Due
inquadrature all’inizio del film descrivono il suo arco. Uno: vediamo una
ragazza ascoltare i “saggi consigli” di una donna anziana mentre questa le fa
la ceretta: in sintesi, servire e compiacere il marito in letto e fuori (è un
bel tratto d’ironia congiungere nell’inquadratura le smorfie di dolore della
ceretta e l’ascolto di questi consigli). Due: vediamo una festa di giovani
palestinesi d’ambo i sessi, che bevono birra, ballano insieme con la bottiglia
in mano, c’è in mezzo un gay, e si nota anche una ragazza velata (è un
flash-forward del finale, ma non lo sappiamo).
Siamo
a Tel Aviv, e le palestinesi Leila e Salma sembrano fatte apposta per far
incazzare i barbuti dell’integralismo islamico. La prima avvocato con una testa
tutta riccioli, la seconda barista con un piercing, bevono, fumano, si spinellano
(o peggio), hanno una vita sessuale indipendente. Quando viene a stare con loro
la studentessa di informatica Noor che è musulmana osservante – porta l’hijab,
fa le abluzioni rituali, non beve alcool – ci aspettiamo scintille. E invece Noor
mostrerà un’indipendenza e una forza di spirito che la affratellano (non esistendo
come verbo “assorellano”) alle altre due. Quando il suo fidanzato integralista
Wissan, un bastardo barbuto (vedi sopra), non esita a violentarla per punirla
del fatto che rimanda il matrimonio e della sua amicizia per “quelle due
puttane”, Noor – senza abiurare alla sua personalità o alla sua religione – si
accorda con le altre due per mettere in atto una dignitosa vendetta. Un tocco divertente
qui è l’impaccio di Leila nell’addobbarsi con l’hijab (stanno preparando una
trappola) sicché Noor la deve aiutare.
In
Libere disobbedienti innamorate,
scritto e diretto dalla regista palestinese Maysaloun Hamoud (e distribuito
dalla friulana Tucker Film), ciascuna delle tre ragazze (rispettivamente
interpretate da Mouna Hawa, Sana Jammalieh e Shaden Kanboura), ciascuna in base
alla sua individualità, ciascuna a proprio modo, vuole vivere liberamente la sua
vita – il che la trasforma volente o nolente in un’istanza di opposizione. Per
questo, sul piano narrativo Libere
disobbedienti innamorate è un film centripeto: tutto precipita verso i tre
personaggi principali (gli uomini intorno sono delle nullità). E’ un film del punto – perché vi sono film che si
sviluppano nella dimensione del tempo e della durata, ed altri, come questo,
che si concentrano nell’“esplosione” di un momento. Ricorda momenti analoghi di
grande radicalità soggettiva nel cinema occidentale degli anni Sessanta, quel
“canto della giovinezza” che risuona in certe opere dell’Est europeo al tempo
delle varie nouvelles vagues
nazionali, per non parlare del sempreverde Godard, o nel cinema americano
dell’epoca (basta pensare a come lo popolarizza un film non bello ma assai
indicativo come Easy Rider).
A
questo punto però è urgente una nota a margine, per evitare di cadere nel
contenutismo. Come sempre, non è il tema ciò che importa nel film, bensì la
vivacità e la forza con cui esso viene espresso sul piano artistico –
altrimenti il film resterebbe solo un manifesto, magari condivisibile ma
esteticamente nullo.
E’
rilevante una scena in cui Leila e il suo amante Ziad mangiano guardandosi con
desiderio negli occhi; con la sensualità di Leila nell’inghiottire il cibo,
ricorda fortemente (vuoi che sia un omaggio, vuoi che sia un caso) la famosa
scena di Tom Jones di Richardson.
Anche questo ci ricorda che non si tratta di un film didattico, all’italiana: è
un film pieno di vita, di allegria, di concretezza, di materialità.
Ed
è un film di forte impatto, che mette in questione non soltanto la percezione
che l’uomo medio europeo ha dei palestinesi ma la percezione che i palestinesi
hanno di se stessi (senza sorpresa, dal villaggio di Umm al-Fahm, da cui
proviene l’attrice che interpreta Noor, è arrivato dal comune e dal concilio islamico l’ordine
di boicottarlo). Un film sarcastico e quietamente rabbioso nell’illustrare la
profonda contraddizione di sesso che postula una spaventosa arretratezza del
maschio arabo-palestinese (ma al di là della determinazione socio-geografica,
non solo di quello, evidentemente) rispetto alla donna. In questo senso la
figura che impressiona di più non sono i genitori conservatori di Salma, e
neppure il fanatico integralista Wissam, che appartiene a un tipo umano che ben
conosciamo purtroppo; bensì Ziad, il palestinese “evoluto” che va ai party,
beve alcool, ha vissuto per anni negli Stati Uniti nell’ambiente intellettuale
occupandosi di cinema; eppure, mentre è pronto a instaurare una relazione con Leila,
non prende in considerazione il matrimonio con questa donna troppo emancipata
per la sua immagine locale, a meno che lei non cambi (non siamo in Europa, dice).
E’ anche interessante notare come l’Europa si ponga, nel film, in modo quasi
mitico (positivo o negativo), e in parte illusorio, come territorio “altro”: di
trasferirsi a Berlino parla Salma dopo la rottura con la famiglia causata dalla
scoperta dell’omosessualità di lei. E’ una linea di frattura che attraversa
tutto l’universo del film – dove peraltro è egualmente rilevante la “doppia
identità” del palestinese-israeliano; al quale, in una scena indicativa e
“politica” con Salma che riproduce un fatto realmente avvenuto, viene impedito
dal dirigente di parlare arabo mentre è al lavoro nelle cucine di un
ristorante.
La
sensazione principale che trasmette Libere
disobbedienti innamorate è quella di separazione
– una linea di frontiera che è di genere (donne vs. uomini) e di generazione
(giovani vs. anziani) prima ancora che di orientamento sessuale nel caso della
lesbica Salma o del giovane gay che compare fuggevolmente nel film. Separazione
non come deriva solipsistica (sebbene l’ipocrisia di Ziad così la interpreti)
ma come forma del rivendicare con naturalezza la propria libertà.
Il
prezzo di questa indipendenza è la solitudine? La conclusione è un potente
fermo immagine delle tre ragazze, sedute insieme sul tetto, con lo sguardo
meditabondo perso nel vuoto. Per diversi motivi, che qui sarebbe inutile
elencare, la vita di tutte e tre ha subito una notevole incrinatura. Eppure
questa non è assolutamente un’immagine di sconfitta.
Sarà
del tutto soggettivo, ma vedendole insieme sedute in silenzio mi è tornata in
mente la strofa della Cucharacha che
concludeva Feroz di Manuel Gutierrez
Aragon: “Iban los tres en silencio / su pensamientos rumiando / mientras el
destino ciego / los hilos iba tramando”. Così le tre stanno in silenzio, ognuna
persa nei suoi pensieri, e non sappiamo cosa succederà dopo – ma sono ammaccate
ma non dome; sono, in tutta la loro vita e in questo momento conclusivo, “tra
terra e mare”, come recita il titolo originale del film.