sabato 26 gennaio 2008

Io sono leggenda

Marc Lawrence

L’idea migliore di “Io sono leggenda” è all’inizio: l’ironica risposta visuale alle parole della dottoressa che per curare il cancro ha inventato un virus geneticamente modificato, e ne parla in tv paragonandolo a un’auto potentissima guidata in autostrada da un poliziotto anziché da un uomo cattivo. Lo stacco a 3 anni dopo (quando il virus ha ammazzato quasi tutti, trasformato i sopravvissuti in zombi e distrutto la civiltà) mostra auto abbandonate in un’autostrada allagata.
Dopo di che, il film di Marc Lawrence precipita progressivamente. Robert Neville (Will Smith), un sopravvissuto immune che ha perso moglie e figlia durante l’evacuazione, gira per una New York deserta con la sua cagna Sam; al tramonto si affretta a tornare a casa perché di notte vagano orde di zombi fotosensibili. Cerca senza successo di trovare un vaccino in laboratorio. Comincia a perdere il contatto con la realtà e parla ai manichini dei negozi vuoti.
Tutto quanto fa la grandezza del superbo romanzo fantascientifico di Richard Matheson da cui il film è tratto… la cupa drammaticità, il senso di claustrofobica solitudine di Neville, la sua disperata guerra privata contro i vampiri… va perso nell’ordinaria e stravista “action” umano-contro-supermostri del film, dove tra l’altro gli zombi, pur aggressivi e velocissimi, non sono particolarmente spaventosi (del resto la CGI del film non è il massimo). Si perde anche l’aspetto più angoscioso del romanzo di Matheson, quello dell’assedio – visto che qui Will Smith si nasconde e quando gli zombi scoprono dove abita è finita. Neanche dirlo, in questi tempi di neopuritanesimo, manca il riferimento mathesoniano al desiderio sessuale di Neville dopo anni di astinenza (salvo vaghe allusioni: i manichini, un nudo incorniciato in una casa). Senza dubbio, è spettacolare questa New York abbandonata, popolata di cervi e leoni. Però anche queste immagini hanno un interesse visuale più che una drammaticità intrinseca: vogliamo paragonarle ai grandi film apocalittici fra i ’50 e i ’60?
Invero, “Io sono leggenda” serve soprattutto a confermare la mediocrità dell’attuale generazione di sceneggiatori americani, qui Mark Protosevich e Akiva Goldsman. Il film colleziona implausibilità, forzature, oscurità (da dove viene la trappola in cui resta preso Neville? E’ una delle sue o un omaggio degli zombi?), “loose ends” (quando la moglie di Will Smith risulta positiva al controllo durante l’evacuazione, lui lo fa ripetere e lei passa, diciamo: ah, dunque lei si inzombirà sull’elicottero provocando l’incidente mortale - invece, finita lì). Di peggio in peggio, si arriva alla stupidità assoluta della scena in cui Neville dà di matto con la ragazza; per non dire dei discorsi deliranti di quest’ultima su Dio. Come sempre al cinema, l’implausibilità non sta nell’idea in sé ma nel modo goffo in cui essa viene realizzata.
E’ interessante dal punto di vista socioculturale la conclusione col villaggio dei superstiti dietro il recinto: puro “American Gothic”, con la chiesetta eccetera, materializza sullo schermo una sorta di nostalgico sogno di rinchiudersi in un mondo ideale del passato. Il tutto messo in scena senza un filo d’ironia. Le parole conclusive poi comportano il rovesciamento totale del testo di Matheson. Nel romanzo, “Io sono leggenda” perché, in un mondo in cui i mostri sono la popolazione, è l’ultimo essere umano a essere il mostro. Nel film, “Lui è leggenda” (detto in voce over) perché ha trovato la cura. L’aspro relativismo di Matheson è stato trasformato nella targa su un monumento.
A parte l’ovvio influsso su George A. Romero, questo romanzo era già stato portato sullo schermo nel 1963 (“L’ultimo uomo della terra”, con Vincent Price) e nel 1971 (“1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra”, con Charlton Heston) – più il tv movie “I Am Omega” nel 2007. Un consiglio: se volete vederne la “vera” versione, compratevi il dvd Ripley’s de “L’ultimo uomo della terra”, ottimamente curato da Silvia Moras, e dimenticatevi di Will Smith.

(Il Nuovo FVG)

La promessa dell'assassino

David Cronenberg

“Not for the squeamish”. Nello splendido “La promessa dell’assassino” di David Cronenberg, che inizia con una gola segata dal rasoio di un killer e poi stacca sull’incongruità dei piedi nudi di una ragazza interamente vestita che sta per morire di emorragia, l’evidenza crudele delle immagini (marchio di fabbrica peraltro di tutto il cinema di Cronenberg) è fondamentale; la loro crudezza è l’involucro necessario della cupezza di questa storia - ma diremo meglio, di questo universo.
In una Londra piovosa, sul finire dell’anno, una sconosciuta adolescente russa drogata partorisce, prima di morire, una bambina nelle mani dell’ostetrica Anna (Naomi Watts). Cercando l’identità della morta per evitare alla piccola l’orfanotrofio, Anna si trova coinvolta con la terribile mafia russa di Londra. Al cui interno si gioca il gioco del potere fra i tatuati “soldati” e “capitani” del clan diretto dal feroce patriarca Semion (Armin Mueller-Stahl), tra il suo debole figlio Kiril (Vincent Cassel) e il suo guardaspalle in ascesa, Kolja (Viggo Mortensen). Per Anna la difesa della neonata è una sorta di riparazione: l’ombra di un suo precedente aborto, mai enunciato visivamente, pesa su tutto il film - è per questo che all’inizio c’è tanta enfasi visiva sulla neonata insanguinata. Ma anche perché, nel mondo dipinto da Cronenberg, sceneggiato da Steve Knight, è giusto ricordarci che nasciamo nel sangue.
“Questo non è il nostro mondo, – fa sua madre ammonendo Anna di non impicciarsi – noi siamo gente comune”. Cronenberg ci dà il vero film (altro che il modesto Denys Arcand!) sulla caduta della civiltà occidentale: descrive il nuovo medioevo in cui fra la vita degli umili e quella dei potenti la mediazione rassicurante del diritto comune non esiste più (l’affermazione di Kolja “Gli schiavi mettono al mondo schiavi” è tutt’altro che metaforica). Ma il film va oltre l’assunto politico. Cronenberg, questo disegnatore di “universi mutanti”, mette in evidenza nel film tre “bolle di universo” (la famiglia di Anna – il clan della mafia russa – il doppio gioco e le infiltrazione del FSB, ex KGB) di cui ciascuna ingloba e determina a sua insaputa quella inferiore, ed è a sua volta determinata dalla superiore: una gerarchia di livelli di esistenza che non può non ricordarci la sua trascrizione in termini fantastici, attinenti ai videogiochi, in “eXistenZ” (1999).
David Cronenberg, lo sappiamo, è il cineasta delle mutazioni del corpi, il profeta della “nuova carne”. Questo tema ne “La promessa dell’assassino” sembra nascosto, e invece è evidente – lo dichiarano anche i titoli di coda, che presentano dettagli ingranditi dei tatuaggi sulla pelle del mafioso russo. Perché “nelle prigioni russe la storia della tua vita è scritta sul tuo corpo: con i tatuaggi – se non hai i tatuaggi non esisti”. Come in “Crash” (1997) il corpo si modificava in un “corpo altro” con gli innesti ortopedici, così qui la scrittura imposta su di esso determina la sua realtà, la sua identità, la sua concretezza. E’ inutile rendere anonimo, nel modo macabro che vediamo nel film, un cadavere – perché sarà il suo corpo stesso a parlare. Ecco l’ultima incarnazione cronenberghiana della “nuova carne”.
Proprio per questo la cerimonia del tatuaggio in cui Kolja ottiene le “stelle” di capo è intrisa d’un nero misticismo. Ed ha senso che questa scena si leghi immediatamente a quella, già celebre, dello scontro nei bagni pubblici fra Viggo Mortensen completamente nudo e due killer in giacca di cuoio: dove la carne, l’acciaio e il cuoio volteggiano in una danza mortale degli elementi.
Delle “stelle” si parla sempre nel film con un rispetto mistico (“Dì alla sezione russa che hai visto stelle sopra il mio cuore. Digli che ho oltrepassato soglia”). Il tatuaggio non è un trofeo, o un mero simbolo di grado; è una “soglia”, è la concretizzazione di una mutazione; appartiene alla stessa classe delle escrescenze, degli innesti metallici, dei peli ispidi di mosca, delle fessure per videocassetta che spuntano nei corpi cronenberghiani.

(Il Nuovo FVG)

venerdì 18 gennaio 2008

Couscous

Abdellatif Kechiche

Al cinema l’autenticità è prima di tutto una questione di tempo. Il “tempo lungo”, non sfrondato, di una discussione interminabile: la bambina di due anni che non vuole imparare a fare la pipì nel vasetto, la madre incazzatissima non la finisce di rognare sulla piccola, il nonno con la bambina in braccio la difende mitemente. Una noia, dirà chi non ha visto “La graine et le mulet”, in Italia “Couscous” (sarebbe il cuscus), di Abdellatif Kechiche. E invece no, è appassionante.
Slimane (Habib Bonfares), un immigrato algerino sessantenne, è divorziato e divide il suo tempo tra i figli e figlie avuti con la moglie, ottima cuoca di cuscus, e la sua nuova compagna, la cui figlia Rym (Hafsia Herzi) lo adora. E’ una situazione familiare complicata quella che si riflette nel viso stanco del vecchio. Kechiche rende in maniera immediata e autentica questi rapporti, con tocchi profondamente “veri”, come quando le figlie fanno educati complimenti alla nuova compagna del padre quando la incontrano e appena sole si mettono a criticare “quella troia”. Hafsia Herzi, Coppa Mastroianni alla Mostra di Venezia, è davvero una rivelazione – e non lo dico per la lunga sequenza finale di danza del ventre che ha fatto molto per la fama del film; basta vedere la grande scena del litigio con la madre.
Il film ha la capacità di mantenere il suo senso di immediatezza quando dalla cronaca familiare il racconto passa a un supporto narrativo. Licenziato dopo 35 anni di lavoro, Slimane decide di usare la liquidazione per comprare una vecchia carretta di nave ormeggiata al molo e aprirci un ristorante di cuscus a conduzione familiare. Nota in margine, qui c’è un aspetto del film dove la reazione degli spettatori francesi e italiani sarà divergente. Perché “Couscous” vuol guardare con ironia malinconica alle difficoltà burocratiche (la banca non dà il prestito senza il permesso del comune, il comune non dà il permesso senza il prestito della banca); i francesi troveranno l’iter vagamente kafkiano; a noi italiani sembra un miracolo di rapidità, buon senso e buona amministrazione. Da noi Slimane sarebbe ancora lì che spende e attende per collezionare pezzi di carta.
Tornando a Kechiche, “Couscous” non è un film nato all’insegna della spontaneità; il regista ha provato a lungo coi suoi interpreti, in buona parte non professionisti, per poi lasciarli liberi al momento di girare. Appunto, si sente a volte la sceneggiatura sporgere come un’ossatura sotto l’apparente naturalezza. Per esempio è molto sottolineato il rapporto tra i discorsi sul malocchio e la telefonata che innesta la gelosia della nuora. Esiste anche un tentativo di metaforizzare (“il cuscus è l’amore”, dice l’ex moglie di Slimane) ma poi per fortuna il film non ci insiste sopra.
Quello che il regista franco-algerino sa meglio dipingere sono i momenti di discussione. Qui risalta in particolare quel senso assoluto di realtà che Kechiche -amante dei primi piani, anche molto stretti - è capace di dare ai visi; la sua macchina da presa a mano scivola velocemente da un viso all’altro – oppure, sono rapidi stacchi. Non penso solo a scene di gruppo (il lungo pranzo familiare domenicale, i vecchi al bar dell’albergo che commentano i guai di Slimane) ma anche più ristrette, come quella già citata di Rym con la madre, oppure quella della disperazione furiosa della nuora di Slimane, malmaritata con un suo figlio cialtrone, scena prolungata quasi fino all’intollerabile con la rabbia lacrimosa che ritorna su se stessa come un disco rotto.
Alla fine (lettore, attento: segue spoiler!) tutto il piano di Slimane va in crisi per una stupidaggine del figlio. Ebbene, qui “Couscous” si chiude su una sospensione del racconto, sul filo dell’ambiguità, che è forse la cosa migliore del film, o comunque la più rivoluzionaria. Mentre il cinema tradizionale mette in scena la peripezia, con i suoi momenti di crisi, allo scopo di arrivare a un momento di risoluzione, in cui si crea un equilibrio (di solito felice), questo film lascia i suoi percorsi aperti e vitali.

(Il Nuovo FVG)

Beowulf

Robert Zemeckis

“E questo diverrà un luogo di baldoria, gioia e fornicazione!”, urla re Hrothgar (Anthony Hopkins) nudo sotto un mantello dopo essersi dato al buon tempo con due ancelle, inaugurando la grande sala. Ma invece il mostro Grendel la trasformerà in luogo di lutto per i vichinghi. Comunque “baldoria” è una buona parola per intendere il notevole film che Robert Zemeckis ha tratto dalla saga di Beowulf, scritta prima dell’anno Mille, in cui l’eroe sconfigge Grendel, poi la sua demoniaca madre e infine un drago. “La leggenda di Beowulf”, sceneggiato da Neil Gaiman e Roger Avary, riscrive intelligentemente la saga integrandola con una buona trovata: il padre di Grendel e quello del drago sono rispettivamente Hrothgar e Beowulf, che in segreto hanno peccato con la donna-demone. Se tenete conto che nel film la madre di Grendel è Angelina Jolie nuda, tutto diventa comprensibile. Con la sua pelle d’oro, lei incarna un delirio mitico-metallico-feticista (i tacchi a spillo incorporati nel piede come talloni!), e ricorda quell’immagine archetipica della donna meccanica del cinema che è il robot di “Metropolis”. Ma è toccante la scena, tutta minimale, in cui seppellisce singhiozzando il mostruoso figlio morto.
Ci troviamo davanti a un film realizzato in “motion capture”: ovvero, il movimento degli attori reali - che hanno recitato con una tuta cosparsa di sensori - è rifatto in digitale e inserito su sfondi in computer graphics. Il risultato è una via di mezzo tra un disegno iperrealistico e un’immagine fotografica “smaltata di disegno” – qualcosa di più e insieme qualcosa di meno di quella realtà iconica su cui il cinema ha fondato la sua storia. Il racconto visivo così si trasforma in qualcosa di falso e di folle. Poiché, mentre i visi sono incredibilmente realistici (e infatti Ray Winstone, Anthony Hopkins, Brendan Gleeson eccetera sono listati a pieno diritto come interpreti), il movimento dei corpi umani ha qualcosa di finto e sospeso, vagamente surreale. Ciò che qui si accorda benissimo con questo pazzo racconto di guerrieri e di mostri.
Uno penserebbe che il vantaggio numero uno della “motion capture” integrale sia quello di sfruttare la carica di meraviglia degli sfondi e delle creature fantastiche. Tuttavia non è così, perché comunque li si potrebbe inserire in un film dal vero (pensiamo a Gollum e “Il Signore degli Anelli”); allora, perché tradurre in computer graphics tutto il film? Oltre che per una generica unità di tavolozza, s’intende. Vorrei suggerire che l’effetto primario di questo passaggio si possa concentrare nel termine “esaltazione”. Ossia che esso consenta ai realizzatori una libertà psicologica prima ancora che tecnica.
Vale sul piano del piano del linguaggio cinematografico. E’ usuale nei film d’oggi che la macchina da presa si getti in slanci folli; ma certi looping che troviamo qui sono assolutamente estremi. Non dico lo splendido volo all’indietro che dalla sala festante dei vichinghi ci conduce, con un progressivo spegnersi in lontananza dei canti, all’orrida tana di Grendel; ma a un certo punto la macchina da presa parte dal dettaglio dell’ugola nella bocca spalancata di una donna urlante per uscirne in un veloce allargamento del quadro. Una soluzione retorica che in un film dal vero apparirebbe ridicola e qui no: proprio perché l’immagine si colloca in un “terrain vague” tra cinema e cartoon, tra fotografia e disegno.
E vale – esattamente per lo stesso motivo - sul piano narrativo. In effetti oggi, con l’eccezione di pochissimi grandi come Tarantino, nel cinema d’avventura americano c’è il triplo di forza sanguigna, calore, fisicità, isteria nei film “a fumetti” (“Sin City”, “300”, “Beowulf”) rispetto a quelli “dal vero”. Questo film ha una violenza narrativa e un impatto visivo rari per l’attuale “allure” del cinema americano, impestato di “politically correct”. Un delirio di forza, lussuria e potere (Beowulf dixit) che riporta sullo schermo un barbaglio di un’Europa selvaggia e vitale, di cui oggi non restano che le ceneri.

(Il Nuovo FVG)

Un'altra giovinezza

Francis Ford Coppola

C’è una bella immagine verso la fine del nuovo film di Francis Ford Coppola “Un’altra giovinezza” (dal romanzo di Mircea Eliade), quando il protagonista Dominic infrange lo specchio così uccidendo il suo “doppio”, e vediamo l’immagine di quest’ultimo scivolare giù moltiplicata nei frammenti che cadono. Paradossalmente, quest’immagine può valere come metafora del non riuscito film di Coppola. Che è una congerie di frammenti: alcuni brillanti e notevoli, altri così piatti da apparire indegni dell’autore di “Apocalypse Now”. Né questi frammenti riescono a fondersi in un tutto; ecco perché “Un’altra giovinezza” non si può definire nemmeno una perla barocca, uno di quei film “sbilenchi”, falliti ma affascinanti, che magari diventano i preferiti di chi ama l’autore.
Il difetto base sta nella sceneggiatura dello stesso regista-produttore, che si può definire solo impacciata nel suo tentativo di materializzare l’eccentrico fluire del romanzo di Mircea Eliade (ci sarebbe voluto Greenaway, o Raul Ruiz). In realtà Coppola come narratore è legato a una concezione narrativa “forte”, strutturata. Viene in mente l’importanza che riveste in lui – penso alla saga del “Padrino” – una forma artistica ottocentesca come il melodramma. I suoi più famosi adattamenti letterari vengono da testi “di confine” del romanzo ottocentesco, come “Cuore di tenebra” di Conrad e “Dracula” di Stoker. E’ a partire da un testo base compatto che meglio si esplica la sua capacità di ampliamento del testo fino a comprendere la soggettività e il delirio. Il romanzo di Eliade è invece liquido e sfuggente, quasi uno “stream of consciousness” di suggestioni culturali e incubi intellettuali (viene in mente Borges), non privo di una sottile ironia. Coppola sembra volerlo “razionalizzare”. E’ solo inevitabile a questo punto che si volga a un mito ottocentesco, e poi cinematografico, quale la liberazione violenta dal proprio doppio. La rottura dello specchio da parte di Dominic è strettamente imparentata con il colpo di pugnale che Dorian Gray vibra al proprio ritratto in Oscar Wilde.
Non è questione di fedeltà al testo (che peraltro il film rivendica), ma del fatto che il necessario lavoro di drammatizzazione e condensazione è svolto con evidente fatica. Vedi la pesantezza con cui è gestita l’ambiguità della “signorina della camera 6” (e nel primo incontro con Dominic il dialogo è credibile nel romanzo, ridicolo nel film, dove Coppola ha già voluto farci sapere tutto, con una mania esplicativa che ricorda la fiction tv italiana). Vedi l’apertura piattamente illustrativa della seconda parte, con l’incontro con le due donne in montagna: se il romanzo di Eliade giocava sul discorso indiretto e sul piuccheperfetto, Coppola si sente costretto a riportarlo goffamente al “racconto primo”. Ora lascia imprecisati dei punti nodali (per esempio l’oscura concezione di una potenza che dall’alto determina la vita di Dominic), ora condensa in modo (aspirante) realistico gli episodi - solo che qui “realistico” si traduce in “romanzesco”: vedi l’unificazione di parti dello svolgimento sotto il segno para-spionistico del nazista Rudolf, con tanto di ridicolaggine melodrammatica della bellona innamorata che si sacrifica.
Ha senza dubbio valore, e l’ha segnalato (forse con qualche sopravvalutazione) molta critica, l’elemento visionario presente nel film: il ritornante rovesciamento onirico degli assi cartesiani della visione (nella sequenza con la bella spia, rinforza un fascino erotico che solo redime questo segmento mediocre e affrettato); la scissione - in immagini sorprendenti - fra Dominic e la sua immagine nello specchio (nel romanzo il “doppio” è interno alla mente); la sequenza della regressione temporale di Veronica/Rupini, che produce un autentico brivido d’orrore. Più in generale nessuno nega che Coppola rivesta di bellezza visuale le sue immagini. Se ne potrebbero fare molti esempi; ma tutta questa bellezza visuale non cancella l’impressione di un colpo mancato.

(Il Nuovo FVG)

The Time of Her Life

Benedetto Parisi

Presentato in anteprima nazionale al Visionario di Udine (dopo aver partecipato al premio documentaristico Libero Bizzarri), il bellissimo e commovente documentario di Benedetto Parisi “The Time of Her Life” racconta in una lunga intervista corredata dalle sue foto la vicenda della fotografa scozzese Lesley McIntyre e di sua figlia Molly, nata con una grave anomalia muscolare diagnosticata dai medici fin dalla nascita, costretta alla carrozzella e morta a 14 anni. In un libro dallo stesso titolo Lesley aveva raccolto le immagini del “tempo della vita” di sua figlia: una vita a orologeria - ma durante la quale la madre l’ha tenuta fuori dagli ospedali, battendosi per farle frequentare la scuola, portandola al mare e ai parchi e insomma garantendole la vita più normale possibile. Nell’incontro col pubblico del Visionario ha raccontato di essere diventata addirittura “unpopular” presso alcuni a causa di questa sua lotta. Non solo la sua carriera ma anche il suo matrimonio è crollato, e lei ha condotto la sua battaglia da sola. Dice nel documentario: “Molly divenne il mio lavoro”.
“The Time of Her Life” è un film sulla memoria; è appropriato che abbia inizio con il trasloco di Lesley – perché un trasloco è una specie di “liberi tutti” dei ricordi, c’è un senso di ritrovamento, ove le memorie non è che vengano dissepolte (perché mai si sarebbero dovute dimenticare?) ma certo assumono una nuova voce, man mano che riemergono dagli involucri (poi spesso, non dico qui, riappaiono dal più impervio degli involucri: l’abitudine dello sguardo). Gli oggetti che emergono dalle casse – la tenerezza di un uccello costruito a scuola, la drammaticità di un busto ortopedico – ci dicono: è un film sulla memoria e sulla morte. Eppure, apparente contraddizione, questo film sulla morte è pervaso da un radicale vitalismo. Qui occorre un’osservazione ovvia, ma irrinunciabile: noi viviamo in una civiltà che ha messo la morte fra parentesi, l’ha sottoposta a un’opera di rimozione; ma se una società non riesce più a parlare della morte, succede che non riesce più a parlare neanche della vita. Questo legame, invece, il documentario (ma prima ancora del dispositivo, la saggia umanità di Lesley McIntyre) lo esprime appieno. Ciò che in primo luogo Lesley ha dato a sua figlia è la volontà di vivere.
La peribilità del corpo esalta l’intensità, no, meglio, la presenza imperiosa, della vita. Una sorta di metafora oggettiva di questa vitalità, indomabile benché transeunte, credo si debba vedere nel mondo vegetale, che è molto presente nell’opera. Giustamente Parisi quando ci mostra la bellezza delle scogliere del Galles, dove Lesley non senza fatica portava Molly, si sofferma sulla macchia viola dell’erica abbarbicata. Lesley racconta di essersi dedicata per tre anni al giardinaggio per affrontare la morte di Molly: “letteralmente ti radica”. E’ per questa irriducibile accettazione della vita che, racconta la madre, “Molly usava ogni opportunità che ritrovavo per lei”; è per questo che a 14 anni Molly è “very angry”, furente, di morire (vengono in mente i versi, non disperati ma possenti e vigorosi, di Dylan Thomas: “Do not go gentle into that good night. / Rage, rage against the dying of the light”).
E ancora, vedremo una materializzazione di questo spirito vitale nelle foto di Lesley McIntyre: ce n’è una presa al mare, con Molly distesa schiena in alto a braccia aperte, dove quella “fragilità” del corpo della figlia, di cui Lesley ci ha parlato (e di cui abbiamo visto come testimonianza il suo busto), si trasforma in una strana bellezza; quella dolorosa magrezza delle braccia si dissolve in una grazia extraumana che fa pensare a un anemone di mare. Se la fotografia del corpo umano oscilla in genere fra i due campi del corpo sano (o sessuale) e del corpo doloroso (o barocco), qui non si situa nell’uno né nell’altro. Lo stesso si può dire, evidentemente, per il documentario emozionante e profondamente umano che riporta con vera “pietas” questa storia di due eroismi gemelli.

(Il Nuovo FVG)

Giorni e nuvole

Silvio Soldini

Nel cinema di Silvio Soldini, lo scrivevamo in questa rubrica anni fa parlando di “Pane e tulipani”, perdersi è sempre una buona occasione per ritrovarsi. E’ un tema ricorrente del regista milanese il gioco del caso, che scatta e fa deragliare i personaggi fuori dai binari della loro vita. Solo che questo deragliamento, pur disastroso, ha un che di necessario. Perché c’è un terrore oscuro, in Soldini, quasi un mito negativo, dell’esistenza che scorre fissa e incasellata, sempre uguale, sempre meno capace di intravedere dimensioni nuove.
Per questo hanno un ruolo così importante nel cinema di Soldini le case. Nella loro struttura rigida, rappresentano un “ubi consistam” che lentamente si è ossificato, la materializzazione tangibile di un’esistenza cristallizzata e costretta in un guscio di abitudine. Anche se si tratta di un bellissimo appartamento signorile di Genova, come quello di Elsa/Margherita Buy e Michele/Antonio Albanese in “Giorni e nuvole” (ambientato in una Genova che peraltro non è particolarmente rilevante nel racconto, a parte certe inquadrature graziose ma “obbligate”: il film avrebbe potuto benissimo svolgersi nella Milano di Soldini).
La prima cosa che si perde quando quest’esistenza va a pezzi è la casa. Succede ai due protagonisti, due coniugi benestanti con una figlia adulta; lui è un piccolo industriale, lei si è appena laureata e lavora al restauro di un affresco. La mattina dopo la sua festa di laurea, Elsa apprende da Michele che è rovinato, e da mesi glielo taceva perché potesse laurearsi senza questa preoccupazione (bellissimo il viso serio di Albanese durante la festa). Non solo Soldini, sempre ottimo direttore di attori, ottiene da entrambi un’interpretazione ammirevole ma col suo metodo di accumulo per accenni, a piccoli tocchi (quasi minimalista, per usare un aggettivo non meno abusato che brutto), rende perfettamente, con vera finezza psicologica, questa difficoltà di adattarsi dalla ricchezza al disastro. Il dover passare, per Margherita Buy, dal piacere intellettuale del restauro al doppio lavoro in un call center e come segretaria notturna; e per Albanese l’andare a pezzi dei nervi (già di carattere, Michele è un rompipalle maiuscolo) per cui sfoga la sua frustrazione litigando prima con la figlia, poi con la moglie e con se stesso.
E’ materia su cui la grande maggioranza dei cineasti italiani avrebbe costruito un melodramma secondo le linee alternative del tremendismo o del populismo pauperistico. Soldini invece, pur mostrandone tutta la drammaticità, lo gestisce con estrema accortezza. Non c’è nulla nel film che non abbia un’impronta di autenticità: dalla bella inquadratura di Elsa e Michele di schiena, mano nella mano, davanti alla barca che devono vendere all’avventura di Elsa col dirigente della ditta ai lavoretti che per tirare due lire Michele fa in giro con una coppia di amici (uno è Giuseppe Battiston, un “regular” soldiniano). Soldini non manca di inserirvi dei tocchi di non-humour: di situazioni che sarebbero divertenti ma, schiacciate dal peso del contesto, non suggeriscono che un sorriso amaro (le scene del trasloco).
I due inevitabilmente finiscono in una casa nuova e più povera; dove l’apertura di una finestra interna su una stanza consente a Soldini un bell’esempio di quel “framing” dell’inquadratura che ama tanto, assumendo altresì un vago sapore metaforico (più luce!). Parallelo al racconto, v’è il sub-plot narrativo, accennato per pochi tratti, del restauro dell’affresco. Anch’esso assume un valore simbolico-esistenziale; come se in qualche modo quell’affresco che rispunta dall’intonaco replicasse quella riscoperta del mondo che tocca per via aspra e dolorosa ai due protagonisti (Soldini non è alieno dal simbolismo nel suo cinema, in cui l’oggetto inanimato riveste grande importanza). Il loro sguardo in soggettiva sul dipinto segue un percorso di stelle – e questo sguardo alle stelle sembra annunciare una (possibile) risalita.

(Il Nuovo FVG)

Cars - Motori ruggenti

John Lasseter e Joe Ranft

Umanizzare animali, piante, oggetti, è la specialità del cartone animato; ma nei recenti lungometraggi essa viene estremizzata in quello che potremmo chiamare un lavoro di “ricalco”: ovvero, l’umanizzazione si allarga fino a replicare con umoristica precisione qualsiasi aspetto della società umana. Ora dalla Pixar - la compagnia che in animazione digitale 3D ha realizzato forse i migliori film di animazione d’epoca recente (basta citare “Toy Story”, “A Bug’s Life”, “Monsters & Co.”, “Gli Incredibili”) - arriva “Cars”, diretto dal grande John Lasseter con Joe Ranft, che inventa un mondo in cui le auto sono gli unici abitanti. Da mezzi meccanici per noialtri umani sono trasformate in creature vive e pensanti, fini a se stesse (ha qualcosa della morale kantiana, questo! “L’auto come fine”). Sul parabrezza si muovono grandi occhi, il radiatore diventa la bocca. E’ un gioco delicato, che non consente eccessivi allontanamenti né in una direzione né nell’altra; in questo senso, il rugginoso carro attrezzi Cricchetto (il tonto-dal-cuor-d’oro del paese) è una stonatura visuale perché i suoi dentoni totalmente umani e non riconducibili ad alcunché di meccanico sono l’unico allontanamento dalla coerenza complessiva del disegno.
Questa sovrapposizione di due universi consente tutta una serie di notazioni gustose, dalle automobili-telecroniste che commentano la gara ai film per auto che vediamo parodiati, vuoi “La guerra dei mondi”, vuoi gli stessi classici Pixar. Va lodata l’accuratezza dell’operazione - anche se in ultima analisi “Cars” risulta più intelligente che divertente.
Tipico delle produzioni Pixar, è forte il desiderio di allontanarsi dal lungometraggio animato tradizionale. Per esempio c’è una tensione verso il musical che viene controllata tanto rigidamente quanto i vittoriani tenevano sotto controllo la loro sessualità (a proposito, un porno Pixar sarebbe una cosa strepitosa - ma temo che non lo vedremo mai). Pure l’elemento comico-caotico è più o meno represso: solo la scena in cui il protagonista distrugge involontariamente la strada cittadina è un momento cartoonistico di tipo tradizionale.
Come sempre, il disegno “tridimensionale” della Pixar è stupefacente. Ma con tutta la sua modernità tecnica, per sviluppo e personaggi “Cars” volutamente somiglia molto a un film giovanilistico dei tardi anni ’50. Non per niente il protagonista si chiama McQueen! Saetta McQueen è un’auto rossa, campione emergente di gare automobilistiche, in lotta col dignitoso vecchio campione blu e l’“eterno secondo” verde (il colore dell’invidia) che è il “villain” del film. McQueen è presuntoso, maltratta i collaboratori, non ha amici. Perdutosi, si trova condannato a lavorare in una piccola città nel deserto, economicamente in rovina, per riparare i danni compiuti - e qui, s’intende, trova l’amicizia (e l’amore, con una bella Porsche). Ritornerà alle gare moralmente rinato - riuscendo anche ad assicurare la rinascita del paese.
Il concetto base del film è il recupero di antichi valori umanistici come l’amicizia, la modestia, il rispetto e la cooperazione, che storicamente nel cinema americano (ma non solo) si sono iscritti nell’opposizione città/campagna. Il racconto della felicità del paese prima che la nuova autostrada deviasse il flusso dei visitatori serve ad esprimere la nostalgia per una “Old America” semirurale scomparsa. Ed è interessante che i momenti più poetici siano quelli più tristi: i rossi fari posteriori dei camion nella notte, il mesto panorama notturno della piccola città in declino.
Ma quando alla fine Saetta McQueen rinuncia alla vittoria fermandosi a un palmo dal traguardo per spingere oltre la linea d’arrivo il vecchio campione ammaccato nell’incidente, il film si eleva in un vero momento di nobiltà cinematografica - che ricorda, in piccolo, quando Gene Hackman si fermava prima del traguardo per far bere il suo cavallo nell’indimenticabile finale di “Stringi i denti e vai”.

(Il Nuovo FVG)

La ragazza del lago

Andrea Molaioli

Era prevedibile che “La ragazza del lago”, esordio di Andrea Molaioli, già aiuto regista di Moretti e altri, facesse buoni incassi in Friuli, giacché non sono molti i film girati nella nostra regione; ma questo film solido (forse l’aggettivo che capita meno spesso di usare per il cinema italiano) è stato un successo a sorpresa nazionale. Il film trapianta un romanzo giallo svedese, con larghe modifiche, in Friuli: un paesaggio friulano cupo, nebbioso, bagnato, dalla solennità terragna che ispira un sentimento quasi di timore (Molaioli usa la montagna friulana esattamente come Johnnie To in “Yesterday Once More”).
Qui s’impone un’avvertenza importante: se è sempre scortese non avvertire quando una recensione svela la trama, per un film giallo è un delitto; dunque il lettore è qui avvertito, e consigliato di non continuare se non ha ancora visto il film. Film solido, dicevo; non un capolavoro ma un esordio di tutto rispetto; e non credo di dar voce a un pregiudizio se osservo che alla visione lascia un’impressione, come dire, poco italiana. E di quale cultura cinematografica, allora? Io direi francese. Perché ricorda davvero la tradizione del cinema francese (quella tradizione che i ragazzi della Nouvelle Vague maltrattarono un po’ troppo): un cinema di atmosfera intensa che si basava sullo sviluppo “teatrale” offerto da una sceneggiatura drammaturgicamente forte - la quale necessariamente aveva bisogno di realizzarsi nell’interpretazioni di ottimi attori.
Digressione in proposito: vedendo Toni Servillo in tutto il film, vedendo i suoi ruvidi confronti con Omero Antonutti, nonché il suo meraviglioso gioco attoriale, fatto di una napoletanità minimalista, con l’assistente dai capelli bianchi Nello Mascia, vedendo la grande recitazione, trattenuta al minimo e di espressività fulminante, di Anna Bonaiuto, possiamo solo sentire più acutamente che in Italia abbiamo attori che manco ci meritiamo, visto lo stato del nostro cinema.
Torniamo al discorso e allarghiamolo ancora: questo film ricorda il “giallo” in generale com’è declinato in Francia: che è, viene da dire, “geologico”: l’indagine non scava un singolo segreto ma antiche ramificazioni, viluppi di segreti stratificatisi nel tempo; nel che certamente si sente l’eredità del naturalismo francese (“race, milieu, moment”). Non a caso, in numerosi dei romanzi di Maigret di Georges Simenon, non ha quella grande importanza l’identità anagrafica del colpevole; l’indagine ha scavato dentro tutto un mondo, ci ha rivelato tutto un ambiente; sarà stato risolto un piccolo mistero, ma soprattutto è stato rivelato un dolore universale. E queste parole non potrebbero riferirsi senz’altro a “La ragazza del lago”?
Dove il grande mistero non è chi abbia ucciso Anna (in fondo l’urgenza di saperlo si attenua quando veniamo a sapere che è stato quasi un suicidio, che volutamente non si è difesa); ed è solo in parte la storia del bambino disturbato che emerge nell’indagine. Il grande mistero è quello del commissario Sanzio/Toni Servillo. questo Maigret sfortunato: il film ce lo svela solo parzialmente, eppure è la piccola consolazione conclusiva che lo riguarda ad apportare quel precario sentimento del “ricomporsi dei frammenti delle cose” che chiamiamo, per abitudine, la soluzione.
Così, ne “La ragazza del lago” il “whodunit”, il “chi è stato?”, perde d’importanza. Ciò dà una certa giustificazione a quella che oggettivamente è un’esagerazione nel porre lo spettatore su una falsa pista con la scena della bambina all’inizio. Ma in questa dimensione del dolore universale possono rientrare allo stesso titolo, accanto alla malattia e la rinuncia, l’ombra della pedofilia; l’ambiguità del padre di Anna quando si scopre nei filmati quello sguardo desiderante, quasi incestuoso; la disperazione e l’odio reciproco fra un padre e un figlio (“il paralitic e il mat!”, impreca Omero Antonutti); e financo la morte di un vecchio coniglio malato, che forse è naturale e forse – possiamo dirlo? – un delitto.

(Il Nuovo FVG)

La Città Proibita

Zhang Yimou

C’è chi l’ha trovato “freddo” - mentre questa vertiginosa storia di congiure di palazzo, “La Città Proibita” di Zhang Yimou, vanta un’affascinante sintonia tra argomento e linguaggio. Si guardi l’apertura: il risveglio e la vestizione delle ancelle in una fuga prospettica, moltiplicazione infinita d’un movimento meccanico e ritmato, mentre un gruppo di cortigiani percorre i corridoi del Palazzo gridando l’ora congiunta a massime di saggezza. La “freddezza” del film non è altro che la duplicazione sul piano linguistico della vita di Palazzo, in cui tutto è codificato, tutto rientra in un ritualismo opprimente, sacrificato all’astrazione dell’“armonia” (un concetto centrale nel pensiero cinese). Nella scena centrale del film l’imperatore spiega come il tavolo rotondo e la terrazza quadrata simboleggino Cielo e Terra, che devono armonizzarsi. E’ un’allegoria della rottura dell’armonia quando, alla fine del film, il tavolo rotondo - il Cielo - è sfregiato dall’acido della pozione velenosa; ma sui titoli di coda vediamo lo stesso grande tavolo variamente rinnovato. Il Cielo è eterno e immutabile, la Terra è pervasa di rivoluzioni.
Nei suoi wuxiapian storici Zhang Yimou non ha eliso l’emozione ma l’ha declinata in modo diverso a seconda dell’angolatura narrativa. I due poli dei suoi wuxia sono la Ribellione e la Legge (l’uno presente nell’altro, come Yin e Yang). In “Hero” ha mostrato la Ribellione che penetra nel palazzo della Legge e alla fine si sottomette ad essa. Ne “La Foresta dei Pugnali Volanti” si è situato interamente nel territorio della Ribellione e delle emozioni. Ne “La Città Proibita” mostra la vita raggelata sotto l’imperio della Legge e come la Ribellione nasca al suo interno.
Dopo “Hero”, c’informa Federico Rampini (“Il secolo cinese”), Zhang è stato bollato negli ambienti del dissenso come una Leni Riefenstahl cinese, un autore di regime. E’ una sciocchezza polemica; in realtà, Zhang è sempre stato confuciano (bastava guardare “La storia di Qiu Ju”, del lontano 1992, per capirlo). E’ invece giusto avvicinarlo a Leni Riefenstahl sotto l’aspetto formale, e ciò risalta nel presente film più che in qualsiasi altro: la monumentalizzazione delle masse: l’uso delle masse umane in senso plastico in stretto collegamento con l’architettura (a differenza della grande documentarista tedesca, a Zhang non occorre neppure una folla di nazisti obbedienti: ha la computer graphics). Qui, nella grande pagina degli eserciti contrapposti, esplode quel colorismo che attraversa il cinema di Zhang Yimou da “Sorgo rosso” in poi.
Davanti a “La Città Proibita” vien naturale pensare a Shakespeare. Certo è
sbagliato l’atteggiamento etnocentrico per cui pare che i cinesi dovessero aspettare Shakespeare per dipingere sanguinose tragedie storiche, intrighi e tradimenti all’ombra del trono. Ma in effetti “La Città Proibita” è shakespeariano: nella sua vicenda dinastica di avvelenamenti, congiure e ribellioni, vibrano quel pathos e quel destino tragico di cui il Bardo è stato in Occidente cantore ineguagliato. L’Imperatore, in cui si fondono l’egoismo e la ragion di Stato; l’Imperatrice, che congiura prima per politica e poi per salvarsi; i tre principi dal diverso animo: cinque figure di alta dimensione tragica, destinati alla caduta non a causa di un Fato implacabile ma (scespirianamente) di un destino ch’è il risultato inevitabile delle forze contrapposte e delle debolezze individuali. Vale anche per l’Imperatore, che rimane trionfatore su un mare di rovine, in cui periscono anche quei motivi statali e dinastici che muovevano la sua operazione machiavellica. Il pianto sopra il cadavere del figlio è il suo momento di massima umanità; come in Macbeth, la spietatezza non ha spento la scintilla della grandezza in lui. Per questo Zhang Yimou affida la sua parte a un grande attore eroico - e tragico - come Chow Yun-fat. Mentre Gong Li nel ruolo dell’Imperatrice disegna forse la figura femminile più complessa e drammatica di una stupenda carriera.

(Il Nuovo FVG)

Harry Potter e l'Ordine della Fenice

David Yates

“Harry Potter e l’Ordine della Fenice”, di David Yates, si apre con un volo della macchina da presa che plana sui campi dell’Inghilterra in ripresa aerea. Subito dopo, Harry e suo cugino Dudley, inseguiti dai Dissennatori, fuggono per un viottolo e per una galleria, di malinconico realismo periferico. Di lì a poco, Harry e suoi compagni sfrecciano sulle loro scope volanti - a Londra, sopra il Tamigi e davanti al Parlamento.
Naturalmente, nei geniali e spiritosi romanzi di J.K. Rowling la magia ha sempre prosperato nascosta nel mondo dei Babbani; però è col ritorno fisico di Voldemort che la guerra fra lui e Harry Potter si estende a tutto il mondo, e il presente film bene restituisce questo “allargamento” ideale dell’universo potteriano da Hogwarts (che è sempre il castello freddo e formidabile, adatto a rispecchiare la cupezza degli avvenimenti, del solenne “Harry Potter e il Calice di Fuoco” di Mike Newell). A differenza dei romanzi/film precedenti, Harry scopre che esistono due tipi distinti di nemici: i malvagi e i mediocri; da un lato Voldemort e i Mangiamorte, dall’altro il ministro Caramell e Dolores Umbridge, la cui meschinità e stupidità li rende quasi più odiosi dei primi.
E’ una progressione al nero quella che via via si realizza nei romanzi della saga e nelle loro fedeli riduzioni cinematografiche. A livello di plot, con il precipitare della situazione (basta ricordare che nel sesto romanzo viene ucciso Silente); a livello psicologico, e metaforico, con il doloroso processo di crescita di Harry. J.K. Rowling trascrive sul piano dell’invenzione fantastica il sentimento di rabbia, di isolamento e nel contempo d’incertezza su se stesso, che vive un adolescente. Harry è spesso sospettato e isolato, e dubita sovente di sé, oscuramente legato com’è al suo nemico Voldemort (che anzi da giovane, come ci mostra il romanzo “Harry Potter e il Principe Mezzosangue”, realizza un “doppio” miserabile e maligno di Harry). Il film di Yates per rendere quest’aspetto ha l’audacia, inedita nella serie cinematografica, di dipartirsi leggermente dal romanzo: dopo lo scontro al Ministero della Magia Harry per un attimo viene letteralmente posseduto dallo spirito di Voldemort, come in un horror asiatico.
Questa efficace soluzione è indice delle capacità di sceneggiatore di Michael Goldenberg (già autore di “Peter Pan”). Come per il film precedente, “Harry Potter e il Calice di Fuoco”, il problema era di portare sullo schermo un romanzo molto lungo e intricato. Lo sceneggiatore tradizionale della serie, Steve Kloves, aveva tradito qualche impaccio in tal compito, come testimonia la sua sceneggiatura un po’ stanca del “Calice”; Goldenberg mostra un’eccellente capacità creativa nella difficile trasformazione dal letterario al cinematografico. Taglia con intelligenza (vedi la fusione dei personaggi della traditrice Marietta e di Cho Chang), inserendo peraltro alcune menzioni “toccata e fuga” a mo’ di risarcimento dei lettori (esempio, Phineas Nigellus); sa altresì quando conviene rimpolpare ai fini della narrazione visuale: inventa per esempio la scena dell’evasione da Azkaban.
Il film mantiene la consueta eccellenza di messa in scena della serie come effetti e scenografia, e la regia di Yates ha delle buone soluzioni (vedi l’inquadratura a piombo del tribunale durante l’arringa di Silente) che ne arricchiscono il “flavour” visuale. Aggiungiamo il solito gruppo di interpreti in stato di grazia (eccelle come sempre Alan Rickman/Piton), ed ottime “new entries” per Bellatrix (Helena Bonham Carter), Tonks e Luna Lovegood - e soprattutto la Umbridge assolutamente perfetta disegnata da Imelda Staunton. Rimane solo un problema, e questo purtroppo è irrisolvibile: il gap fra l’età dei personaggi e l’età degli attori ormai è diventato un baratro. Alla prima apparizione (poi uno si abitua), questi diciotto-ventenni che fanno la parte di quindicenni ti provocano un piccolo soprassalto doloroso. Ma è un prezzo accettabile da pagare.

(Il Nuovo FVG)

Harry Potter e il Calice di Fuoco

Mike Newell

Aprendo la serie dei romanzi-monstre all’interno del ciclo di J.K. Rowling, “Harry Potter e il Calice di Fuoco” è lungo oltre 600 pagine. Ciò pone ovvie difficoltà di riduzione cinematografica - anche per la sua struttura: se la linea narrativa principale con le tre prove del Torneo Tremaghi e la resurrezione fisica di Voldemort è semplice, il “subplot” concernente il professor Moody e il signor Crouch è complicato e tortuoso, seppur necessario. Ora, “Harry Potter e il Calice di Fuoco” di Mike Newell, quarto della serie, è un bel film: piacevole, emozionante, divertente e quant’altro. Nondimeno, è difficile sottrarsi all’impressione che tra i film del ciclo sia il meno brillante.
Qui gioca la complessità del romanzo (era giusta la prima idea della produzione, di girare il film in due parti); si ha quasi l’impressione di avvertire il panico dello sceneggiatore Steven Kloves nel cercar di ridurlo a una dimensione cinematografica. Mentre alcuni aspetti sono sacrificati da tagli radicali (il fascino soprannaturale di Fleur Delacour, ad esempio), altri sono mantenuti in modo alquanto incerto: il personaggio di Crouch nel film è una figura residuale, non chiara sul piano narrativo (la sua scena con Moody e il suo assassinio sono comprensibili solo per chi ha letto il libro).
Se quanto sopra potrebbe riguardare in ultima analisi solo i lettori della Rowling (una bella fetta di umanità, comunque), il film fa una cosa imperdonabile - peggio delle tre Maledizioni Senza Perdono, peggio che tirare l’Avada Kedavra a un disgraziato. Manca la finale del Campionato Mondiale di Quidditch! Vediamo, sì, una stupenda illustrazione dello stadio magico, vediamo dare il segnale d’inizio - e segue un’ellissi con passaggio al dopo partita, realizzata con uno degli stacchi più brutti, goffi, dilettanteschi di cui si abbia memoria nel cinema recente. Tale bruttezza - mentre il resto del film ha un buon montaggio, con raccordi eleganti e meditati - potrebbe far ipotizzare che la partita sia stata girata e poi tagliata per accorciare; se è così, uscirà il DVD coll’edizione “extended”; d’altro canto è difficile che una scena così costosa sia stata filmata e poi tolta. Quel ch’è certo, si tratta di un grave inciampo estetico.
Vero è che il film poi si fa perdonare trascrivendo le pagine del romanzo con felice sontuosità: la carrozza volante, la nave che viaggia sott’acqua, le prove del Torneo, la memorabile lotta di Harry contro il drago. E’ soddisfacente il côté horror (i corpi cerei degli “ostaggi” che fluttuano sott’acqua!), sebbene inferiore alle superbe pagine del terzo film, diretto da Alfonso Cuaron. Un punto di forza della serie cinematografica è sempre stata la galleria dei professori, e qui un magnifico Brendan Gleeson nel ruolo di Malocchio Moody è una degna aggiunta.
Mike Newell però sembra più personale quando si muove su un piano parallelo a quello fantastico: il Ballo del Ceppo, l’imbarazzo di Harry nudo nel bagno con lo spettro di Mirtilla Malcontenta, il solenne arrivo e la partenza delle scuole rivali (Newell ha sempre avuto un occhio per le cerimonie), e in genere tutto lo sviluppo adolescenziale, dove ritroviamo quell’elemento quasi crepuscolare che Newell aveva sotteso al suo film migliore, “Quattro matrimoni e un funerale”. Le parole finali di Hermione - “Adesso tutto cambierà, non è così?” - fotografano egualmente la guerra imminente annunciata dal ritorno di Voldemort e l’inquieto, malinconico senso del tempo che passa ch’è proprio dell’adolescenza.
Specchio e simbolo cinematografico di questo mutare dell’età è Hogwarts. Che nei primi due film, diretti dall’abile Chris Columbus, era il castello incantato sognato da un bambino senza casa; nel terzo, di Cuaron, ricordava i cupi castelli in decadenza degli horror della Hammer; e qui è un’imponente fortezza dalle mura formidabili e fredde, che in qualche misura rispecchiano la scontrosità di questi adolescenti nel labirinto degli incerti, fragili rapporti umani.

(Il Nuovo FVG)

Ratatouille

Brad Bird e Jan Pinkava

“Ratatouille” (da cui il friulano “ratatuie”, certamente parola entrata con l’invasione napoleonica): un piatto misto di verdura; ora, anche uno splendido cartoon in animazione digitale di produzione Pixar. Diretto da Brad Bird e Jan Pinkava, narra la carriera parigina di Remy, pantegana appassionata di alta cucina, che usando come “schermo” umano l’impacciato Linguini riesce a diventare un grande chef. Questa epopea di un ratto innamorato della sinfonia dei sapori innalza la bandiera dello slow food contro il fast food in modo mille volte più garbato e convincente che lordure di celluloide come “Supersize Me”.
La Pixar incrocia sempre una particolare attenzione al racconto con l’eccellenza sul piano grafico. Anche in “Ratatouille”, basta vedere la precisione degli ambienti (in un cartoon digitale non ha più senso parlare, come si faceva prima, di “sfondi”); l’autenticità dei movimenti (le arrampicate del ratto sui tubi!); le scene di massa - è il caso di dirlo - dei ratti, con quel loro brulicare che sembra di sentirseli vicini; il realismo dei dettagli minimi come la pelliccia dei topi (non tanto Remy, che è una pantegana particolarmente pulita, quanto il padre e il fratello). Ma in primo luogo le espressioni. Quelle di Remy sono di un’autenticità umanizzata impressionante. Il capolavoro è quando, imprigionato nella bottiglia, dialoga a gesti con Linguini - persino un attore umano raramente è stato tanto espressivo quanto, nella scena, questo disegno in computer graphics.
C’è un grande momento sperimentale allorché il film, per rendere graficamente gli orgasmi palatali di questa pantegana gourmet, si lancia in una visualizzazione del gusto in forma di disegni astratti che compaiono sul fondo nero alle sue spalle. Bellissima soluzione di sinestesia, che ricorda le astrazioni del disneyano “Fantasia” (1940) allo scopo di “disegnare” la musica. Da segnalare, poi, anche l’omaggio ai vecchi tempi dei cartoon nei titoli di coda: che dall’animazione computerizzata passano al cartone animato bidimensionale ricreando un raffinato stile anni ’50, pittorico e semiastratto, memore del modernismo delle produzioni U.P.A. di John Hubley e dei disegni di Ralph Steadman.
Eppure, al di là del valore della realizzazione grafica, quello che fa la grandezza di “Ratatouille” è l’intelligenza sfavillante del racconto. Il film è una commedia viva e divertente, tenera e buffa - di un buffo che, pur essendo mosso e vivace quanto occorre, tiene più della “screwball comedy” dei film dal vivo che non della comicità tradizionale dei cartoni animati. Non mancano omaggi e citazioni, naturalmente, da “Rocky” a Audrey Tatou; e per inciso (giacché la Disney ha comprato la Pixar nel 2006, dopo una lunga e burrascosa collaborazione) possiamo osservare che l’improvvisa scena horror dei topi morti che pendono nella vetrina, visti in soggettiva nell’oscurità e nella tempesta, appare come un perfetto soprassalto di gotico disneyano.
Il dialogo è brillante (grande il racconto confidenziale dei segreti del cuoco Horst). Il racconto è ben strutturato sul piano narrativo, e non manca di spessore: l’anticonformista Remy si potrebbe definire un “Gabbiano Jonathan Livingston” delle pantegane, ma il suo rapporto col padre ha un elemento, quieto e implicito, di profondità che il modesto romanzo di Richard Bach non raggiunge mai. Da quella robustezza narrativa che caratterizza la Pixar viene al film la sua ricchezza di sottotesti. Fra essi il più importante è legato alla figura del cupo critico gastronomico Anton Ego (cui nell’originale dava voce Peter O’Toole): che mentre all’inizio sembrava la solita marionetta di “villain” secondario (il primario essendo il capo-chef Skinner), assume nello sviluppo un’imprevista risonanza; fino ad enunciare verso la fine una riflessione autocritica sul proprio mestiere (qui critico gastronomico, ma vale anche per quelli cinematografici!) ch’è tutt’altro che banale, e anzi merita riflessione in verità.

(Il Nuovo FVG)

Centochiodi

Ermanno Olmi

La biblioclastia (la distruzione dei libri) è sempre stata una tentazione ricorrente nella lunga storia dell’umanità per numerosi semplificatori. Dal famoso califfo dell’episodio semileggendario della Biblioteca di Alessandria, “per li rami” arriviamo a Raz Degan, professore di filosofia che nottetempo inchioda a terra codici e incunaboli di una biblioteca in “Centochiodi”, scritto e diretto da Ermanno Olmi. E spiega al maresciallo dei carabinieri che tutto sommato i libri hanno solo aumentato la confusione anziché risolvere i problemi, e che “tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”.
Qui si potrebbe osservare che Olmi confonde i libri con le persone: un libro, a parte la sua bellezza come oggetto, è solo un contenitore, un modo di salvare e riportare una voce; e la confusione delle voci è inevitabile, nella faticosa storia di miliardi di creature litigiose. Però non vogliamo cadere nella trappola del contenutismo. Ermanno Olmi ha tutto il diritto, al cinema, di inchiodare tutti i libri che vuole, tanto più in un film dalle pesanti caratteristiche simboliche - Raz Degan in tutto il film è insistentemente assimilato a Cristo; è interessante che nella scena biblioclastica i chiodi che usa siano uguali a quelli tradizionali dell’iconografia della crocifissione, somiglianza raddoppiata sul piano del linguaggio cinematografico per il modo in cui Olmi riprende la scena; è come un’inversione della crocifissione, corrispondente alla protesta di Cristo contro suo Padre che non l’ha salvato, nel colloquio col monsignore a fine film.
Ermanno Olmi, dicevamo, ha tutto il diritto di inchiodare libri. Argomento della critica non sono le sue opinioni ma la sua capacità di comunicarle efficacemente allo spettatore, ovvero il modo in cui le traduce sul piano artistico. Ed è qui che il film di Olmi risulta dolorosamente inferiore alle sue ambiziose premesse. In realtà “Centochiodi” è un film di plastica. C’è nella realizzazione una mediocrità espressiva che si risolve in un ammiccare kitsch allo spettatore, al quale sciorina sotto gli occhi una pseudo-profondità simbolica che è orpello; e c’è un’incapacità della sceneggiatura a tradurre in un testo convincente le idee e gli umori, sostituendolo con l’enunciazione solenne di battute retoriche (come quella del caffè) che ricordano gli spot pubblicitari. Nel film si cita Karl Jaspers ma la filosofia di base è quella di Toto Cutugno.
In Olmi si sono sempre combattuti due principi contrastanti, dei quali sarebbe possibile segnalare la prevalenza dell’uno nella prima parte della sua carriera e il progressivo allargarsi dell’altro in seguito. Da un lato, un’essenzialità toccante (di cui in “Centochiodi” sono testimonianza residuale i primissimi piani di volti di gente del fiume); dall’altro, una tendenza al kitsch, che rode dall’interno la prima. Che cos’è il kitsch? E’ la facilità - la vuotezza contrabbandata per intensità, il sostituto, l’Ersatz. Perché non v’è nulla al cinema di più fragile della semplicità simbolica; basta un nulla di eccessiva consapevolezza per rovesciarla nel suo contrario: un passo più in là, e siamo al Mulino Bianco.
Fondamentalmente il film di Olmi è un remake intellettuale di “Teorema”, il film di Pasolini del 1968 - che, senza essere necessariamente un capolavoro, gli è cento volte superiore. Come “Teorema”, “Centochiodi” porta sullo schermo il rifiuto radicale. Raz Degan - che per tutto il film mantiene l’espressività di un paracarro - dopo aver inchiodato i libri sparisce e va a vivere in una casa diroccata sulla riva del Po (benché quasi un barbone, appare sempre bellino “comme il faut”). L’ex professore lega solo con gli umili del luogo, e qui, come già osservato, la buona fotografia (di Fabio Olmi) trova nei loro visi i suoi momenti migliori, anche se sul piano della sceneggiatura il film non va oltre un populismo un po’ facile.
Dichiaratamente l’ultimo film di Olmi, “Centochiodi” incrocia cattiva teologia e limitatezza artistica. Un triste tramonto.

(Il Nuovo FVG)

INLAND EMPIRE

David Lynch

“Vedo sempre più i film come separati da qualunque tipo di realtà. Sono piuttosto simili a fiabe o sogni” (David Lynch). Ecco dunque “INLAND EMPIRE” - che per la sua ampiezza è la “Divina Commedia” di Lynch, e forse il film più importante di questi ultimi anni (“IE” sta al cinema narrativo odierno come l’“Ulisse” di Joyce sta alla narrativa ottocentesca).
I ricorrenti temi lynchani dell’adulterio (“Velluto Blu”) e della maternità biologica (“Eraserhead”) sono il filo rosso di cui s’intesse il film. L’attrice Nikki Grace (una colossale Laura Dern) deve interpretare un film, remake di un film europeo incompiuto di dubbia fama. Il suo personaggio, Sue, è il suo rovesciamento, la sua Ombra in senso junghiano – e con ciò, la sua strada alla comprensione. Non manca il tono fiabesco amato da Lynch (“Cuore selvaggio”), con una inequivocabile strega (Grace Zabriskie) che compare all’inizio, e viene bilanciata alla fine da una sorta di fata buona, la “homeless” negra, autentica figura di psicopompo, che aiuta Sue a morire.
Ma se un film è un sogno (Lynch), girare un film vuol dire entrare nel sogno. Ciò può significare non riuscire a risvegliarsi (Nikki, dopo la sua magnifica scena di morte nei panni di Sue, rimane immobile come un vero cadavere, poi si alza e cammina come in trance). La il/logica onirica e preconscia di Lynch non confonde sogno e realtà, qui, bensì almeno 4 diversi mondi, che si racchiudono gli uni negli altri, s’intersecano e si riversano fra loro. In realtà non sono mondi separati perché sono tutti contenuti nella mente (il che spiega la facilità con cui si scambiano). Lynch fa un cinema mentale.
Sono: il mondo dell’attrice Nikki; quello del film di Sue; quello cupo e crudele di una Polonia dell’inconscio; e infine il mondo dei Conigli. Ove tre esseri dalla testa di coniglio (la classica famiglia triangolare di Lynch) siedono davanti alla macchina da presa come in un teatro, e infatti un pubblico invisibile applaude; i loro gesti sono un calco semiparodistico della vita umana (com’è inquietante mamma Coniglia quando con due lampade in mano sembra guidare la materializzazione di papà Coniglio come l’atterraggio di un aereo – col sonoro appropriato). E’, questo dei Conigli, uno di quegli “inframondi” che riempiono il cinema di Lynch, dal Teatro del Termosifone di “Eraserhead” alla Red Room di “Twin Peaks”: sgabuzzini metafisici di sospensione agrodolce in una sorta di eterna attesa, dove sedere per sempre nella classica inquadratura lynchana: frontale, statica, bilanciata: “scene eternizzanti” (Michel Chion).
Esiste un canale verso quei mondi? Uno è il sogno; ma poiché, come ama ripetere Lynch, il sogno non è controllabile, uno può ricorrere a qualche magia (del resto: “Ci resta sempre la magia”, sogghigna la strega a inizio film). Nikki apprende una semplice ingenua magia dalle prostitute oniriche: forando una sottoveste di seta con una sigaretta e guardando attraverso il buco si lancia un’occhiata sull’inframondo – e infatti questo buco lo vediamo apparire per un attimo su una parete della casa dei Conigli.
Dove il pubblico invisibile di questo teatro (o sitcom? Lynch ne ha girata una) risponde con risate plaudenti a frasi completamente anodine (“Che ora è?”). Nel suo cinema Lynch postula un universo di separazione dove tra il gesto/enunciazione e la reazione c’è un larghissimo oceano in cui la logica causa/effetto si perde. La distanza fra le creature viventi è troppo grande. Di questo “non sequitur” universale il teatrino dei Conigli in “IE” è un’illustrazione incredibilmente cristallina e concentrata.
Che inevitabilmente ci fa pensare (con rimpianto) a una logica segreta: quello di un super-testo segreto, un Ur-Text che spiegherebbe ogni cosa, è un tema profondo del cinema di Lynch. Infatti, di questo Ur-Text segreto il cinema lynchano è pieno di frammenti, volgarizzazioni adattate al singolo caso (il diario di Laura Palmer?), Ersatz. Il sogno di una conoscenza che dovremmo avere per comprendere il mondo e non abbiamo, o abbiamo dimenticato.

(Il Nuovo FVG)

Aprile

Nanni Moretti

Ci piacerebbe proprio vederlo, il musical sul pasticciere trotskista degli anni Cinquantra, interpretato da Silvio Orlando, che Nanni Moretti in "Aprile" sogna sempre di fare e non fa mai (anche se l'unica scena che vediamo, a fine film, più che a Minnelli, tende al televisivo). Conviene ricordare che non è la prima volta che Moretti usa, come film entro un film, un progetto di musical quale figura di una messa in scena "altra" rispetto a lui. Senza insistere sull'ossessione dello spettacolo di cabaret politico in "Io sono un autarchico", va richiamato il mega-musical sul Sessantotto - ballerine in divisa verde dell'Esercito Popolare maoista nelle strade italiane sconvolte dalle manifestazioni! - che in "Sogni d'oro" preparava il regista rivale (anche quello ci sarebbe piaciuto vederlo! Anzi, in quel caso, più del modesto film morettiano). "Sogni d'oro" naturalmente poneva una netta contrapposizione ironica e polemica tra l'autocompiacimento "easy" del regista avversario e la serietà idiosincrasica e nevrotica di Apicella/Moretti (la gru sulla quale era inquadrato sorridente l'altro rappresentava e assommava i movimenti di macchina lussuosi e compiaciuti del cinema in opposizione all'austerità delle scelte registiche di Apicella). Invece in "Aprile" il musical sul pasticciere trotskista è progetto di Moretti, carne della sua carne, inseguito lungo i 78 minuti del film. Difficile però negare che in entrambi i film il musical appaia in modo analogo come progetto espressivo contrapposto - ora ironicamente, ora nostalgicamente - a un'afasia (perché proprio il musical? Azzardo: perché il musical è il più conchiuso, formale, astratto e in sé autonomo dei generi: è il "parlare" puro). Ed "Aprile" è proprio la storia di un'afasia: concetto peraltro centrale in tutto il cinema di Nanni Moretti.
Così, Moretti segue in contemporanea da un lato la gestazione-nascita-crescita di suo figlio Pietro, dall'altro il passaggio dell'Italia dalla breve era del Polo (delizioso l'inizio del film, anche per merito di Emilio Fede uno dei più grandi comici italiani in assoluto) a quella interminabile dell'Ulivo. Mentre Moretti intreccia con soluzioni a volte fulminanti le due linee narrative, e mentre registra con puntuale acribia disincanti, polemiche e delusioni, si scopre una crescente difficoltà a parlare, che nel suo caso giustamente vuol dire filmare. "Aprile" è un piccolo metafilm sul ritrovare la volontà di filmare; supera un'afasia parlandone: attraverso un percorso contorto e scontroso (dunque, morettiano).
Il problema di "Aprile" è che a volte sembra semplicemente ri/narrare in forma più esplicita "Cario diario": il che, unito al vezzo di autocitarsi riprendendosi di spalle in Vespa come un "logo" (effettivamente lo è), comporta un vago sapore di ridondanza. Prendiamo la conclusione con Moretti che getta simbolicamente via i suoi ritagli di giornale fegatosamente accumulati (non farsi più del male!): qui in qualche modo i due film si sovrappongono, quasi che "Aprile" serva a ripetere e palesare per chi non l'avesse capita quella raggiunta maturità che era il tratto più notevole di "Caro diario", dove vedevamo l'acidume un po' petulante di Moretti (così ben espressso dalla sua voce) stemperarsi in una saggezza di "splendido quarantenne" senza per questo dover rinunciare all'indignazione. Tuttavia "Aprile" è un film aereo e divagante, che anche al di là di alcune pagine notevoli grazie alla sua leggerezza riesce a superare una sua fragilità o incertezza di base. Un Moretti minore, ma non minimo.

(Il Friuli)

Jackie Brown

Quentin Tarantino

Anche se i ringraziamenti nei titoli di coda del magnifico "Jackie Brown" di Quentin Tarantino terminano con Samuel Fuller ("Thanks for everything")... e il grande regista scomparso l'avrebbe apprezzato, in un film degno di lui, dopo la sfortuna di apparire sullo schermo per l'ultima volta nel brutto "The End of Violence" di Wenders... tuttavia la pellicola cui più fa pensare "Jackie Brown" è un geniale film di Stanley Kubrick del 1956, "The Killing", "Rapina a mano armata".
Gioco a sei facce (da citare almeno le sfavillanti ri/scoperte di Pam Grier, con la sua bellezza di splendida donna di 44 anni, e Robert Forster) a proposito di soldi di provenienza illegale da trasportare, "Jackie Brown" è tutto un tiro a fregarsi l'un l'altro: una vertigine di doppio e triplo gioco in cui lo spettatore è all'oscuro, spiazzato. Tarantino, regista e sceneggiatore, realizza in questo thriller la vera focalizzazione esterna: vediamo (a pezzi) quello che succede, ignoriamo più che mai i pensieri e i calcoli dei protagonisti. Il bellissimo gioco registico di stacchi e dissolvenze non è finalizzato alla suspense nel senso usuale del termine, non crea l'incertezza su come progredisca l'azione verso il finale, bensì getta oscurità.
Già il senso del tempo avvolgente e martellante poteva ricordare "The Killing", ma è per un altro motivo che esso va citato: nel climax con la consegna della borsa, vediamo tre volte la stessa scena, rivedendola prima dal punto di vista di un altro personaggio, poi di un altro alcora. Proprio come nel film di Kubrick, il tempo narrativo ritorna circolarmente su se stesso per ampliare la nostra visione e costruire la nostra comprensione dell'accaduto.
Questo racconto circolare e frammentato, scandito da didascalie-titolo, è narrato da Tarantino con bella libertà linguistica (compreso uno "split-screen" alla De Palma), ben supportata dall'ammirevole montaggio di Sally Menke. Ritroviamo in "Jackie Brown" l'ambiguità completa e vitale degli imprevedibili personaggi tarantiniani, fra i pochi che riescano a darci al cinema (vedi qui Robert De Niro ad esempio) l'assolutezza della sorpresa: che in Tarantino si esprime volentieri in uno sparo, imprevisto ed esplosivo come una gag. Non dimentichiamo però che Tarantino non è, come vorrebbe la sua nomea, "quello delle sparatorie". La grandezza de "Le iene", per esempio, non attendeva l'evidenza del sangue ma già emergeva nel semplicissimo, stupefacente dialogo in pizzeria che apriva il film. I dialoghi di Tarantino hanno sempre una freschezza, un tono d'"impromptu", una risonanza reale che incanta. Certo il regista sa portare come pochi altri la violenza sullo schermo; ma prima di ciò, il vero Tarantino si trova in un momento di sospensione allo squillo del telefono, in una conversazione sulla perdita dei capelli, si trova nei discorsi e negli sguardi fra Robert Forster e Pam Grier (una storia d'amore sottinteso, d'un romanticismo duro, davvero alla Fuller). La scena in cui lui la vede per la prima volta nel buio è di un romanticismo addirittura monumentale.
Dopo che s'è conclusa la tensione su vivere o morire, il film si sviluppa imprevedibilmente sulla suspense dell'amore: l'offerta di Jackie Brown al suo "socio" - lo sguardo di lui che la segue mentre parte in macchina - l'indimenticabile fuori fuoco che avvolge Robert Forster mentre si addentra nel suo ufficio e si ferma a riflettere - il lungo primissimo piano di Pam Grier mentre guida, ultima immagine che vediamo prima del "nero" dei titoli di coda. Si rinuncia così all'amore, per stupidità e per stanchezza...

(Il Friuli)

giovedì 17 gennaio 2008

Scarlet Diva

Asia Argento

Si sente, nel bel debutto al lungometraggio di Asia Argento “Scarlet Diva”, la cultura moderna del videoclip. Non solo per l’impronta visiva, il ritmo, o più in generale l’importanza “fondante” della musica (un ottimo lavoro di John Hughes); anche più in generale, e conviene partire di lì.
Il discorso dei videoclip è un discorso di secondo grado, ha in sé qualcosa della citazione. E’ un discorso espresso come segno, concentrato, e per così dire “rispecchiato”: perché, se non modellato sulla musica, si pone comunque “a partire da” quella. Ora, “Scarlet Diva”, che Asia Argento ha scritto e diretto, descrive sentimenti autentici - i passaggi esistenziali della protagonista Anna, alter ego di Asia, dalla “personalità obliqua”; il suo amore per Kirk, rockstar e imbroglioncello - ma il linguaggio attraverso cui si esprimono è quello dell’“amore citato”, il discorso come segno, come nella canzone e nel clip. Anche sul piano stretto del linguaggio: “Noi siamo amanti impossibili”, “E’ tutta la vita che ti aspetto”, “Tu sei il mio amore, io ti aspetterò per sempre” (come è “citata” l’espressione di un certo neo-decadentismo giovanile nel discorso di Anna su di sé, vergine e puttana).
Qui però Asia Argento introduce il rovesciamento, che passa attraverso la sua presenza fisica, perno del film. Questa ha un doppio statuto. Nella maschera di Asia Argento abbiamo la persona e l’icona; il film lavora su questa doppia istanza con molta consapevolezza, che si vorrebbe dire istintiva. In questo, non nei fatti, è profondamente autobiografico. Nel film Asia Argento gioca sul sé e il non sé con intelligenza e ironia: un ambiguo rispecchiamento (racconta di un’attrice che vuole smettere di recitare per passare alla regia), dettagli come quello geniale di inserire nella parte della madre cattiva, e drogata che muore d’overdose, la sua madre autentica, Daria Nicolodi
Icona, Asia Argento lo è. Per la sua figura, per la sua mitologia; e nei suoi film più significativi ha lavorato con due registi fortemente metacinematografici come suo padre Dario e Abel Ferrara. Ma lei incrina l’icona con l’immediatezza del suo esser/ci. Tratti vivi, espressivi, spontanei, quasi spudoratamente personali (esempio minimo, la smorfia sul deodorante che brucia sulla pelle depilata). Insomma Asia Argento è mercuriale. Tutto il suo film, e lei nel film, gioca su questo essere dentro e fuori dai confini, dalla drammaturgia, dall’icona, dal ruolo. E’ questo a dargli la sua freschezza.
Cui si collega uno humour vivace. A 24 anni Asia Argento ha già qualcosa da insegnare nel panorama asfittico del cinema italiano: un approccio vivo, “curioso”, spiritoso, che emerge con un tocco memorabile nel quadretto di Paolo Bonacelli intervistatore svizzero col cappello da alpino; ma possiamo citare il bell’episodietto erotico-surreale con Selen, la scoperta di Veronica (Vera Gemma) legata nuda, lo scherzo su Anna che inciampa e cade nel guardarla che scopa col suo amante - qui riprendendo ironicamente quel tema del voyeurismo sessuale ch’è ritornante nel film, e implicito nel nostro stesso guardare di spettatori; nota che il film consapevolmente lo innesta con la prima inquadratura; anche su questo piano “Scarlet Diva” gioca consapevolmente con lo statuto del racconto.
Velocità e freschezza. E’ importante che il film sia stato realizzato in digitale. Asia Argento ha definito bene, parlando a Udine con la stampa, la leggerezza del mezzo che rende più liberi gli interpreti (ancora una volta vediamo che la caratteristica dell’occhio determina ciò che è guardato). Ma penso in particolare a come il digitale abbia consentito il furto degli esterni: il film, racconta l’autrice, è stato realizzato in poche settimane a Roma più una in giro frenetico per il mondo a riprendere esterni di nascosto, poi utilizzati con didascalie che sembrano trofei. In giro per il mondo a rubare cinema (un’idea da Nouvelle Vague). E’ giusto: il cinema ruba la vita (è un vampiro, direbbe il Coppola di “Bram Stoker’s Dracula”); la vita rubi il cinema.

(Il Friuli)

Giovanna d'Arco

Luc Besson

Il viso di Giovanna bambina nella grata del confessionale: la prima immagine, severa e quasi astratta, dell’ambizioso “Giovanna d’Arco” di Luc Besson ha due significati. Serve per impostare il tema: la Giovanna di Besson è spinta da mania religiosa (acuita dallo shock di aver visto la sorella inchiodata alla porta con una spada e violentata da morta). In una delle sequenze estremiste di questo film interessante e in ultima analisi non riuscito, Giovanna di nascosto in chiesa consacra e beve il vino, e il “sangue di Cristo” inonda rosso la sua bocca come il sangue di Dracula. Tuttavia, nonostante Besson miri a una “Giovanna d’Arco” razionalista (se qualsiasi “Giovanna d’Arco” è un mistero, il suo è un mistero agnostico e materialista) quest’apertura para-mistica sembra un voler pagare dazio all’elemento mistico presente in tutte le precedenti Giovanne cinematografiche.
E’ un tema fisso di tutto il cinema di Besson quello di una creatura semplice scaraventata nella logica della violenza, e che la fa propria. Senza distanziamenti impietositi o impauriti: poiché Besson sente fortissimamente il fascino esaltato e demoniaco della violenza. Il suo “Giovanna d’Arco” è concitato, eccessivo, isterico. “Io non penso: lascio che Dio pensi per me”, grida Giovanna ai capitani francesi. E durante le battaglie Giovanna, per usare un’espressione che ci viene dai vichinghi, diventa berserk: impazzisce della follia distruttiva della guerra. Milla Jovovich col suo bel viso di Barbie uscita di senno è efficace nella parte. “E’ pazza”, dice ammirato il suo compagno d’arme Gilles de Rais (Vincent Cassel), che rappresenta una sorta di cinica razionalità. La follia berserk contro la ragione bellica incarnata dai comandanti francesi - ma la guerra appunto non è ragionevole.
Non mancano le visioni (il cardine del personaggio), ma Besson non le visualizza in modo agiografico: la prima (un ragazzo biancovestito sul trono di pietra) è celtica e pagana più che cristiana, la seconda è una sorta di Cristo demoniaco, dal viso duro e fisso, sulla cui veste bianca si notano i gigli di Francia. E la croce, elemento ritornante del film, è fotografata in modo oggettivo, distaccato, come la vedrebbe un giapponese (in effetti c’è qualche reminiscenza di Kurosawa nel film). Esiste solo la lotta; mentre il gioco della politica (ottimi John Malkovich e Faye Dunaway, il Delfino e la sua nobile suocera) prima sfrutta Giovanna e poi la getta ai lupi.
Ben servito dalla bellissima fotografia di Thierry Arbogast (vedi come sa rendere la difficile ora del crepuscolo), la “Giovanna d’Arco” di Besson si può considerare un bel film mancato. Da un lato lo stile magniloquente di Besson - un uomo che racconterebbe la caduta a terra dell’accendino mentre ti accendi una sigaretta come se fosse uno scontro di pianeti - gli dà una potenza e un’indubbia qualità visionaria. Dall’altro un’insicurezza di fondo su dove andare a parare attraversa il film e finisce per consegnarlo alla sconfitta.
Tutto sarebbe andato bene se Luc Besson si fosse abbandonato al proprio consueto romanticismo estremista, se avesse consegnato senza remore l’epopea di Giovanna alla sua esaltazione di rumore e follia, senza l’ossessione di definire la sostanza filosofico-psicologico-spirituale delle visioni di Giovanna. Ma, come abbiamo detto, la sceneggiatura di Besson e Andrew Birkin ha la coda di paglia nei confronti delle interpretazioni mistiche degli antenati nobili del film, Dreyer, Rossellini, Bresson eccetera. E allora nella terribile parte finale introduce Dustin Hoffman nel ruolo di un personaggio immateriale dalla barba bianca che il vostro recensore ha dovuto aspettare il cast & credits dei titoli di coda per capire chi è: “The Conscience”; ma che richiama alla mente più che altro il fratello autistico di “Rain Man”.
Così il film perde paurosamente ala. Ma prima, la violenza roboante della battaglia, il vero e proprio urlare del sangue, ci hanno riconsegnato l’arte elementare ma coinvolgente di Luc Besson.

(Il Friuli)

Omicidio in diretta

Brian De Palma

Un vecchio film prodotto da Roger Corman aveva per titolo "The Beast with 1.000.000 Eyes", il mostro con un milione d'occhi. Potremmo rubarlo per descrivere l'universo secondo Brian De Palma: una realtà sconvolgente spezzettata nelle centomila schegge della visione. Ecco le ossessioni del regista americano, il più metalinguistico di tutti i metalinguisti di Hollywood: il vedere, la moltiplicazione e il frazionamento del visibile. Nel suo cinema De Palma non riflette sull'ontologia dell'immagine bensì della visione e della riproduzione.
Anche il bellissimo "Omicidio in diretta" ripropone la dialettica depalmiana fra il vedere e il suo scacco. Da un lato l'ossessione del vedere esplode in un delirio di onnipotenza della macchina da presa: lo dichiara l'elettrizzante piano sequenza iniziale, ma si confronti anche la sequenza in cui, come in un film degli anni Quaranta, la macchina da presa/occhio scivola sopra una parete e, attraverso il soffitto inesistente, spia dall'alto nelle varie camere dell'albergo. Allo stesso tempo il film riafferma il carattere caleidescopico della realtà. De Palma modella la sua ricerca linguistica sul grande mito americano della conoscenza, il complotto: con Nicolas Cage, poliziotto corrotto ma leale ("E' il mio unico vizio") che a fianco dell'amico Gary Sinise, alto ufficiale della marina, si ritrova testimonio e investigatore di un omicidio politico durante un megaincontro di boxe. Come in Kubrick e nel recente Tarantino di "Jackie Brown" assistiamo a una ridefinizione in flashback della scena centrale, la stupenda e caotica scena dell'attentato, rivedendola attraverso gli occhi di diversi personaggi. In "Omicidio in diretta" la moltiplicazione dei punti di vista (comprendenti la menzogna) si unisce alla moltiplicazione degli schermi (che il film spinge fino a restringere in alcuni passaggi il formato cinematografico in scope a quello televisivo); e c'è un ovvio rapporto fra le due istanze.
Quella moltiplicazione della visione che supportavano gli "split-screen", ch'erano un tempo la cifra, la caratteristica di De Palma (cfr. "Carrie"), ritorna qui nei vari schermi tv e monitor che "forano" l'inquadratura cinematografica; vedi per esempio la bella sequenza manieristica dell'inseguimento visuale di una coppia attraverso il controllo a circuito chiuso nella sala monitor. Ma De Palma ricorre di nuovo in questo film anche al "suo" puro "split-screen" rinnovandolo con logica ed eleganza, al momento culminante del racconto dedla misteriosa Carla Gugino a Nicola Cage, fino a comprendervi accanto al flashback il viso sconvolto di Cage che ascolta il racconto.
Perché non comprenderemmo il regista se accanto alla sua discesa all'inferno delle immagini non considerassimo il secondo momento: la risalita a partire da esse. De Palma crede nell'analisi minuziosa dei frammenti di immagine - diremo meglio, per comprendervi il suono, di scheggia sensoriale - dai quali emerge, non indolore, una nuova verità. Non dimentichiamo l'omaggio critico a "Blow-up" di Antonioni nel dare a un suo film il titolo di "Blow-out"! C'è sempre un obbligo morale in questo teorico della visione. Lo esprime in "Omicidio in diretta" la conoscenza non voluta che si impone a un protagonista riluttante fino alla disperazione.
In De Palma il termine di inquadratura è centrale sia in senso proprio sia in senso metaforico. Come mostra tutto il suo cinema, in/quadrare vuol dire mettere in quadro, stabilire dei confini, intervenire sulla realtà: inserire una certa porzione di verità in un quadro è lasciarne fuori un'altra. Esiste sempre un fuori quadro, da reinserire: e il processo tormentoso e confuso di ridefinizione della realtà attraverso lo scavo nella visione non è forse una nuova messa in quadro? Questo è il cinema di De Palma, che in "Omicidio in diretta" conferma - accanto all'affascinante perizia narrativa - una consapevolezza linguistica, una capacità di riflettere sul linguaggio del mezzo e di utilizzarlo a fini espressivi, che gli fanno onore.

(Il Friuli)

The Legend of Zorro

Martin Campbell

Cosa farà il Corsaro Nero quando si sposa? Questo è il problema di tutti gli eroi. Perché il romanzo e il film d'avventura, quando non sono un "Bildungsroman", cioè racconto di formazione d'un adolescente come "L'isola del tesoro", si trovano sempre di fronte allo stesso problema: l'eroe dell'avventura dev'essere sempre uguale a se stesso; viceversa, il matrimonio e la vita familiare rappresentano un mutamento, una crescita, un passaggio di stato. Gli eroi sono sempre innamorati, ma metter su famiglia si oppone all'immagine eroica. Ammettiamolo: il matrimonio significa appendere la spada al chiodo.
Il vecchio Salgari, che se n'intendeva, risolveva la piccola questione facendo morire la sposa del protagonista fra un romanzo e l'altro; succede a Sandokan, succede a Tremal-naik; e di questo modo spiccio di mantenere l'eroe libero da legami troviamo tracce anche nel cinema. Nel capolavoro "Aquila Nera" (1946) del misconosciuto genio italiano Riccardo Freda, Rossano Brazzi si danna (nel cinema di Freda, poi!, che non è una passeggiata) per conquistare Irasema Dilian - però all'inizio del sequel "La vendetta di Aquila Nera" (1951) tutta la sua famiglia viene massacrata, lui parte in caccia, e così ha l'occasione di innamorarsi di nuovo. Qualcosa del genere accade a Sigourney Weaver fra lo stupendo "Aliens" di James Cameron e il discutibile "Alien 3" di David Fincher a proposito della bambina: la lotta per salvarla era il climax di "Aliens", ma nel film successivo muore per incidente nei primi cinque minuti.
Questa contraddizione matrimoniale è stata largamente esplorata nelle parodie (di recente, "Spy Kids" di Robert Rodriguez e il cartoon "Gli Incredibili"), ma ora l'assume in proprio un film eroico "serio", benché molto ironico: il lucido e piacevolissimo "The Legend of Zorro" di Martin Campbell. L'aspetto più divertente del film sono proprio i problemi coniugali di Zorro/Antonio Banderas con sua moglie Helena/Catherine Zeta-Jones, che vorrebbe che il marito smettesse di andare in giro a sciabolare mascherato (roba da scapoli) e passasse le serate in casa con la pipa in bocca aiutando il figlio a fare i compiti. La sceneggiatura costruisce un gustoso incrocio fra la definizione storica d'epoca, ottocentesca, e la contempotaneità culturale americana; e il rimpallo fra gli ottimi Banderas e Zeta-Jones apporta al film un elemento di "comedy" che vale da solo il prezzo del biglietto.
Campbell è un artigiano assai capace, che meriterebbe maggior fama; ha già rispolverato in modo eccellente James Bond con "Goldeneye", oltre che lo stesso Zorro con "La maschera di Zorro" del 1998 - di cui questo è un sequel ancora più libero, colmo di quell'ironia nel narrare che gli inglesi chiamano "tongue-in-cheek". Sono da citare la trasformazione di Zorro in icona pop già all'interno del film ("Zor-ro! Zor-ro!" acclama la folla lanciando i cappelli in aria), la trasformazione del figlio in un mini-Zorro che a scuola duella col maestro a colpi di stecca, e soprattutto l'indimenticabile cavallo Tornado, che se il caso gliene offre la possibilità si ubriaca insieme al padrone, fuma la pipa e, dopo il salto da una rupe sul tetto del treno in corsa, spalanca gli occhi preoccupato quando vede - prima di Zorro! - che stanno andando verso una galleria.
E' un film vitale e divertente, che trasporta il consueto cappa e spada in una dimensione alla James Bond, con tutti i "topoi" del genere, compresa una riunione dei cattivi in puro stile Spectre con tanto di esecuzione a sorpresa del membro deviazionista. Nondimeno, la modernizzazione non porta mai il film fuori dall'ortodossia del genere, proprio come il "tongue-in-cheek", pur arrivandoci a un passo, non cade nell'autoparodia. L'abile narrazione di Campbell provvede un efficace spettacolo (ottimi i due momenti di stile ultramoderno in cui i "villains" incontrano il meritato destino). Grazie a Martin Campbell, per Zorro non è ancora giunto il momento di appendere la spada al chiodo.

(Il Nuovo FVG)

mercoledì 16 gennaio 2008

Monella

Tinto Brass

Gina Lollobrigida sull'asino è diventata icona del post-neorealismo ("Pane amore e fantasia"); ha la forza d'immagine per diventare un'icona di tutto il cinema di Tinto Brass Anna Ammirati, deliziosa esibizionista, nella sequenza d'apertura di "Monella", esibendo sulla bicicletta un sedere perfetto. Monomania? Certo. Morandi dipingeva solo bottiglie; Brass solo sederi, e pubi, femminili. E' un poeta del derrière.
Per Brass l'incantesimo del corpo femminile (quello maschile non gli interessa affatto) coincide con l'incantesimo del cinema. Lo sguardo attraversa tutto il film di Brass: sguardo desiderante dei personaggi tra loro e sguardo avido della macchina da presa, avida come un vampiro, o un amante. E il corto circuito dello sguardo in macchina, che trapassa la barriera dello schermo. In "Monella" dopo la scena più audace, in cui fa pipì in terra sotto la pioggia, Anna Ammirati lancia di sopra la spalle uno sguardo in macchina fulminante, di sfida e di complicità. A chi? Al regista suo mentore, alla macchina da presa, allo spettatore, in uno.
Perché il cinema di Brass si basa su una doppia identificazione. In primo luogo l'occhio del regista, demiurgo del proprio maniacale totalitarismo erotico, si identifica con quello della macchina da presa: che per questo è così fisica, curiosa, carnale. Concretizza quest'identificazione la presenza sempre più marcata di Brass come figura fisica nei suoi film; in "Monella" non solo apre e chiude il film, guardando in macchina, ma lo attraversa doppiando Patrick Mower (e innestando così un bel cortocircuito di ambiguità di rapporti). Brass è prismatico, il suo cinema è un gioco di riflessi. Anche per questo è pieno di specchi.
In secondo luogo Tinto Brass identifica il suo sguardo con quello dello spettatore, trascinandolo nella propria sublimazione eroica del voyeurismo. Ha anche questo significato il pigmalionismo di Brass, la sua mania incoercibile di scoprire - il doppio senso, trattandosi di Brass, è inevitabile ed utile - sempre volti nuovi/corpi nuovi.
Il corpo: Brass vorrebbe essere dappertutto, vorrebbe moltiplicare l'occhio all'infinito (in attesa o nel sogno di un cinema che renda tutti i cinque sensi: ciò che lui cerca di fare per via narrativa). Brass è un sadiano gentile (o lo è qui: "Monella" è un eros senza drammaticità): ama la macchina erotica, la moltiplicazione geometrica dei corpi e degli atti. C'è nell'ultimo cinema di Brass una tendenza alla riduzione della storia di fronte alla materialità dell'esibizione: per questo a mio parere "Fermo posta Tinto Brass" è il suo miglior film recente, tocca un punto di non ritorno con le sue storie evanescenti (il suo eros circolare da autoscatto); per lo stesso motivo "Monella" è più bello del più ambizioso "L'uomo che guarda". In questo film il racconto c'è, ma è lieve. "Monella" è lineare, giocoso (il gusto brassiano della provocazione qui si depura dalle scorie filosoficheggianti), eccessivo, anarchico (da notare l'omaggio a Jean Vigo). Una nota particolare merita, come tutto il cinmema di Brass, la musica. Brass ama accordare il movimento degli attori e l'andamento della narrazione all'elemento musicale diegetico; qui in particolare si sfrena nel magnifico numero di danza dei tre soldati, in una scenografia che l'inquadratura frontale e bilanciata rende quasi astratta, da musical. Il che ci fa pensare: che splendido musical erotico potrebbe realizzare Tinto Brass se ne avesse l'uzzolo - e i soldi!
Anche perché i film di Brass concretizzano sullo schermo un universo soggettivo quanto quelli di Fellini. Il loro richiamo al passato (in "Monella" i tardi anni '50), quel vero gusto del film in costume, non serve tanto a ricostruire filologicamente un'epoca - in "Paprika" ad esempio c'erano un paio di errori di messinscena da far venire i brividi - quanto a spostare più agevolmente il racconto in una dimensione mitica, a rendere l'utopia sessuale brassiana della seduzione ridente e infinita. "Luxe, calme et volupté".

(Il Friuli)

Salvate il soldato Ryan

Steven Spielberg

Chiusa fra due immagini identiche della bandiera americana in controluce, la struttura di "Salvgte il soldato Ryan" è geometrica: apertura sulla cornice contemporanea, prima sequenza di battaglia, viaggio della pattuglia alla ricerca del soldato Ryan, seconda sequenza di battaglia, chiusura della cornice. Però lo svolgimento non è circolare - il che contraddirebbe l'umanesimo spielberghiano - bensì spiraliforme. Il viaggio (iniziatico) della pattuglia è la comprensione di una necessità.
"Ma questo Ryan deve valerlo!". La domanda capitale del film, che si pongono i soldati e pure Ryan stesso quando lo trovano, è: perché fra tanti sofferenti proprio il soldato Ryan dev'essere salvato? E' centrale, nello svolgimento dialettico dell'altissimo film di Spielberg, lo sviluppo del concetto di "merito": prima espresso in forme semi-mitiche (deve diventare un grande inventore o simili) nelle prime discussioni nella pattuglia, attraverso le ultime parole di Tom Hanks (il capitano Miller) a Matt Damon (Ryan) dopo la battaglia, che sono semplicemente "Méritatelo", fino alla chiusura con Ryan vecchio (Harrison Young) che - in uno dei momenti più umani e solenni di un decennio di cinema americano - interroga implorante la moglie: "Dimmi che sono un brav'uomo". Non è un'invenzione che merita la salvezza, è tutta una vita. Per questo il racconto è inserito in flashback dentro una cornice contemporanea, che richiama direttamente "Schindler's List"; serve a dirci che l'argomento di "Salvate il soldato Ryan" è lo stesso: chi salva una vita salva l'intera umanità.
Spielberg sottolinea sempre lo "sguardo di scoperta"; qui, anche se si tratta di un film corale, è in primo luogo lo sguardo insieme professionale e orrificato di Tom Hanks: un orrore che emerge esternamente nel tremito delle mani e internamente nei brevi momenti di shock "dentro" i quali ci porta soggettivamente il film. Ora, in "Salvate il soldato Ryan" lo sguardo spielberghiano coglie la crudeltà della guerra con forza quasi inedita; e non penso solo alle viscere fuori dai corpi squarciati, ma a un "farsi feroci" perr cui si spara ai nemici arresi o feriti; per non dire del dolore delle madri (la pregnanza di quell'inquadratura con la madre che si accascia a terra intuendo nell'arrivo dell'auto la notizia della morte dei figli). Eppure non è un film antimilitarista ma umanista: si fonda sul concetto di sacrificio - una vita per una vita - e questo sacrificio pone un concetto di necessità che si allarga alla guerra intera, eslicitato nelle parole di Lincoln, e simboleggiato nella bandiera che apre e chiude il film.
Il movimento dialettico del film determina l'evidente diversità fra le battaglie iniziale e finale. Questa diversità non è solo narrativa (con la battaglia finale il film arriva con ammirevole chiarezza a uno sviluppo, prima negato, che vorrei chiamare romanzesco: il compito impossibile da assolvere contro tutto e contro tutti), ma anche - genialmente - linguistica. Infatti nella prima battaglia troviamo la dimensione orizzontale dello sguardo. Spielberg riproduce mirabilmente una contemporaneità della ripresa: macchina a mano, lenti d'epoca, colori stinti, macchie di sangue sulle lenti. L'esserci nella sua forma bruta, la battaglia come caos. Nella seconda battaglia, lo sguardo è verticale, onnisciente. Qui Spielberg organizza i mezzi del cinema contemporaneo (che, non scordiamolo, coincidono con la sua biografia). Se nella prima battaglia l'occhio dello spettatore coincide con la macchina da presa del cameraman-soldato (attraendo per analogia le immagini di focalizzazione onnisciente come i soldati sott'acqua), nella seconda coincide con la macchina da presa del regista Spielberg, suprema istanza ordinatrice.
Dopo questa crescita linguistica del racconto, il ritorno al presente nel cimitero militare. La spirale di "Salvate il soldato Ryan" è una spirale nel dolore. Come in "Schindler's List" (o "L'impero del sole"), la memoria non attuisce, ma purifica quel dolore attraverso la trasparenza del tempo.

(Il Friuli)

Romance

Catherine Breillat

"Che buffonata l'amore - è una questione di potere", riflette la protagonista (Caroline Ducey) dello splendido "Romance" di Catherine Breillat, combattendo la sua guerra sessuale contro il suo compagno Paul: il quale (dice che) l'ama ma non vuole fare l'amore con lei. "Chi scopa una donna si dice che l'onora. E' un'espressione da tenere in considerazione, perché è proprio così. Paul mi disonora".
Il binario parallelo della voce over dei pensieri della donna è usato con vera genialità; entra a gradi e si sviluppa fino a divenire l'elemento costituente del film. "Romance" è una delle più chiare e lucide discese nella psicologia femminile - quella autentica, non la retorica delle psicologhe delle riviste o delle femministe-sessuofobe - di cui il cinema abbia avuto il coraggio (e il coraggio è sempre stato la dote di Catherine Breillat, autrice di pochi, ottimi, difficili film di scarso successo). "Romance" non è un "conte philosophique", perché non illustra una tesi o una moralità; ma è certo un film "philosophique", e in questo molto francese, perché trasferisce senza sforzo l'"esprit" analitico alla materia più fisica e carnale. Le sue riflessioni sull'erezione maschile, il preservativo, il pompino sono folgoranti come una pagina di Bataille.
Il discorso è esplicito a livello verbale come è esplicito il film sul piano del visibile: il corpo e il sesso reale; fin dall'inizio dove la verità di un accenno di pompino autentico entra come uno shock visivo, nonostante il pubblico sappia già cosa è andato a vedere, dato il "succès de scandale" del film. Il film della Breillat ha la bravura di riportare l'impatto visivo del sesso non simulato al "vero naturale" della vita, qui strettamente riprodotto (anche la voce soggettiva non incrina il realismo: potremmo parlare di un "realismo dell'anima"); la gente fa sesso come la gente mangia, piange, parla. E' questo realismo che giustifica il casting di Rocco Siffredi nella parte di Paolo (nota il nome), l'amante casuale. Il pornodivo Siffredi appare come icona di se stesso (il dialogo lo sottolinea umoristicamente), porta con sé il marchio di autenticità del cinema porno.
"Romance" è l'itinerario interno/esterno di una liberazione, conclusa dal funerale fantasmatico - la scena è evidentemente onirica - di Paul, autenticamente (e giustamente!, aggiungo) assassinato dalla protagonista. Impassibile, arrogante, chiuso nella sua bellezza da "p'tit con" (basette curate, piccolo tatuaggio sul torace), Paul è innamorato di se stesso: è un esempio di narcisismo (il che non implica ma neppure esclude la componente omosessuale sospettabile nel suo aspetto leccato e nel suo rapporto cogli amici maschi). A gran rabbia della sua amante, Paul ama corteggiare le donne in discoteca nello spazio di un ballo, perché questo sedurre e lasciare gli consente di rientrare subito, per così dire, "chez soi", nel proprio narcisismo autistico. Da notare l'opposizione fra la recitazione volutamente chiusa in se stessa di Paul/Sagamore Stévenin e la recitazione "di pelle" di Caroline Ducey. Ma tutti gli uomini nel film hanno qualcosa della maschera: la differenza fra la recitazione femminile e le recitazioni maschili rimanda sì all'impassibilità della corazza propria del maschio, ma anche all'opposizione tra la realtà interiore della protagonista e i fantasmi maschili che le stanno attorno. Perché i personaggi maschili di "Romance", film eminentemente soggettivo, sono anche maschere dell'immaginario femminile. L'amante chiuso nella sua arroganza/impotenza, lo scopatore senza problemi (Rocco Siffredi), lo stupratore senza nome, l'amico brutto e buffo Robert (François Berléand), che osserva: "Le donne belle si compiacciono di farsi sbattere dagli uomini brutti, ma non si dice mai". E' un personaggio divertentissimo - non dimentichiamo che "Romance" è un film pieno d'un sottile humour - col quale s'instaura un'imprevista complicità che trionferà nella scena del parto. Scena anch'essa "porno" (leggi: ricondotta all'autenticità del visibile) che, almeno per un maschio, turba più di tutto il film. Peraltro, non l'aveva già osservato la protagonista? "Agli uomini fa schifo proprio tutto!"

(Il Friuli)

sabato 12 gennaio 2008

Alla ricerca di Nemo

Andrew Stanton e Lee Unkrich

Il problema fondamentale dei pesci è che hanno facce da stupido. Così di sicuro non li aiuta l’animazione “fredda” al computer della Pixar di John Lasseter, nella nuova proposta Disney-Pixar “Alla ricerca di Nemo”, diretto da Andrew Stanton e Lee Unkrich: per quanto avanzato sul piano tecnico, è il cartoon Pixar meno convincente finora (è perfino meglio, elementare ma gustoso, il semplicissimo “Knick Knack”, 1989, che lo precede come un reperto archeologico!).
L’umanizzazione dei pesci risulta vagamente realistica ma poco coinvolgente. Avrebbe funzionato meglio il disegno a tratto di penna dei vecchi cartoon Disney (sto pensando a “La carica dei 101”), con un’umanizzazione da caricatura inglese, un po’ alla Ronald Searle. Quella del film è psicologicamente debole: si prova difficoltà ad appassionarci veramente ai personaggi. Se non sul piano meramente narrativo, perché “Alla ricerca di Nemo” lavora su temi semplici e sperimentati: il pesce tropicale Marlin, aiutato dalla pesciolina Dory, arriva fino in Australia alla ricerca del figlioletto Nemo, portato via da un sub, e contemporaneamente Nemo cerca di evadere dall’acquario prima di finire regalato a una mostruosa bambina ammazza-pesci.
“Alla ricerca di Nemo” è un romanzo di formazione, com’è stato detto - però del padre. Marlin, un vedovo iperprotettivo (Nemo è l’unico superstite dei suoi figli, mangiati ancora uova dal predatore che ha ucciso sua moglie), avrà i suoi traumi e le sue ragioni ma è tratteggiato superficialmente e resta una figura insieme sgradevole e anodina; mal doppiata, poi, da un Luca Zingaretti che sembra sotto Valium. Gli manca la tradizionale capacità dei personaggi sfigati e paurosi della Disney di destare un senso di complicità nello spettatore. Suona bizzarro osservare che un pesce manca di virilità, ma tale è il carattere di questo rompiscatole petulante, e ben poco coinvolgente: un problema che si poteva superare solo avendo il coraggio di caricaturarlo maggiormente, facendone un nevrotico alla Woody Allen. Va detto che tutte le personalità (pescionalità?) del film sono disegnate stancamente. Il personaggio di gran lunga più riuscito è la smemoratissima Dory, cui toccano i pochi scherzi centrati d’un film non particolarmente spiritoso.
C’entra naturalmente anche il soffocante buonismo “politically correct” che attraversa il film. Ne sono un’illustrazione umoristicamente paradossale i tre squali che si allenano a non mangiare più pesci, in puro stile Alcolisti Anonimi, e che in chiusura si fanno portavoce dell’ultima (autentica) scemenza animalista americana: «I pesci sono amici, non cibo» (balle! I pesci sono cibo, e dannatamente buono anche; del resto mi piacerebbe sapere, entro l’universo diegetico del film, di cosa campano i tre). Non mancano avventure e inseguimenti, ma manca al racconto un vero “villain”: gli aggressori, o sono umani - alieni visti di scorcio in questo universo ittiocentrico - o creature meccaniche e decerebrate, come il pesce abissale (non a caso una delle figure migliori), le meduse, i gabbiani (una bella invenzione il loro verso «Mio! Mio!»).
Un paio di accenni di canzoni (in omaggio al realismo, diegetiche, cioè interne alla storia), assolutamente orribili, paiono un tenue rimasuglio del gusto musicale disneyano: ricordate il mare come scena di un sontuoso musical ne “La sirenetta”? Vale lo stesso per la goffa scena strappalacrime con Nemo che sembra morente alla fine; questo film è pieno di cascami, sopravvivenze disneyane, che fluttuano - già che siamo in argomento - come relitti sull’oceano. Certo, ci sono belle scenografie (il sommergibile affondato circondato di mine) e varie citazioni filmiche; ma a che giova?
Ma non perdiamoci d’animo. Tutto ciò che non è riuscito ad essere “Alla ricerca di Nemo” lo sarà (a giudicare dalle notizie e, quel che più conta, dalle prime immagini) “Sharkslayer” della concorrente DreamWorks. Stay tuned!

(Il Nuovo FVG)