al film ma all'autore.
L'inizio è ottimo. Bellissima l'entrata improvvisa in aereo delle mani di un bambino seduto dietro sugli occhi del protagonista Louis (Gaspard Ulliel). Assai bella poco più tardi l'inquadratura in cui, dietro Louis al volante, attraverso il lunotto posteriore dell'auto vediamo sullo sfondo, piccoli piccoli, due palloncini rossi in volo. Xavier Dolan ha un vero occhio per i momenti e le cose.
Ma già nella presentazione della famiglia prima dell'arrivo del protagonista compare il difetto di una sceneggiatura troppo conscia, incarnata al massimo grado da Antoine, il fratello maggiore. Interpretato con aderenza naturalistica da Vincent Cassel, Antoine è quel tipo di persona che per restar fedeli all'origine francese chiameremo un con o per dir meglio un connard: un con professionista, un con al quadrato.
Va bene e sta bene. Però esiste una precisa regola drammaturgica che si può esprimere come segue: nella vita si è idioti gratis, a teatro e al cinema bisogna essere idioti secondo un metodo. Anche un tratto caratteriale predefinito dev'essere lavorato e comunicato attraverso lo sviluppo drammatico. Per esempio, un esempio eccellente di elaborazione drammatica dei personaggi è Carnage di Roman Polanski, anch'esso tratto – e pur si vede – da un lavoro teatrale.
Antoine è geloso del fratello? Antoine non ha ancora digerito l'antico abbandono? Come che sia, nel film esibisce verso tutti, moglie compresa, anche prima dell'arrivo di Louis, un atteggiamento così istericamente aggressivo che suona sonoramente falso; è talmente caricato (o, come si dice, telegrafato) da incrinare la plausibilità della narrazione (bisogna aggiungere che il doppiaggio non aiuta).
E perché questo? La spiegazione dobbiamo cercarla fuori dal testo. Antoine fa così perché è un elemento di crisi costruito artificialmente, una rotella per mandare avanti la sceneggiatura. Il problema quindi non è che ci troviamo visibilmente in una pièce teatrale; contrariamente a quanto certi pensano, ciò non è un difetto in sé; il problema è che nonostante alcuni buoni passaggi il testo mostra la macchina drammaturgica, allo stesso modo che un tappeto vecchio mostra la trama.
Naturalmente un autore è sempre libero di far saltare del tutto le regole: in un film di Godard come Prénom Carmen Antoine potrebbe starci benissimo. Ma è evidente che non è tale lo scopo artistico di Dolan. E purtroppo il difetto di caratterizzazione del personaggio proietta un senso di artificiosità su tutto il film poiché E' solo la fine del mondo rientra nella categoria del melodramma, un genere ad altissimo effetto emotivo ma pericoloso da maneggiare: il melodramma è cinema dell'eccesso, e a chi maneggia l'eccesso sono proibiti i passi falsi. La grande lezione di Fassbinder va studiata. Così non fa meraviglia che le scene migliori siano quelle in cui gli altri personaggi (la madre un po' svampita, la moglie rassegnata di Antoine, la sorella estraniata che vuole e non vuole andarsene, tutti ben interpretati) sono soli con Louis.
Portando sullo schermo questa sceneggiatura incrinata, Xavier Dolan fa un bel lavoro di regia per infondere sensibilità al film. Si possono ricordare gli stacchi drammatici con un “nero” mantenuto più a lungo dell'usuale. O il gioco di inquadrature nei colloqui, in particolare una scena di abbraccio fra Louis e la madre in cui il primissimo piano inaspettatamente ravvicinato della madre contrasta in modo commovente con quello di Louis, meno forte, nel controcampo. O il senso tragico di un movimento indietro della mdp a partire dall'orologio a cucù, interlineato con inquadrature di Louis che piange all'esterno, e poi seguito dal movimento inverso – e concluso da un potente dettaglio della sigaretta gettata a terra, e sullo sfondo i piedi di Louis che esce di scena. O, alla fine, lo scambio di sguardi con la cognata, che ha capito, col segno del silenzio sulle labbra.
Il finale è barocco nel suo incrocio di tre immagini che alludono alla morte: Louis che guarda il suo orologio, il cucù che batte le ore, lo svolazzare alla cieca di un passero rimasto chiuso in casa. E l'immagine conclusiva con l'uccellino morente è di un simbolismo addirittura esasperato; tuttavia questa centralità del visuale non è malvenuta, in un film che non ha ben trovato la sua strada.
Infatti, diviso tra il meccanicismo del testo e la sensibilità della regia, questo film lascia una sensazione di incompiutezza. Molte cose gravi sono implicate nella fabula (l'incapacità di parlarsi, l'impossibilità del ritorno, il peso del non detto e la tragedia del non dicibile), ma solo in parte si trasmettono nel racconto; mentre per l'altra parte appartengono semplicemente all'oggetto del narrare, e si colgono per empatia. 
 

mercoledì 7 dicembre 2016

Sully

Clint Eastwood

Già sul logo delle case di produzione entra il sonoro del decolloe l'incidente aereo coi motori in fiamme lo vediamo nei titoli! Nel meraviglioso Sully Clint Eastwood ci spiazza tutti – anche perché la conclusione disastrosa è il contrario di quel che sappiamo e siamo venuti a vedere. Certo, dopo lo schianto fra i grattacieli vediamo che era un sogno. Ma questa è un'anticipazione del modo in cui il film si rapporta allo spettatore.
Audacia di Eastwood: invece che mettere in scena la crisi secondo il consueto ordine drammaturgico (preparazione, incidente, sviluppo post-crisi), Eastwood col suo sceneggiatore Todd Komarnicki distribuisce abilmente il racconto tra flashback e ripetizioni, tre volte nonché due scene immaginarie, creando una struttura anacronica (come già aveva fatto in J. Edgar) e con ciò distillandone, per così dire, la drammaticità. Si dice sempre che Eastwood è l'ultimo grande regista classico, ed è vero. Ma non si insiste abbastanza sul fatto che proprio il classicismo può dare peso a certe deviazioni dal proprio modello narrativo, che nel cinema d'oggi – postmoderno, se vogliamo dagli un'etichetta – sarebbero usual fare, e quindi meno efficaci.
Come tutti sanno, il film racconta la storia vera del comandante Sullenberger (Sully) che nel 2009, dopo l'incidente (causato da un birdstrike, l'impatto contro uno sciame di uccelli) si arrischiò ad ammarare con l'aereo privo di motori sul fiume Hudson, giacché aveva calcolato che non sarebbe riuscito a raggiungere l'aeroporto più vicino; e così salvò tutti i passeggeri. Sully diventa un eroe fra la gente comune di New York, ma la burocrazia governativa lo mette sotto accusa perché le simulazioni al computer dicono che avrebbe potuto raggiungere l'aeroporto. Di qui anche per lui gli inevitabili dubbi di fronte agli attacchi, comprendenti l'affermazione che il motore di sinistra funzionava ancora (il che non coincide con i dati che Sully aveva rilevato in cabina). Nel contempo il film ci informa con sobrietà sulla sua vita privata, attraverso le sue telefonate con la moglie (Laura Linney). Sully è interpretato da Tom Hanks, che era apparso completamente bollito nel recente Inferno di Ron Howard e che qui invece offre un'eccellente interpretazione (del buon cast di contorno bisogna ricordare anche Aaron Eckhart nel ruolo del co-pilota Jeff).
Il cinema di una volta (e parlo del cinema mainstream, mica quello d'essai!) era in grado di costruire un film emozionante su una discussione collettiva – un caso limite e un esempio fondamentale è La parola ai giurati di Sidney Lumet – mentre quello di oggi privilegia in assoluto l'azione. Eastwood con Sully ci dà la misura delle grandi potenzialità cinematografiche cui abbiamo largamente rinunciato. E' sia prima sia durante questa discussione che vediamo l'incidente, il “pronti all'impatto”, l'ammaraggio; e il procedimento anacronico ha potenziato grandemente l'effetto emotivo.
Ebbene, nel corso del dibattito – una sorta di processo pubblico davanti alla commissione d'inchiesta – si scopre l'imbroglio delle simulazioni (attenzione, fino alla fine del presente paragrafo segue spoiler). Non solo anche il motore di sinistra era effettivamente andato, ma le simulazioni di atterraggio con successo all'aeroporto erano riuscite solo dopo diciassette prove; peggio ancora, tali simulazioni non comprendevano i 35 secondi necessari dopo il birdstrike per rendersi conto della situazione. Quando si aggiungono questi 35 secondi, i tentativi simulati di raggiungere l'aeroporto portano al disastro.
E a questo punto rivediamo, ampliato, l'incidente e l'ammaraggio, in potenti immagini di lucida bellezza: qui Eastwood fa della vera poesia epica. Merita aggiungere che le scene seguenti dell'emergenza sull'Hudson sono anche un omaggio agli uomini che proteggono New York; l'11 settembre (evocato obliquamente nel dialogo) persiste nella memoria.
Lo abbiamo sempre detto: Clint Eastwood è hawksiano. Il cinema degli uomini che sanno fare il loro lavoro: Sully è una rivendicazione dell'esperienza, della capacità, dell'uso delle mani e della mente in situazioni di pressione, contro la tecnocrazia dei test al computer. Questo lo conferma la scena in flashback della giovinezza di Sully col biplano: “Un pilota non smette mai di acquisire conoscenza” e come lo fa? Volando, solo volando.
Umanesimo di Eastwood: per lui, come per Howard Hawks, nulla vale quanto l'esperienza del professionista cresciuto nel suo mestiere. Il che, in un mondo che ha eletto a oggetto di culto il computer (e anche, per inciso, quel suo derivato stupidotto che sono i social), non è una lezione da sottovalutare.
Il discorso finale di Sully e la commovente scena conclusiva, che mostra l'autentico Sullenberger e sua moglie attorniati dai veri passeggeri dell'aereo, anni dopo (“Saremo legati per sempre”), sono assolutamente necessari al film. Perché evidenziano un carattere basilare della cultura americana: l'eroismo e la capacità individuale si inseriscono nella collettività, ed è questo che dà agli USA quel sentimento inattaccabile del sentirsi nazione. In questo senso la conclusione di Sully si connette alla toccante conclusione (anch'essa, non per nulla, materiale filmato autentico) di American Sniper, quando la bara di Chris Kyle nel suo ultimo viaggio viene salutata lungo tutta la strada da una moltitudine di gente commossa che agita la bandiera stellata. E pluribus unum.

domenica 4 dicembre 2016

Il cittadino illustre

Gastón Duprat e Mariano Cohn
 
La realidad no existe”, dice il protagonista del film. Evidentemente nella cultura sudamericana il rapporto e lo scambio fra l'invenzione letteraria e la realtà è un tema fortissimo (non per niente Borges era argentino!). Lo ha declinato, in forme non del tutto convincenti, il recente Neruda di Pablo Larrain; ed è il tema della bella commedia nera Il cittadino illustre di Gastón Duprat e Mariano Cohn, che all'ultima Mostra di Venezia ha procurato a Oscar Martinez il premio come miglior attore. Il film ha la capacità di mettere insieme con efficacia e sicurezza i suoi due assi portanti: un'ironica allegoria della scrittura e una satira molto concreta e sanguigna dell'Argentina profonda.
Giustamente il protagonista Daniel Mantovani è uno scrittore; e il film inizia con il suo discorso a Stoccolma quando gli viene assegnato il premio Nobel, in cui gela il raffinato l'uditorio dichiarando che il compito dell'artista è turbare le coscienze, per cui il Nobel è certamente un onore ma sancisce il suo declino. Una scena intelligente e divertente – anche se, ora che esce il film, i numeri di Snob Dylan l'hanno, come dire, un po' indebolita.
Cinque anni dopo, Mantovani vive ritirato e rifiuta programmaticamente interviste, incontri e onorificenze. Ma ecco che accetta di andare (da solo) a Salas, il suo paese natale nel mezzo del nulla, dove non era mai ritornato dopo averlo lasciato da giovane, e dove sarà proclamato “cittadino illustre”. Bisogna però aggiungere che in un certo senso Mantovani non ha mai lasciato Salas, perché tutto quello che ha scritto richiama le esperienze della sua giovinezza laggiù, amplificate a formare un grande quadro della condizione umana.
Il film ha un'ambigua comicità nel descrivere come gli abitanti di Salas – che si sfiatano a dichiararsi molto fieri del loro concittadino – credano di riconoscere in tutta la sua opera, in ogni personaggio, in ogni avvenimento, perfino in ogni storia narrata da Mantovani lì per lì, sempre un riferimento concreto al piccolo mondo del paese. Di fronte a quest'insistenza euristica Mantovani ha un bel rivendicare l'indipendenza dell'arte dal contingente, dall'ideologia, dalla morale (cita audacemente Leni Riefenstahl). Probabilmente è il solo difetto del film che il programma di trasformare Mantovani in un portavoce della concezione dell'arte come invenzione e provocazione sia un po' troppo presente e insistito. Ma questo è fondamentalmente un film di sceneggiatura; e del resto, la conclusione – che non occorre svelare qui – retrospettivamente lo giustifica.
La perfezione sta nei dettagli, e Il cittadino illustre ne contiene alcuni assolutamente esilaranti: il filmato celebrativo di Mantovani costruito al computer, dove la bruttezza assoluta della realizzazione raggiunge un vertice di veridicità; l'intervista alla radio locale; la terrificante mostra di pittura amatoriale dove Mantovani è invitato come presidente della giuria, e senza volerlo sconvolge gli equilibri politici della cittadina.
Tutti perseguitano Mantovani per esternare questi due gemelli etimologici, il riconoscimento e la riconoscenza; mentre lui, sempre più perplesso, incontra vecchie conoscenze e un vecchio amore come fantasmi sempre più inquietanti. Tanto più che è entrato in scena l'antico miglior amico di Mantovani, il quale ha sposato la sua antica fidanzata – e c'è qualcosa di minaccioso nell'insistenza con cui allude, in mezzo alle dichiarazioni di amicizia fraterna, al fatto che adesso lei è sua. L'amicizia di cui è circondato mostra nascoste fragilità, e dietro i sorrisi spuntano ghigni.
La cosa migliore del film è proprio quell'atmosfera di minaccia che si costruisce lentamente, dapprima impalpabile e quasi kafkiana, confondendosi con la ridicolaggine imbarazzante di un provincialismo benintenzionato, poi definendosi a poco a poco, dapprima con l'aperta contestazione di un gruppo iper-conservatore, per poi esplodere nel terrore.
Un processo di degradazione che viene anticipato nella sequenza buffissima del viaggio di Mantovani verso il paese, sull'auto di un ciccione scemo che il comune ha mandato a prenderlo all'aeroporto più vicino. Ove assistiamo alla distruzione della scrittura di fronte alla brutale realtà: i due restano in panne in una landa sperduta, e i libri di Mantovani servono ad accendere il fuoco del bivacco o per un uso ancora più degradante quando il ciccione ha bisogno di ritirarsi dietro un cespuglio.
Così, da cittadino illustre a nemico pubblico il passo è breve (lo sapeva già Shakespeare…). E il livido quasi-finale del film non solo corona perfettamente la sua paziente costruzione dell'atmosfera ma ci fa capire qualcosa sulla ferocia della storia argentina del Novecento.
 

Hey, Oishi

Kikuzawa Masanori

Ha senso parlare di un cortometraggio che (quasi) sicuramente i lettori di questo blog non vedranno mai? Beh: potrebbe averlo se pensiamo che può suggerire un nome, un autore; del resto, in questa sede ho pubblicato una panoramica sui film orientali visti al Tokyo International Film Festival 2016, e quanti di questi saranno visibili da noi? Beninteso, Hey, Oishi di Kikuzawa Masanori non è stato presentato al TIFF: è un cortometraggio (quasi un mediometraggio: 26') che è stato selezionato per il Pia Film Festival. Un cortometraggio totalmente d'avanguardia, che rientra nella categoria arthouse (ovvero, d'essai) – non privo di difetti, ma impressivo, con una sua forza poetica, che si imprime nella memoria con l'assolutezza del suo senso di smarrimento, solitudine e rimpianto.
Sull'inizio risuonano slogan pacifisti di protesta sul proposto cambiamento della costituzione giapponese. Arriva in bici Masanori, si sporge dal ponte e chiama Oishi, che sta lì sotto sulla riva del fiume. I due discutono prima sulle proteste, in tono vagamente beckettiani, ma l'argomento su cui si spostano ben presto è il rimpianto delle madri, entrambi morte, che assume toni strazianti nel racconto (dove si introduce la preoccupazione di Dostoevskij: se Dio non c'è, tutto è lecito); nella “visita guidata” alla casa demolita, forse immaginata, ora un campo; e soprattutto in una sorta di evocazione simbolica (un drama, dicono): “Madre, madre, dove sei? … Alla veglia le tue guance erano così fredde” - mentre l'altro gira intorno mimando una figura di madre che non è vista né sentita; e poi si scambiano le parti.
Nella notte questo confronto di anime disperate diventa un colloquio “parlandosi” con un alfabeto di lampade agitate nel buio (il film lo rende in didascalia). Oishi dice “Andrò dritto lungo il fiume, ci dovrebbe essere un'altra casa per me”, e che sua madre potrebbe essere ancora viva. Scompare. Il giorno dopo, Masanori arriva in bici e non c'è nessuno. La sera, nuovi messaggi di luce all'assente Oishi. Masanori opina che forse è andato a casa di sua madre a salutarla. Lo sentiamo gridare ancora, inutilmente, “Hey, Oishi!” - poi gli slogan contro la guerra soverchiano crescendo la sua voce.