Tornate
alla proiezione in presenza, sono state magnifiche come sempre le
Giornate del Cinema Muto 2021. L'apertura è stata col capolavoro
assoluto di Lubitsch Lady Windermere's Fan (vedi scheda più sotto). Ma non trascuriamo la pre-apertura a Sacile, con un
accompagnamento moderno (Teho Teardo e la Zerorchestra) della folle
cavalcata visuale di Maciste all'Inferno di Guido Brignone: un
capolavoro delirante, tra i tocchi di satira politica, la scatenata
concezione visuale sia come ambientazione sia come figure, l'erotismo
inconsueto con un Inferno ben provvisto di bellezze fetish
dall'aria deliziosamente puttanesca, che si offrono a Maciste
nell'intento di farlo restare là – e infine anche le didascalie in
versi che saccheggiano Dante.
Ham
and Eggs at the Front di Roy Del Ruth avrà fatto rabbrividire
gli zelatori del politically correct, perché è una commedia
blackface con attori bianchi truccati da neri, fra i quali
spicca la grande Myrna Loy, sulle dis/avventure di due soldati di
colore sul fronte francese durante la prima guerra mondiale. E' un
agglomerato di episodi piuttosto slegati, dei quali il migliore si
riferisce a una pazza partita di poker in cui barano tutti, ma è
molto divertente.
Non
quanto un film di Max Linder, si capisce. Alle Giornate abbiamo
potuto godere il suo ultimo film, prima invisibile da molti decenni:
un eroico restauro di Max, der Zirkuskönig, di
Edouard-Emile Violet: un vero patchwork di copie provenienti da una
dozzina di fonti diverse, che restituisce un film perduto. La
genialità fisica del grande Max, il suo numero di uscire di nascosto
insieme al nemico (lo zio!) camminando attaccato alle sue spalle e
sparendo se quello si gira... la sua impassibile improntitudine, da
cui aveva imparato molto il primo Chaplin... la sua inventiva sul
piano del plot (la scena delle pulci!)... insomma: viva Max Linder!
Polidor
cambia sesso del 1918, di e con Ferdinand Guillaume, fa parte di
una piccola serie di notevoli presentazioni della Cineteca del
Friuli. Un film en travesti dove mostra la sua inventiva il
gran Polidor, che meriterebbe un omaggio tutto suo – anche se
invero molti suoi film si possono già vedere sul web.
Molto
interessante il western con toni di commedia Don Quickshot of the
Rio Grande, dell'indefettibile artigiano George Marshall, la cui
carriera andò dal 1916 al 1969. Come tale, questo film del 1923 non
può non far pensare al suo Partita d'azzardo (Destry Rides
Again di sedici anni dopo). Erotikon di Gustav Machaty è
un grande classico, dove la modernità di linguaggio del periodo
culminante del muto è al servizio di un melodramma, interpretato da
Ita Rina, dove specialmente la parte iniziale è di impressionante
sensualità.
Un
settore specifico delle Giornate era dedicato alle sceneggiatrici. La
commedia riscoperta A Temperamental Wife (1919) di David
Kirkland è farina del sacco della miglior Anita Loos (meglio di
American Aristocracy di Lloyd Ingraham che lo precedeva),
sceneggiato con il marito John Emerson. Una ragazza pestifera
(nonostante l’aspetto aristocratico) conquista l’amore di un
giovane senatore misogino e poi rischia di perderlo per la sua
gelosia verso la sua segretaria: usual fare, si dirà,
ma con una torsione leggermente assurda che lo rende delizioso.
Attori in stato di grazia, fra cui spicca la strepitosa Constance
Talmadge: grande comedienne col suo gioco espressivo moderno,
controllato, spiritosissimo.
Beulah
Marie Dix e Sada Cowan sceneggiano Fool's Paradise (1921) di
Cecil B. DeMille. Un curioso bel melodramma, dove un cieco sposa una
donna – involontariamente responsabile della sua cecità – che
finge di essere un'altra. Le didascalie (come è tipico di DeMille,
autore negli stessi anni di film come il primo I Dieci
Comandamenti e di audaci commedie matrimoniali) mischiano il
diavolo e l'acqua santa: il tono moraleggiante delle didascalie
narrative si alterna al linguaggio wisecracking della
protagonista Dorothy Dalton. E dopo la parte principale ch'è puro
mélo classico il film cambia strada diventando (prima di tornare al
genere per la conclusione) un dramma avventuroso ambientato nel Siam,
con l'“altra donna” che getta un guanto in una fossa di
coccodrilli sfidando i suoi due innamorati rivali a riportarglielo.
Questo sviluppo, per inciso, ha sollevato alcune risatine in sala da
parte di spettatori che ignoravano che è preso da una bellissima
ballata di Schiller, Der Handschuh.
L'altro
DeMille – William C. DeMille, il fratello diversissimo, autore di
film psicologici e delicati, di Cecil B. – era presente con lo
splendido Miss
Lulu Bett,
sceneggiato da Clara Beranger, che era già passato alle Giornate
vari anni fa. Commedia drammatica centrata
sullo sfruttamento di una parente zitella (Lois Wilson) da parte
della sua famiglia, Miss
Lulu Bett
disegna un perfetto quadro di ipocrisia e di egocentrismi ciechi. A
parte la ricchezza umana di Lois Wilson, è una memorabile galleria
di mediocrità umana ignara di se stessa, preoccupata solo della
reputazione. Rimarchevole l'uso degli oggetti inanimati per definire
una situazione e un personaggio (il padre con l'orologio); ogni
sprazzo di humour diventa una sfaccettatura ritornante; e sempre,
quello che sembra un incidente estrinseco o una gag si sviluppa fino
a diventare elemento costitutivo della narrazione.
Ma
il film numero uno è il
superbo
Kentucky Pride
di John Ford (sceneggiato
da Dorothy Yost). Come
in Shakespeare è la vita stessa che si iscrive attraverso la
rappresentazione sul palcoscenico, così in Ford è la vita stessa
che si iscrive attraverso la rappresentazione filmata sullo schermo.
Non c'è film di Ford che non tocchi in profondità le corde del
cuore. Kentucky
Pride,
dove rivediamo fra gli interpreti il griffithiano Henry B. Walthall,
è uno dei vari film fordiani che parlano di corse dei cavalli (The
Shamrock Handicap,
The
Hangman's House);
e qui sono così al centro che la sua storia drammatica è narrata in
prima persona, in didascalie autobiografiche, da una cavalla, piena
dell'orgoglio e degli ideali cavallereschi del Vecchio Sud che unisce
i purosangue dell'allevamento e la famiglia protagonista. Per questo
il fatto che la puledra, figlia della narratrice, che alla fine vince
in modo emozionante la corsa, ristabilendo le fortune dei buoni e
rovinando i malvagi, si chiami Confederacy riempie di nostalgica
commozione.
Non
sono mancate le tradizionali “Nasty Women”, col piacere
semprevivo di rivedere volti familiari come Rosalie e Cunegonde, con
le tradizionali parodie della New Woman e del femminismo (da La
grève des nourrices,
1907, a Le
ménage Dranem,
1912), e con uno spassoso Fatty perseguitato nel West da
un'innamorata indiana interpretata da un'attrice comica Cheyenne
autentica, Minnie Devereaux (Fatty
and Minnie-He-Haw,
1914, di e con Roscoe “Fatty” Arbuckle). Un po' forzato è
l'inserimento in questa sezione del bellissimo lungometraggio Phil
for Short,
1919, di Oscar Apfel. “Phil per abbreviazione” perché lei (la
deliziosa Evelyn Greeley) si chiama Damophilia: un nome preso da
Saffo che le ha dato il padre grecista. Dopo la morte del padre, è
in fuga da un pretendente molesto nonché suo tutore e si incontra,
dapprima in vesti maschili, col giovane professore di greco John
Alden (Hugh Thompson), “odiatore di tutte le donne”. Il resto è
storia (cinematografica). In una variante particolarmente spiritosa –
e femminista: “Sapevo che sarei riuscita a farmi amare da te se ti
avessi fatto arrabbiare abbastanza”. America
1919 più greco antico (anche se le lettere sulla lavagna sono una
buffa imitazione). Ne derivano cose rimarchevoli, come l'insistenza
“scandalosa” di Phil per le danze greche in costume, e ancor più,
la sua moralità libera e pagana. Ma è notevole anche la perfetta
tessitura del plot. Se molto spesso le commedie sono una
agglomerazione di episodi semi-indipendenti che potrebbero essere
cortometraggi (vedi Ham
and Eggs at the Front),
qui il legame fra un episodio e lo sviluppo successivo è forte,
logico, compatto. Questo film è un piccolo gioiello.
Una
sezione assai bella era dedicata all'attrice e produttrice ebrea
tedesca Ellen Richter, che lavorava in coppia col marito Willi Wolff.
Avendo perso i loro film avventurosi, segnalo innanzitutto il dramma
storico Lola
Montez, die Tänzerin des Königs
(1922) di Willi Wolff con Ellen Richter. Ombra di Max Ophuls! E' una
pseudo-biografia, largamente immaginaria, della celebre ballerina e
femme fatale Lola Montez (Montes nel capolavoro di Ophuls del 1955).
Vivace, ben delineato, ben diretto, il film della coppia (marito e
moglie) disegna un largo quadro storico sull'orlo del melodramma ma
con un tocco d'ironia, affascinato dalle possibilità della
ricostruzione d'epoca e delle riprese on
location.
Dopo
l'inizio in una Spagna da romanzo gotico, o da opera di Verdi, si
passa a Venezia a Verona a Parigi a Monaco, dove Lola diventa la
protetta di Re Luigi I di Baviera e finisce per causarne
l'abdicazione al trono. C'è un grande gusto della messa in scena, da
una Parigi con figure che sembrano uscite dalle illustrazioni di
Charivari
a una parte bavarese che è già quel “cinema imperiale”, tra
Monaco e Vienna, che ci riempie sempre di nostalgia – con un
umanissimo Luigi I, Re con meno poteri di quanto vorrebbe. C'è una
scena deliziosa in cui Lola non ha i due talleri per pagare la multa
perché fumava al parco e viene imprigionata nella garitta della
sentinella; passa di lì il Re e ordina di lasciala andare; e la
sentinella: “Non è possibile, Maestà – il sergente andrà su
tutte le furie”.
In
verità Willi Wolff ha un grande gusto figurativo per le fisionomie.
Se ho menzionato sopra lo Charivari
per i borghesi francesi, si potrebbe evocare il Simplicissimus
per quelli tedeschi di Moral,
dove una canea di moralisti di professione (suona contemporaneo?),
nonché ipocriti totali, vuole impedire alla
star di uno spettacolo di varietà (Ellen Richter) di metterlo in
scena nella loro cittadina. Il film è la storia della sua vendetta,
che straccia gli ipocriti – e che giustamente è definita, in una
delle didascalie finali, “una lezione di moralità”.
Ancora
una grande collezione di fisionomie, stavolta di barboni e
vagabondaggi, nel divertentissimo Der
Juxbaron (cioè
“il falso barone”), di Wolff ma solo prodotto e non interpretato
dalla Richter. Una farsa di scambi di persona e sotterfugi dove
spicca, nel ruolo del personaggio eponimo, il grande attore Reinhold
Schünzel
– e dove compare, in una parte secondaria ma importante, una
giovane Marlene Dietrich (col monocolo!).
Infine,
una sezione tanto più affascinante per chi è appassionato del Far
east Film Festival e del cinema orientale presentava il cinema muto
coreano. Nel campo del documentarismo con una tenue tinta di fiction,
notevole Un
matrimonio coreano
(1927) del religioso Norbert Wener e memorabile il giapponese Parlano
le pecore della Corea settentrionale
(1934: ricordiamo che la Corea era sotto dominio giapponese
all'epoca), sull'importazione di pecore dall'Australia alla Corea,
dove la trovata gustosissima è di far narrare la storia alle pecore
in prima persona. Nella fiction, due film molto importanti. Nel
classico Crossroads
of Youth
di Ahn Jong-hwa del 1934, un melodramma che mette in rilievo le
differenze di classe, la regia, la sceneggiatura e il montaggio sono
di Ahn mentre la fotografia è di Lee Myeong-u: una fotografia
capace, con una bella distribuzione dei piani, un impiego convincente
della soggettiva e molte idee intelligenti, come l'uso di un
movimento discendente di macchina in funzione simbolica nella scena
del pozzo. Molto buono anche l'intenso dramma sociale A
Public Prosecutor and a Teacher
di Yun Dae-ryong, un tardo film muto (1948) che aveva la
caratteristica di essere restaurato in una versione sonorizzata con
la voce di un benshi
coreano (byeonsa),
ossia – trovo sul catalogo – l'ottimo Sin Chul.
E
infine, sabato 9 ottobre, le Giornate 2021 si sono concluse
trionfalmente col gigantesco Casanova
di Alexandre Volkoff (Francia 1927), interpretato da Ivan Mosjoukine
(Mozžuchin), e con l'apporto di una buona parte dell'emigrazione
russa a Parigi. Inutile insistere sulle dimensioni spettacolari di
questo film di due ore e quaranta, che appartiene a quella stessa
linea di grandiosità del muto francese cui appartiene (superiore,
s'intende) il Napoléon
di Abel Gance. E' stato un tour de force per la bravissima Orchestra
San Marco di Pordenone, diretta da Günter A. Buchwald, anche autore
dell'eccellente partitura.
Le
magnifiche riprese a Venezia (di massa e non) ne sono sufficiente
testimonianza, anche se non si può non menzionare pure una San
Pietroburgo ricostruita. La copia che abbiamo visto, poi, contiene
una parte assolutamente stupefacente: un'incantevole, lunga sequenza
notturna di Venezia nel Carnevale colorata a pochoir. Nella vasta
compagnia di attori che ruota intorno a Mozžuchin, menziono solo la
diva italiana Rina De Liguoro (la Corticelli, protagonista della
sequenza più erotica del film) e Rudolf Klein-Rogge (il Mabuse di
Fritz Lang) nella parte dello zar pazzo Pietro III.
Il
senso del film lo grida Casanova alla folla prima di gettarsi nel
vuoto al culmine di una versione acrobatica della fuga dai Piombi:
“Viva Venezia la bella! Viva la libertà! Viva la gioia di vivere!”
Un Casanova
più vicino a Il
cavaliere misterioso
di Riccardo Freda (1948) che al tetro Fellini.