John Lasseter e Joe Ranft
Umanizzare animali, piante, oggetti, è la specialità del cartone animato; ma nei recenti lungometraggi essa viene estremizzata in quello che potremmo chiamare un lavoro di “ricalco”: ovvero, l’umanizzazione si allarga fino a replicare con umoristica precisione qualsiasi aspetto della società umana. Ora dalla Pixar - la compagnia che in animazione digitale 3D ha realizzato forse i migliori film di animazione d’epoca recente (basta citare “Toy Story”, “A Bug’s Life”, “Monsters & Co.”, “Gli Incredibili”) - arriva “Cars”, diretto dal grande John Lasseter con Joe Ranft, che inventa un mondo in cui le auto sono gli unici abitanti. Da mezzi meccanici per noialtri umani sono trasformate in creature vive e pensanti, fini a se stesse (ha qualcosa della morale kantiana, questo! “L’auto come fine”). Sul parabrezza si muovono grandi occhi, il radiatore diventa la bocca. E’ un gioco delicato, che non consente eccessivi allontanamenti né in una direzione né nell’altra; in questo senso, il rugginoso carro attrezzi Cricchetto (il tonto-dal-cuor-d’oro del paese) è una stonatura visuale perché i suoi dentoni totalmente umani e non riconducibili ad alcunché di meccanico sono l’unico allontanamento dalla coerenza complessiva del disegno.
Questa sovrapposizione di due universi consente tutta una serie di notazioni gustose, dalle automobili-telecroniste che commentano la gara ai film per auto che vediamo parodiati, vuoi “La guerra dei mondi”, vuoi gli stessi classici Pixar. Va lodata l’accuratezza dell’operazione - anche se in ultima analisi “Cars” risulta più intelligente che divertente.
Tipico delle produzioni Pixar, è forte il desiderio di allontanarsi dal lungometraggio animato tradizionale. Per esempio c’è una tensione verso il musical che viene controllata tanto rigidamente quanto i vittoriani tenevano sotto controllo la loro sessualità (a proposito, un porno Pixar sarebbe una cosa strepitosa - ma temo che non lo vedremo mai). Pure l’elemento comico-caotico è più o meno represso: solo la scena in cui il protagonista distrugge involontariamente la strada cittadina è un momento cartoonistico di tipo tradizionale.
Come sempre, il disegno “tridimensionale” della Pixar è stupefacente. Ma con tutta la sua modernità tecnica, per sviluppo e personaggi “Cars” volutamente somiglia molto a un film giovanilistico dei tardi anni ’50. Non per niente il protagonista si chiama McQueen! Saetta McQueen è un’auto rossa, campione emergente di gare automobilistiche, in lotta col dignitoso vecchio campione blu e l’“eterno secondo” verde (il colore dell’invidia) che è il “villain” del film. McQueen è presuntoso, maltratta i collaboratori, non ha amici. Perdutosi, si trova condannato a lavorare in una piccola città nel deserto, economicamente in rovina, per riparare i danni compiuti - e qui, s’intende, trova l’amicizia (e l’amore, con una bella Porsche). Ritornerà alle gare moralmente rinato - riuscendo anche ad assicurare la rinascita del paese.
Il concetto base del film è il recupero di antichi valori umanistici come l’amicizia, la modestia, il rispetto e la cooperazione, che storicamente nel cinema americano (ma non solo) si sono iscritti nell’opposizione città/campagna. Il racconto della felicità del paese prima che la nuova autostrada deviasse il flusso dei visitatori serve ad esprimere la nostalgia per una “Old America” semirurale scomparsa. Ed è interessante che i momenti più poetici siano quelli più tristi: i rossi fari posteriori dei camion nella notte, il mesto panorama notturno della piccola città in declino.
Ma quando alla fine Saetta McQueen rinuncia alla vittoria fermandosi a un palmo dal traguardo per spingere oltre la linea d’arrivo il vecchio campione ammaccato nell’incidente, il film si eleva in un vero momento di nobiltà cinematografica - che ricorda, in piccolo, quando Gene Hackman si fermava prima del traguardo per far bere il suo cavallo nell’indimenticabile finale di “Stringi i denti e vai”.
(Il Nuovo FVG)
venerdì 18 gennaio 2008
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