Clint Eastwood
Sosteneva Ejzenštejn, in un famoso saggio, che Charles Dickens e il suo tipo di costruzione narrativa stanno all'origine - tramite Griffith - dell'estetica del cinema americano. Ebbene, Dickens è assunto esplicitamente a nume titolare di “Hereafter” di Clint Eastwood. George (Matt Damon) ascolta in audiolibri brani dickensiani letti da Derek Jacobi, tiene il ritratto di Dickens in casa, visita la casa di Dickens a Londra, dove poi compare Derek Jacobi as himself con una lettura di Dickens alla Book Fair. Ma al di là di questo, il grande film di Eastwood è per sé dickensiano: il gusto fluido del romanzesco, il filo segreto d'ironia, la capacità di trattare il patetico, il lampo inconfondibile di autenticità. Ictu oculi “sembra Dickens” più d'una pagina del film - per fare un solo esempio, la scena dei due bambini che rimettono freneticamente in ordine la casa per nascondere agli intrusi dei servizi sociali le manchevolezze della madre ubriaca e drogata.
Si dice che “Hereafter” è un film sull'aldilà. E' vero, anche se riduttivo. Eastwood sovente nel suo cinema ha adottato lo schema dei destini paralleli; qui l'americano George ha visioni dell'aldilà se tocca la mano dei parenti e comunica coi morti, ma sente questa capacità come un peso intollerabile e ne rifugge cercando di vivere una normale vita da operaio; la giornalista francese Marie è segnata dall'esperienza di pre-morte avuta durante il grande tsunami asiatico e si rovina la carriera per testimoniarne; il bambino inglese Marcus ha visto morire suo fratello gemello in un incidente e, separato dalla madre, cerca disperatamente un santone o un medium che possa metterlo in comunicazione con lui. I tre si muovono in un racconto solennemente interlineato - che così incrocia San Francisco, Parigi e Londra - finché il plot non li fa incontrare a Londra, legando con bella soluzione narrativa le loro vite. In questo saltare da una storia all'altra, contro il rischio del frazionamento Eastwood inserisce eleganti collegamenti (come le lettere che si toccano nella bella calligrafia di una volta) a rinforzare impalpabilmente l'unità tematica. A livello della storia: dalle bombe musulmane di Londra si passa allo shock che provoca questa notizia in tv a Parigi. A livello del discorso: sulla scena di una falsa medium a Londra entra, con prolessi del sonoro, lo squillo di un telefono che apre il segmento seguente in America. Ancora più interessanti sono i collegamenti illusori: l'aereo che riporta Marie in patria si chiama Virginia Atlantic (Virginia è un nome d'importanza capitale nel primo collegamento mediatico di George); una scena a Parigi si apre col passaggio di un ragazzino in bici che a prima vista sembra l'inglese Marcus; a Londra una donna che in campo lungo scende le scale di un edificio ci ricorda la Melanie dell'episodio americano.
E' un film sull'aldilà, certo; ma soprattutto è un film su questa terra. Nell'episodio della scuola di cucina a San Francisco sentiamo dire dal cuoco italiano: “la cucina prende tutti i sensi”. Possiamo assumerla come una metafora della vita, che va conosciuta, esplorata (l'assaggio bendato dei cibi), e accettata e vissuta con amore e coraggio. Il tema della comunicazione con l'aldilà fa da catalizzatore nelle nostre vite quotidiane.
Solo in un frangente - quando nella metropolitana il fratello morto fa volar via il berretto a Marcus, facendogli perdere un treno che esploderà (sono gli attentati di Londra) - l'oltretomba influisce sui vivi. I morti vivono una post-vita propria; e semmai sono loro a sentire l'influsso della vita sulla terra in relazione al tema molto eastwoodiano del desiderio di perdono per le proprie colpe (il padre di Melanie). E se George può comunicare con l'aldilà, il suo dono si confonde in mezzo a una marea di ciarlatani, che Eastwood ci fa sfilare davanti in una superba sequenza ironica (che, a proposito di Dickens, sarebbe degna dei “Pickwick Papers”).
In effetti, George, Marie e Marcus rientrano pienamente nel novero degli eroi eastwoodiani, caratterizzati dall'indomabilità e dalla solitudine: la mancanza dell'amore o la separazione dalla persona amata appare come una specie di prova dell'anima - che si traduce alla fine in un nuovo amore per Marie e George, nel ricongiungimento con la madre per Marcus. Alla base di tutto c'è un concetto dal significato molto forte in Eastwood: la scelta e la responsabilità. George non vuole sfruttare commercialmente il suo dono, ma il suo peccato originale è quello di rifiutarlo (in una scena straziante chiude la porta in faccia a una madre che ha perso la figlia); suo fratello sarà un profittatore ma enuncia una verità quando gli dice “E' la tua natura... non la puoi sfuggire per sempre”. La stessa responsabilità per cui Marie sente di dover scrivere il suo libro sull'aldilà anche a costo di rovinarsi la vita. La stessa responsabilità in cui sono cresciuti i due fratelli che si prendono cura della madre.
Per questa via assistiamo a una felice fusione fra la complessità romanzesca “dickensiana” e il modo narrativo classico, onesto e diretto di Eastwood. Clint è un regista classico perché ha mantenuto la capacità di portare nei film la vita vera - lontano tanto dall'ottovolante fantastico del cinema di genere quanto dalla concettosità dei film “d'arte”. Guardate il funerale del fratellino morto, con il drammatico realismo di quel trio di sconfitti in prima fila in chiesa. Guardate l'assaggio bendato dei cibi da parte di George e Melanie, col bellissimo modo in cui il loro dialogo passa dal cibo da identificare alla loro vita personale (e tutta la sequenza seguente che coinvolge la ragazza, Bryce Dallas Howard in un'interpretazione di splendida espressività). La rottura al ristorante fra Marie e un amante sleale a Parigi. Anche la scena preternaturale in cui Marcus tramite George riesce finalmente a mettersi in contatto col fratello morto sa raggiungere una sconvolgente autenticità. Così, non occorre credere ai Campi Elisi che ci attendono dopo la vita per commuoverci davanti a un film di dolorosa bellezza.
martedì 18 gennaio 2011
lunedì 3 gennaio 2011
American Life
Sam Mendes
Burt e Verona aspettano una bambina, e abitano vicino ai genitori di lui per stare vicino ai (leggi: contare sui) futuri nonni. Ma quando scoprono che questi ultimi hanno tutt'altri progetti, i due decidono di andare a vivere in un posto più piacevole. E allora “Away We Go”, ce ne andiamo via, di Sam Mendes, in Italia “American Life” (il vacuo titolo in inglese è un'invenzione di quei geni dei nostri distributori per capitalizzare sul ricordo di “American Beauty”) - cronaca del loro viaggio in varie città dove conoscono qualcuno, con l'idea di scegliere quella dove stabilirsi.
Già nel folle incontro coi genitori di Burt che ghignando di gioia annunciano che vendono la casa e se ne vanno in Europa, vediamo il gelo esistenziale di “American Beauty” e “Revolutionary Road” diventare commedia. C'è in Sam Mendes una componente di humour che ricorre in tutta la sua opera ma cui si pensa poco perché il suo fondo tragico e riflessivo la soverchia. “American Life”, assumendo i toni della comedy pur senza esserlo in senso stretto, la porta in primo piano. E come per qualsiasi umorismo che fa onore al suo nome, esso non si riduce al buffo dell'interazione sociale (o peggio al buffo del potere: la forma più facile di umorismo che si conosca) ma tocca l'esistenza in sé. Basta vedere com'è indicibilmente comica la sequenza d'apertura, col cunnilingo di Burt a Verona e l'immortale ammonizione di lei “Non soffiare!”, dopo di che lui vocifera la sua scoperta che lei è incinta deducendolo dal sapore diverso del suo sesso - e si prende uno sberlone che lo scaraventa giù dal letto. Stacco ellittico e vediamo lei col pancione. Qui vale l'osservazione generale che a rendere buffa la vita altrui non sono le cose in sé, bensì il fatto di essere osservate. Si addice alla commedia, se non alla fisica, la volgarizzazione del principio di indeterminazione di Heisenberg: la presenza dell'osservatore modifica il fenomeno.
Ma torniamo al film. Diviso in capitoli con la didascalia “Away to...”, il peregrinare della coppia ci porta dapprima a Phoenix, da un'amica demente e suo marito depresso (“Non so come mai, non ci ammettono nei migliori circoli del golf”), con due bambini già destinati allo psicoanalista - o alla galera; puro horror familiare sullo sfondo delle corse dei levrieri (facile immaginare che un regista tutt'altro che alieno dal simbolismo come Sam Mendes le prenda come metafora dell'American way of life nel suo senso più cupo). Poi a Tucson, dalla sorella di Verona, con la partecipazione speciale di un'altra madre castratrice nella sala d'attesa dell'aeroporto; e il dialogo con la sorella ci palesa il dolore irrisolto di Verona per la morte improvvisa dei loro genitori, vissuta come un abbandono, tanto che non vuole più rivedere la loro casa (ecco un tema base del film: l'impossibilità di prevedere i dolori della vita). Poi a Madison, con una superba interpretazione, da Oscar, di Maggie Gyllenhaal nelle vesti di hippie in ritardo, e un'esilarante pagina di litigio finale. Quindi a Montreal, dove sembra realizzarsi l'utopia, con due amici felici in una casa piena di bambini adottati di ogni colore – tanto che i nostri due decidono di stabilirsi lì; ma dietro l'utopia spunta il dramma, con la depressione nascosta dell'amica che è sterile. Infine a Miami, dove il fratello di Burt è stato abbandonato dalla moglie con una bambina alla quale non sa come dire la verità. Burt (John Krasinki), occhialuto e barbuto, è il classico cucciolone americano; Verona (Maya Rudolph) è più intelligente, pur con la sua fragilità nascosta, e piuttosto rotta della loro situazione precaria. Mentre a prima vista “American Life” pareva una descrizione della classica coppia che scoppia (per cui prendiamo con beneficio d'inventario, e una cinica alzata di sopracciglio, le ripetute dichiarazioni d'amore dei due - che invece sono verissime), si rivela essere un'enciclopedia satirica, attraverso la formula del road movie, del matrimonio e della paternità/maternità nell'America d'oggi.
In tutto il dialogo del film ritorna come elemento secondario un'attenzione inquisitoria sulla parola: aggettivi da evitare, termini sbagliati, vocaboli spiacevolmente caratterizzanti. Quest'insistenza sulla parola, quasi un tormentone, è in realtà una cosa molto seria; rappresenta la domanda fondamentale: di cosa stiamo parlando?
Perché “American Life” è in ultima analisi un film sulla serietà. Parla della crescita: Burt e Verona entrambi provengono da quella tendenza all'adolescenza eterna che è la caratteristica principale - o forse il grande equivoco - dell'ultimo secolo in Occidente. Parla della necessità di vivere accettando l'idea che le risposte non sono tutte scritte su una pagina rosa, e che il futuro possa portare il disastro e la perdita (questo si riflette simbolicamente nel lavoro di Burt: l'assicuratore).
Così, l'ultima didascalia recita semplicemente “Home”. Siamo nel Deep South; Burt e Verona decidono di andare a vivere nella casa dei genitori morti di lei. L'ultima immagine ce li mostra di schiena seduti, davanti a un fiume che è sicuramente il Mississippi (cui alludeva un dialogo all'inizio: Verona dice a Burt di avere avuto un'infanzia alla Huckleberry Finn). Perché il Mississippi è il padre dell'America; la casa ereditata dai genitori e in senso più metafisico il fiume simboleggiano il ritorno alle radici, l'alternarsi delle generazioni, la continuità - il grande valore che è mancato al secolo – unita all'accettazione dell'esistenza dell'imprevisto e della preziosa fragilità della vita. Sono sentimenti che conosce bene Eastwood, ad esempio: ma Eastwood è un vecchio, che conosce il valore delle cose. Sam Mendes è più giovane ma l'ha capito.
Burt e Verona aspettano una bambina, e abitano vicino ai genitori di lui per stare vicino ai (leggi: contare sui) futuri nonni. Ma quando scoprono che questi ultimi hanno tutt'altri progetti, i due decidono di andare a vivere in un posto più piacevole. E allora “Away We Go”, ce ne andiamo via, di Sam Mendes, in Italia “American Life” (il vacuo titolo in inglese è un'invenzione di quei geni dei nostri distributori per capitalizzare sul ricordo di “American Beauty”) - cronaca del loro viaggio in varie città dove conoscono qualcuno, con l'idea di scegliere quella dove stabilirsi.
Già nel folle incontro coi genitori di Burt che ghignando di gioia annunciano che vendono la casa e se ne vanno in Europa, vediamo il gelo esistenziale di “American Beauty” e “Revolutionary Road” diventare commedia. C'è in Sam Mendes una componente di humour che ricorre in tutta la sua opera ma cui si pensa poco perché il suo fondo tragico e riflessivo la soverchia. “American Life”, assumendo i toni della comedy pur senza esserlo in senso stretto, la porta in primo piano. E come per qualsiasi umorismo che fa onore al suo nome, esso non si riduce al buffo dell'interazione sociale (o peggio al buffo del potere: la forma più facile di umorismo che si conosca) ma tocca l'esistenza in sé. Basta vedere com'è indicibilmente comica la sequenza d'apertura, col cunnilingo di Burt a Verona e l'immortale ammonizione di lei “Non soffiare!”, dopo di che lui vocifera la sua scoperta che lei è incinta deducendolo dal sapore diverso del suo sesso - e si prende uno sberlone che lo scaraventa giù dal letto. Stacco ellittico e vediamo lei col pancione. Qui vale l'osservazione generale che a rendere buffa la vita altrui non sono le cose in sé, bensì il fatto di essere osservate. Si addice alla commedia, se non alla fisica, la volgarizzazione del principio di indeterminazione di Heisenberg: la presenza dell'osservatore modifica il fenomeno.
Ma torniamo al film. Diviso in capitoli con la didascalia “Away to...”, il peregrinare della coppia ci porta dapprima a Phoenix, da un'amica demente e suo marito depresso (“Non so come mai, non ci ammettono nei migliori circoli del golf”), con due bambini già destinati allo psicoanalista - o alla galera; puro horror familiare sullo sfondo delle corse dei levrieri (facile immaginare che un regista tutt'altro che alieno dal simbolismo come Sam Mendes le prenda come metafora dell'American way of life nel suo senso più cupo). Poi a Tucson, dalla sorella di Verona, con la partecipazione speciale di un'altra madre castratrice nella sala d'attesa dell'aeroporto; e il dialogo con la sorella ci palesa il dolore irrisolto di Verona per la morte improvvisa dei loro genitori, vissuta come un abbandono, tanto che non vuole più rivedere la loro casa (ecco un tema base del film: l'impossibilità di prevedere i dolori della vita). Poi a Madison, con una superba interpretazione, da Oscar, di Maggie Gyllenhaal nelle vesti di hippie in ritardo, e un'esilarante pagina di litigio finale. Quindi a Montreal, dove sembra realizzarsi l'utopia, con due amici felici in una casa piena di bambini adottati di ogni colore – tanto che i nostri due decidono di stabilirsi lì; ma dietro l'utopia spunta il dramma, con la depressione nascosta dell'amica che è sterile. Infine a Miami, dove il fratello di Burt è stato abbandonato dalla moglie con una bambina alla quale non sa come dire la verità. Burt (John Krasinki), occhialuto e barbuto, è il classico cucciolone americano; Verona (Maya Rudolph) è più intelligente, pur con la sua fragilità nascosta, e piuttosto rotta della loro situazione precaria. Mentre a prima vista “American Life” pareva una descrizione della classica coppia che scoppia (per cui prendiamo con beneficio d'inventario, e una cinica alzata di sopracciglio, le ripetute dichiarazioni d'amore dei due - che invece sono verissime), si rivela essere un'enciclopedia satirica, attraverso la formula del road movie, del matrimonio e della paternità/maternità nell'America d'oggi.
In tutto il dialogo del film ritorna come elemento secondario un'attenzione inquisitoria sulla parola: aggettivi da evitare, termini sbagliati, vocaboli spiacevolmente caratterizzanti. Quest'insistenza sulla parola, quasi un tormentone, è in realtà una cosa molto seria; rappresenta la domanda fondamentale: di cosa stiamo parlando?
Perché “American Life” è in ultima analisi un film sulla serietà. Parla della crescita: Burt e Verona entrambi provengono da quella tendenza all'adolescenza eterna che è la caratteristica principale - o forse il grande equivoco - dell'ultimo secolo in Occidente. Parla della necessità di vivere accettando l'idea che le risposte non sono tutte scritte su una pagina rosa, e che il futuro possa portare il disastro e la perdita (questo si riflette simbolicamente nel lavoro di Burt: l'assicuratore).
Così, l'ultima didascalia recita semplicemente “Home”. Siamo nel Deep South; Burt e Verona decidono di andare a vivere nella casa dei genitori morti di lei. L'ultima immagine ce li mostra di schiena seduti, davanti a un fiume che è sicuramente il Mississippi (cui alludeva un dialogo all'inizio: Verona dice a Burt di avere avuto un'infanzia alla Huckleberry Finn). Perché il Mississippi è il padre dell'America; la casa ereditata dai genitori e in senso più metafisico il fiume simboleggiano il ritorno alle radici, l'alternarsi delle generazioni, la continuità - il grande valore che è mancato al secolo – unita all'accettazione dell'esistenza dell'imprevisto e della preziosa fragilità della vita. Sono sentimenti che conosce bene Eastwood, ad esempio: ma Eastwood è un vecchio, che conosce il valore delle cose. Sam Mendes è più giovane ma l'ha capito.
The Tourist
Florian von Donnersmarck
Decisamente Florian von Donnersmarck non ama la polizia. Il che è alquanto comprensibile per un regista che, nato a Colonia, è vissuto a contatto di gomito con la mostruosità totalitaria della Germania Est, e che ha diretto il suo film principale, “Le vite degli altri”, proprio su quel regime: sulla sua ossessione del controllo sui cittadini e su come i farabutti al potere ne abusavano a scopo privato. Così l'aspetto più interessante di “The Tourist” - e l'unico in cui questo film hollywoodiano del regista tedesco si può connettere labilmente all'altro - sta in una buona dose di antipatia per i poliziotti in genere e di ironia sulle loro pratiche di sorveglianza. Forzando un po', potremmo dire che quel controllo poliziesco che era tragedia ne “Le vite degli altri” si trasforma in commedia giallo-rosa in “The Tourist”. Qui dunque il concetto va oltre il contesto dello stato totalitario e si avvicina piuttosto, si parva licet componere magnis, a quella paura della polizia che attraversa tutta l'opera di Hitchcock.
Vedi l'odioso poliziotto carrierista e crudele interpretato da Paul Bettany, che nella Stasi della Germania Est ci sarebbe stato benissimo; ma anche il paterno e gentile commissario italiano Christian De Sica, che non vede l'ora di rivendere Johnny Depp ai gangster che lo cercano. Vedi come nella bella sequenza d'apertura i poliziotti francesi che con gran pompa di tecnologia nascosta nel loro furgone sorvegliano Angelina Jolie a Parigi si facciano fregare bellamente, e finiscano per arrestare un povero cristo di passaggio. L'unico poliziotto a far bella figura è Timothy Dalton, che appare come deus ex machina giusto in tempo per evitare ai due protagonisti di fare una brutta fine.
Pur avendo a disposizione tutte le possibilità offerte da una trama complessa (e amabilmente silly), “The Tourist” è un film alquanto fiacco. In verità non si può dire che ci si annoi; la sua ora e quaranta passa senza dover guardar l'orologio ogni cinque minuti, anche grazie a una buona figura di cattivissimo nella persona di Steven Berkoff (il super-gangster che perseguita Jolie e Depp in concorrenza con la polizia). E in fondo, un inseguimento in motoscafo lungo i canali di Venezia non si butta mai via. D'accordo, è una Venezia - oltre che topograficamente reinventata - sfacciatamente turistica, l'hanno detto tutti, ma cosa vi aspettate da un film che si chiama “The Tourist”?
D'altro canto, il film rimane sempre sottotono rispetto alle sue possibilità. Von Donnersmarck non riesce a dargli vivacità; lo svolge come un compito con teutonica gravezza. Anche la sceneggiatura tende a volare basso. Per esempio: l'idillio vero-falso fra Jolie e Depp ha all'attivo un buon dialogo (le “lezioni di vita” della prima al secondo meritavano di apparire in un film migliore) ma resta frigido. Altro esempio: è chiaro che il viscido Paul Bettany è sessualmente attratto da Angelina e invidioso a morte del misterioso amante di lei, cui dà la caccia; ma questa situazione sadica resta fra le righe (cosa ne avrebbe tratto, non dico il vecchio Hitch, ma qualunque buon regista della Hollywood di ieri!).
Se pure uno si annoiasse, comunque, si divertirebbe lo stesso solo a guardare Angelina Jolie o Johnny Depp, a scelta, in tutta la loro bellezza. Dico bellezza perché in questo film non offrono granché d'altro. Depp, che non attraversa un grande periodo, è irreparabilmente bietolone. Angelina Jolie oltre che bella è brava, ma condannata a una rigidità imprevedibile per la nostra miglior diva d'azione. Il regista e il suo direttore della fotografia John Seale inseriscono diverse inquadrature di pura esaltazione della sua bellezza, ma assai statiche. Così lei recita con gli occhi - al punto che nel film lascia l'impressione di due occhi che camminano.
I numi che sovrintendono a “The Tourist” sono Alfred Hitchcok, Stanley Donen (“Sciarada”), Richard Quine e via dicendo. Così, si potrebbe ipotizzare l'avvio di una nuova tendenza al thriller romantico, che instilla nel corpo dell'action una non celata nostalgia hitchcockiana - tendenza rappresentata quest'anno dal presente film come dal migliore, e sottovalutato, “Innocenti bugie” di James Mangold. E possiamo far riferimento a quest'ultimo per avere un'idea di quello che “The Tourist” poteva essere e non è.
Decisamente Florian von Donnersmarck non ama la polizia. Il che è alquanto comprensibile per un regista che, nato a Colonia, è vissuto a contatto di gomito con la mostruosità totalitaria della Germania Est, e che ha diretto il suo film principale, “Le vite degli altri”, proprio su quel regime: sulla sua ossessione del controllo sui cittadini e su come i farabutti al potere ne abusavano a scopo privato. Così l'aspetto più interessante di “The Tourist” - e l'unico in cui questo film hollywoodiano del regista tedesco si può connettere labilmente all'altro - sta in una buona dose di antipatia per i poliziotti in genere e di ironia sulle loro pratiche di sorveglianza. Forzando un po', potremmo dire che quel controllo poliziesco che era tragedia ne “Le vite degli altri” si trasforma in commedia giallo-rosa in “The Tourist”. Qui dunque il concetto va oltre il contesto dello stato totalitario e si avvicina piuttosto, si parva licet componere magnis, a quella paura della polizia che attraversa tutta l'opera di Hitchcock.
Vedi l'odioso poliziotto carrierista e crudele interpretato da Paul Bettany, che nella Stasi della Germania Est ci sarebbe stato benissimo; ma anche il paterno e gentile commissario italiano Christian De Sica, che non vede l'ora di rivendere Johnny Depp ai gangster che lo cercano. Vedi come nella bella sequenza d'apertura i poliziotti francesi che con gran pompa di tecnologia nascosta nel loro furgone sorvegliano Angelina Jolie a Parigi si facciano fregare bellamente, e finiscano per arrestare un povero cristo di passaggio. L'unico poliziotto a far bella figura è Timothy Dalton, che appare come deus ex machina giusto in tempo per evitare ai due protagonisti di fare una brutta fine.
Pur avendo a disposizione tutte le possibilità offerte da una trama complessa (e amabilmente silly), “The Tourist” è un film alquanto fiacco. In verità non si può dire che ci si annoi; la sua ora e quaranta passa senza dover guardar l'orologio ogni cinque minuti, anche grazie a una buona figura di cattivissimo nella persona di Steven Berkoff (il super-gangster che perseguita Jolie e Depp in concorrenza con la polizia). E in fondo, un inseguimento in motoscafo lungo i canali di Venezia non si butta mai via. D'accordo, è una Venezia - oltre che topograficamente reinventata - sfacciatamente turistica, l'hanno detto tutti, ma cosa vi aspettate da un film che si chiama “The Tourist”?
D'altro canto, il film rimane sempre sottotono rispetto alle sue possibilità. Von Donnersmarck non riesce a dargli vivacità; lo svolge come un compito con teutonica gravezza. Anche la sceneggiatura tende a volare basso. Per esempio: l'idillio vero-falso fra Jolie e Depp ha all'attivo un buon dialogo (le “lezioni di vita” della prima al secondo meritavano di apparire in un film migliore) ma resta frigido. Altro esempio: è chiaro che il viscido Paul Bettany è sessualmente attratto da Angelina e invidioso a morte del misterioso amante di lei, cui dà la caccia; ma questa situazione sadica resta fra le righe (cosa ne avrebbe tratto, non dico il vecchio Hitch, ma qualunque buon regista della Hollywood di ieri!).
Se pure uno si annoiasse, comunque, si divertirebbe lo stesso solo a guardare Angelina Jolie o Johnny Depp, a scelta, in tutta la loro bellezza. Dico bellezza perché in questo film non offrono granché d'altro. Depp, che non attraversa un grande periodo, è irreparabilmente bietolone. Angelina Jolie oltre che bella è brava, ma condannata a una rigidità imprevedibile per la nostra miglior diva d'azione. Il regista e il suo direttore della fotografia John Seale inseriscono diverse inquadrature di pura esaltazione della sua bellezza, ma assai statiche. Così lei recita con gli occhi - al punto che nel film lascia l'impressione di due occhi che camminano.
I numi che sovrintendono a “The Tourist” sono Alfred Hitchcok, Stanley Donen (“Sciarada”), Richard Quine e via dicendo. Così, si potrebbe ipotizzare l'avvio di una nuova tendenza al thriller romantico, che instilla nel corpo dell'action una non celata nostalgia hitchcockiana - tendenza rappresentata quest'anno dal presente film come dal migliore, e sottovalutato, “Innocenti bugie” di James Mangold. E possiamo far riferimento a quest'ultimo per avere un'idea di quello che “The Tourist” poteva essere e non è.
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