lunedì 20 marzo 2023

Disco Boy

Giacomo Abbruzzese

Dopo l'immagine di apertura su un gruppo di neri che dormono accatastati, Disco Boy di Giacomo Abbruzzese (vincitore di un Orso d’Argento a Berlino) ci porta al racconto di un tentativo di passare clandestinamente dalla Bielorussia via via fino in Francia. Apparentemente è un inizio realistico, ma la narrazione ultrasintetica tende a trasportarlo sul piano poetico; volutamente ellittico, per non dire slegato, sempre più mentre procede il film si situa sul versante onirico e simbolico. Il giovane Aleksei (Alex), che ha un tatuaggio che significa “orfano”, vede morire in un fiume che potrebbe essere l’Oder l’amico con cui tentava il passaggio; arrivato in Francia si arruola nella Legione Straniera, mirando alla cittadinanza promessa entro alcuni anni di servizio. La sua storia si incrocia con quella di Jomo, guerrigliero in Nigeria che si batte contro le compagnie petrolifere occidentali, e di sua sorella (i due hanno la particolarità di un occhio color ambra); Jomo dice a un compagno che se fosse nato bianco avrebbe voluto fare il ballerino in una discoteca. Dapprima è una narrazione parallela, poi arriva un combattimento in un fiume (i fiumi sono un elemento ritornante del film: l’Oder, la Senna, il Niger), in cui Alex uccide Jomo. Molto bella qui l'idea del regista di usare una telecamera a infrarossi, che trasforma i corpi in macchie di colore. 
Ritmato dalla musica di Vitalic, Disco Boy è un film di immagini ritornanti e di raddoppiamenti. Non solo la ragazza (che potrebbe esser morta: lo sguardo malaugurante di un militare nigeriano nel villaggio in fiamme) sembra riapparire in una discoteca parigina, sconvolgendo Alex; ma anche Jomo, che proprio lui ha ucciso e sepolto, ritorna, fino a una fusione fra i due, segnalata dall’occhio color ambra. In verità nella seconda parte, costellata di citazioni (Coppola, Kubrick, Winding Refn), il film tende a perdersi; sono più belle le immagini di quanto sia rigorosa la costruzione narrativa. Un film imperfetto, ma che nella sua apertura simbolica raggiunge un interesse che manca ad altri lavori narrativamente più rifiniti.

domenica 5 marzo 2023

Benedetta

Paul Verhoeven

Dopo L’amore e il sangue del 1985, Paul Verhoeven torna agli inizi dell’era moderna con lo splendido Benedetta, che esce finalmente in Italia dopo due anni. Il film, liberamente ispirato a una storia vera, è tratto da Atti impuri. Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento di Judith C. Brown.
La protagonista è un’altra delle grandi personalità femminili che popolano il cinema di Verhoeven. Nella Toscana del Seicento, Benedetta Carlini (Virginie Efira), entrata fin da piccola nel convento di Pescia, ha visioni di un Cristo molto carnale, che la reclama come sua sposa: visioni allucinatorie assai lontane dall’iconografia cattolica (in una è un cavaliere armato che uccide un gruppo di stupratori). Benedetta ha le stimmate – “Gesù mi ha fatto questo!” – ma forse sono simulazione con ferite autoinflitte. Talvolta parla con la voce maschile di Gesù stesso, in una possessione mistica. Il film mette in risalto il principio teatrale della rappresentazione, adombrato nelle sacre rappresentazioni in convento, dove per forza di cosa anche Gesù è interpretato da una femmina, e il modo in cui la centralità del corpo, propria di tutto il cinema di Verhoeven, si scontra con l’auto-repressione (la suora che vorrebbe esser fatta tutta di legno).
L’ambizioso prevosto della cittadina punta sul miracolo, e in accordo col sacerdote del convento la fa nominare nuova badessa. Benedetta, narcisista con una vena di crudeltà, gioisce della nuova posizione. Intrattiene un rapporto d’amore lesbico con la giovane conversa Bartolomea (Daphne Patakia); scoprendolo, la ex badessa (Charlotte Rampling) la denuncia alle autorità religiose nella persona del Nunzio (Lambert Wilson), che incontra in una Firenze invasa dalla peste.
A uno sguardo superficiale il film può far pensare per il suo realismo visionario a I diavoli di Ken Russell. Ma Russell è razionalista e volterriano, mentre Verhoerven è un regista dell’ambiguità – sia del personaggio sia del racconto (basta pensare a Basic Instinct); e in Benedetta l’ambiguità è profonda. Chi è Benedetta? E’ solo una simulatrice a proprio vantaggio? Una psicopatica? O “aiuta” coi trucchi una propria convinzione (molto eterodossa) di santità? Oppure forse…? Come ci informa l’ultima didascalia, una profezia fatta per evidente autodifesa (Pescia non sarà colpita dalla peste finché lei sarà viva) si avvera. Non per nulla, quello di Benedetta da bambina che vediamo all’inizio può essere un miracolo: un piccolo miracolo semplice, rosselliniano. Il film ci lascia nel dubbio sui fatti e sulla psicologia.
Del resto, il Seicento è il secolo principe di un misto di religiosità estatica, possessione demoniaca, simulazione, isteria e santità – di cui è perfetta rappresentante la suor Jeanne des Anges, badessa di Loudun, de I diavoli, e prima, del bellissimo film polacco Madre Giovanna degli Angeli di Jerzy Kawalerowicz (ma, a proposito di misticismo isterico, viene menzionata di passaggio anche Giovanna d’Arco). Mentre l’oggetto-simbolo dello scandalo del rapporto erotico fra Benedetta e Bartolomea – o della commistione di sacro e profano in un’estasi sessuale pagana – è il dildo di legno fabbricato con la parte inferiore di una statuetta lignea della Madonna, che ci riporta a Walerian Borowczyk (e a tutto un filone di erotismo conventuale).
Cineasta dell’eros e della violenza, oltre che dell'illusione e dell'inganno, Verhoeven è un regista di carne e sangue (Flesh+Blood è il titolo originale de L’amore e il sangue) che va sempre in fondo a ciò che narra. Di qui mille problemi con le varie censure (c’entra anche l’uscita in ritardo di Benedetta). In questo film, la lussuria e l’amore, la religione e l’eresia, l’estasi e l’isterismo, l’inganno, le tensioni psicologiche e i giochi politici dentro e fuori il convento, la gerarchia maschile e l’affermazione femminile, la rivendicazione dell’amore e della sessualità, la presenza orrifica della peste, annunciata da una meteora nel cielo rosso, tutto questo si fonde in una narrazione estremista e potente.


lunedì 13 febbraio 2023

Il primo giorno della mia vita

Paolo Genovese

Come tutti sanno, ne La vita è meravigliosa di Frank Capra (1946) James Stewart vuole uccidersi ma è visitato da un “angelo di seconda classe” che per salvarlo gli mostra come sarebbe stata peggiore la vita nella sua città senza di lui. Non tutti sanno che ciò fu parodiato nell’ultima puntata di Dallas (1991), in cui il cattivissimo J.R., nella stessa situazione, riceve la visita di un demoniaco Joel Grey.
Ne Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese il concetto è che quando stiamo per suicidarci compare un personaggio (il bravo Toni Servillo) che ci offre sette giorni di riflessione, sospesi in una dimensione fra la vita e la morte in cui siamo invisibili a tutti. Qui i “clienti” di Servillo sono quattro: una poliziotta disperata per la morte della figlia (Margherita Buy), una ex ginnasta paralizzata (Sara Serraiocco), un bambino sfruttato da genitori ripugnanti come figura di culto sul web in qualità di mangione (Gabriele Cristini) e un “motivatore” in depressione (Valerio Mastandrea), che invero ha meno motivi degli altri per uccidersi ma non molla.
Se la sceneggiatura è prevedibile, e francamente la sorpresa maggiore del film è assai forzata, la regia di Genovese (il cui Perfetti sconosciuti ha il record di essere il film italiano di cui sono stati fatti più remake nel mondo) è adeguata. Solo a tratti però si perviene alla commozione preventivata. Molto buono il montaggio di Consuelo Catucci, con le sue veloci successioni di primissimi piani nei dialoghi; e buona la cupa fotografia di Fabrizio Lucci. Margherita Buy è convincente nel suo ruolo, mentre Mastandrea fa il possibile per tirar fuori qualcosa da un personaggio debole (e telegrafato). Parlando in generale, a volte si desidera la presenza sul set, più che di un angelo, di un insegnante di dizione.

sabato 11 febbraio 2023

Tár

Todd Field

Chi ama la musica classica, e non i trapper, non può che amare il notevole Tár di Todd Field, interpretato da una grande Cate Blanchett, che si è meritata la Coppa Volpi a Venezia e ora una candidatura all’Oscar. Questo dramma psicologico su una direttrice d'orchestra ci porta dentro la comprensione della musica attraverso una domanda: che cosa significa dirigere un pezzo? Com’è che Mahler o Beethoven escono dalla partitura e diventano vivi nell’interpretazione? Su questo terreno il film è illuminante, a piccoli tocchi, fra cui una magnifica micro-lezione su Bach che la protagonista impartisce senza gentilezza a un odioso ragazzino fanatico che rappresenta tutto l’orrore della cultura woke. Le prove d’orchestra sono la continua ricerca della perfezione. Delizioso il “Vergessen Sie Visconti, ok?” (“Dimenticatevi di Visconti”) che Tár rivolge all’orchestra provando Mahler. Parimenti Tár ci porta dentro la politica delle grandi orchestre, terreno di scontro sia come gestione sia come motivi personali.
Arrogante e geniale, dotata di un umorismo sarcastico, Lydia Tár è una direttrice d’orchestra, lesbica e sposata con una donna che è il primo violino nella sua orchestra a Berlino. Hanno una bambina, che viene bullizzata a scuola e Tár risolve la questione con una gelida minaccia alla bulla. Per l’acutezza delle sue opinioni, per il modo vigoroso di esprimerle e anche per il carattere outspoken Tár fa pensare a un altro genio femminile omosessuale, non immaginaria questa: Camille Paglia.
Da una posizione di fama mondiale, Tár cade rovinosamente, perdendo anche la famiglia, quando viene accusata di essere una predatrice sessuale e di avere stroncato la carriera a una musicista morta suicida. Il film è un apologo sulla fragilità del potere nella nostra epoca, che non dipende dalla posizione conquistata ma va negoziato continuamente con i media. La caduta di Tár comincia con un fake (un video preso con l’Iphone e artatamente rimontato) – e poi su di lei si scatenano attivisti e metooiste. “Al giorno d’oggi essere accusati significa essere colpevoli”, sentiamo nel film.
Certamente Lydia Tár ha in sé un lato oscuro. Si spinge solo fino al favoritismo nelle scelte (peraltro in sé oculate), o arriva alla persecuzione? Imbroglia le carte per imporre nel concerto per violoncello e orchestra di Elgar una violoncellista che le piace (nella prima apparizione vediamo solo i suoi piedi scendere le scale, risuonando ominously come le note iniziali della Quinta – e poi, ellissi). Poi però si è studiata un concerto di lei in videocassetta, e la ragazza è bravissima.
Fino a che punto Tár abusi del suo potere, il film lo lascia alla decisione dello spettatore, bilanciando imparzialmente l’autodifesa di Tár e le accuse che la travolgono – non per opportunismo (sarebbe stato più facile fare una sviolinata al MeToo) ma perché il personaggio è tridimensionale. C’è un’ambiguità di fondo negli esseri umani – e quindi nei personaggi artisticamente riusciti – che rende difficile, e in arte affascinante, scrutarci dentro e giudicare. Peraltro esiste anche il tema generale della non coincidenza fra l’arte e la persona, che qui, sebbene non portato in primo piano, rimane implicito. Quel ch’è certo è che questo personaggio formidabile ci appare nel corso del film come un’adulta in un mondo di bambocci.
Sotto la narrazione corre una riflessione continua sul suono (reali o immaginari quelli che sente a volte Tár?) all'interno della grande esposizione sulla musica. C’è in Tár una capacità di messa in scena elegante, di narrazione in piccoli episodi netti e pensosi, che ricorda il cinema di altri tempi. Il racconto è libero, ellittico, con sospensioni narrative e dettagli appena accennati (solo nella parte finale diventa alquanto sbrigativo); questo è un film che stabilisce le proprie regole e non fa compromessi – del resto Field è stato allievo di Stanley Kubrick ai tempi del suo primo film – un po’ come la sua protagonista. Nell’epoca del cinema pappa-in-bocca per lo spettatore, Tár è un film profondamente adulto.

venerdì 3 febbraio 2023

Io vivo altrove!

Giuseppe Battiston

Viva la campagna”, cantava cinquant’anni fa Nino Ferrer – ma è dubbio che questo sentimento bastasse a renderlo un bravo coltivatore. Lo stesso vale per i due Fausto di Io vivo altrove! di Giuseppe Battiston. Fausto Biasutti (Battiston) è un bibliotecario passabilmente frustrato: “La trama è fiacca, lo sguardo è povero” sono le prime parole che sentiamo nel film – ed è un inizio ironicamente apotropaico. Fa amicizia con Fausto Perbellini (Rolando Ravello), un fotografo dilettante (le sue foto, che vediamo alla fine, sono belle, e sono in realtà di Emilia Mazzacurati); alla sua età non verdissima questi vive ancora con la madre, ma lei vuole togliergli il laboratorio di sviluppo nel bagno per farne la sauna desiderata dal suo compagno (dal tempo dei bamboccioni la satira è passata a quello delle âgées immortali). Colpo di fortuna, Fausto B. eredita dalla nonna una proprietà in Friuli e coglie l’opportunità di mollare tutto, coinvolgendo Faust P. in un progetto di vita autosufficiente in campagna coltivando mirtilli.
Con Bouvard e Pécuchet Flaubert ha costruito una gigantesca epopea nichilista della stupidità umana e dell’illusione enciclopedica; dove l'ostinazione dei due protagonisti diventa una via crucis di entusiasmi e cadute sotto la lente di un umorismo spietato e misantropico che in certi punti sembra anticipare Morte a credito di Céline. Del romanzo di Flaubert Giuseppe Battiston riprende la prima parte per il suo esordio di regista, ma con un rovesciamento di prospettiva. Mentre lo sguardo di Flaubert è verticale, dall’alto, come si conviene a una satira impietosa, lo sguardo di Battiston – anche sceneggiatore con Marco Pettenello – è orizzontale: umano, alla pari, di adesione; il suo umorismo non è crudele. Il simbolo del film e dei suoi due protagonisti è il mirtillo, che sentiamo definire all’inizio “pianta acidofila ma caparbia”. Io vivo altrove! è un encomio e quasi un’elegia della caparbietà.
Non è che Fabio B. sia proprio popolare in paese (“Va via, mona!”), e l’incidente con la birra fabbricata non fa nulla per aumentare l’apprezzamento dei due. Intanto la terribile signora Gina (una grande Ariella Reggio) li guata dalla casa confinante, borbottando “Imbecilli”, ed è sempre pronta a comprare i pezzi di terra che i due sono costretti a vendersi. Una lunga serie di pasti francescani di insalata punteggia il film, mentre si fronteggiano i disastri dell'entusiasmo e la durezza della realtà: vediamo Fausto B. che strappa l’erba a mano, poi passa al falcetto, poi passa alla falce – e poi un’inquadratura col drone mostra il misero cerchio di terra liberata in un campo enorme. Fallimento dopo fallimento, chimera dopo chimera, i due tirano avanti ostinatamente, autoilludendosi e congratulandosi a vicenda, sempre inappuntabili sul piano formale, sempre dandosi del lei con un rispetto formale ottocentesco (o giapponese). Ma nella luce fredda della sconfitta finale, stanno per mollare tutto. “Qui i mirtilli non crescono”, sibila la signora Gina. Viso drammatico di Battiston – e poi l'imprevisto “Non ce ne andiamo”.
Di solito un regista al suo esordio dice troppo, c’è una difficoltà ad asciugare e tagliare. In questo caso si direbbe che Battiston abbia preferito l’opposto – alcuni passi del film lasciano l’impressione di essere stati asciugati troppo. Per esempio, uno dei momenti migliori, quando sull’onda emotiva di una canzone diegetica che passa da suono off a over vediamo la sera degli abitanti del paese, compresa la Gina che mette fuori il suo gatto, e avrebbe potuto essere allungato diventando uno squarcio psicologico-lirico.
Giuseppe Battiston ha una carriera teatrale ricca e intensa, nella quale per esempio è stato Welles e Churchill, o un grande Macbeth in una splendida messa in scena di Andrea De Rosa accanto a Frédérique Loliée, e attualmente Dovlatov. Non sempre, con alcune notevoli eccezioni, ma più d’una volta il cinema lo ha impiegato in modo un po’ facile, con una minore ampiezza interpretativa. In questo suo primo film da regista l’ampiezza si ritrova; il viso è aperto, cordiale, c’è un elemento di ingenuità nella voce, più chiara (inteso non come pronuncia ma come colore); e la rivelazione finale della sua tragedia, in una carrellata fra le tombe, illumina retrospettivamente le sue lettere alla figlia e quella seconda pianta-simbolo che è la “calendula greca”. C’è una gentilezza in questo film.

sabato 28 gennaio 2023

Babylon

Damien Chazelle

All’inizio di Babylon, subito prima della lunga sequenza del party-orgia, il personaggio di Diego Calva viene investito da un diluvio di sterco d’elefante. Ciò apre un film dove dominano secrezioni e liquami; in 189 minuti Damien Chazelle, regista e sceneggiatore, vuole mostrare “Di che lagrime grondi e di che sangue” (usando altro materiale che le lacrime) il mondo del cinema hollywoodiano nei tempi frenetici del muto e del doloroso passaggio al sonoro. E’ il racconto di una caduta; non per nulla, a fianco di cento film con cui Hollywood ha criticato se stessa, un importante riferimento sotteso – esplicitato nel finale – è Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen e Gene Kelly.
Come in ogni film d’ambientazione storica, c’è un po’ di name-dropping, alcuni personaggi autentici, e altri più o meno allusivi (del resto, compare un grosso produttore che ha una sospetta somiglianza con Harvey Weinstein); in questo senso è quasi un film à clef. Naturalmente la ragazza che vediamo all’inizio col ciccione “Piggy” e che muore rimanda al caso Fatty/Virginia Rappe che stroncò la carriera di Fatty Arbuckle (il quale in realtà era innocente, secondo la testimonianza di Buster Keaton e la ricostruzione ne Il giorno che smettemmo di ridere di David Yallop). Ispirato alle pagine divertenti ma alquanto fantasiose di Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, Babylon manca sovente di accuratezza nella ricostruzione storica – e di accuratezza filologica nei suoi brani di film immaginari. Salvo errore, quando Margot Robbie va a vedere il suo film non si sente accompagnamento musicale dal vivo; inoltre la scena che vediamo è virata, poco credibilmente, in rosso (un giallo o un azzurro tenue sarebbero stato più appropriati). Anche nella bella carrellata iniziale sul lavori sul set, il film confonde le condizioni di realizzazione del 1926 con quelle del 1906. Le orge, poi, non mancavano, ma non erano proprio un affollamento assiro-babilonese come quella che vediamo nel film (magari! Da prendere la macchina del tempo). Tuttavia, è importante ricordare che, un po’ come Esterno notte di Bellocchio, Babylon è una rielaborazione artistica e non un saggio storico (anche se poi è inevitabile che molti spettatori li prendano come vangelo).
Se guardiamo solo alla sceneggiatura, Babylon è banale: appare articolato ma a esaminarle da vicino le psicologie, e gli accadimenti che ne derivano, sono fittizie, cartapesta: gato por lievre, come dicono in Spagna. Si muove tra la prevedibilità e la forzatura (vedi l’episodio dei dollari falsi); sembra una commedia satirica raccontata con mortale serietà. Lo sorreggono le buone interpretazioni (Diego Calva, Brad Pitt, Li Jun Li, Tobey Maguire in una bella parte di gangster, ma eccelle in particolare Margot Robbie).
Peraltro, Babylon ha un'energia di messa in scena che almeno in parte compensa la banalità di sceneggiatura. C’è qualcosa di scomposto e di sgraziato, ma Damien Chazelle è un regista dell’eccesso: sia interno che esterno al plot. Si ha l’impressione che il suo desiderio segreto sia di essere, più che un Cecil B. DeMille, una sorta di Erich von Stroheim postmoderno. E’ innamorato dell'onnipotenza del regista, più che del cinema in sé; ma gli manca quella dote di autodisciplina artistica che posseggono anche grandi registi barocchi e debordanti come von Stroheim. In definitiva, alla base del cinema di Chazelle non c’è il romanzo bensì il musical (forse anche per questo il suo film ha un andamento “a episodi”).
Talvolta Chazelle è francamente deludente. Per esempio, in un passaggio concepito per essere drammatico Margot Robbie deve vomitare addosso a un uomo in una festa elegante; lo fa con un getto enorme e diretto come se fossimo ne L'esorcista: con inevitabile effetto di anticlimax. Oppure vedi l’episodio del sughero bruciato, che segna l'allontanamento da Hollywood dell’importante personaggio di Jovan Adepo: si capisce che Chazelle voglia introdurre una polemica contemporanea come quella sul blackface, ma il modo distratto in cui lo fa (il trucco grezzo del personaggio) è ridicolo.
Altre volte, però, la messa in scena esorbitante riesce a ottenere un effetto quasi ipnotico: l’orgia iniziale, la finta battaglia davanti alla macchina da presa (che è volutamente gemella della precedente), l’episodio del serpente a sonagli; o quando Chazelle ci porta in una Los Angeles di puro horror neo-noir memore di James Ellroy e della Dalia Nera. Vi sono buoni tocchi, come quando Margot Robbie esce di scena in modo metacinematografico; o il finale elegiaco sul potere del cinema. Perché Babylon si gioca su due poli: la critica a Hollywood, luogo di corruzione e di irresponsabilità, e l’esaltazione del potere del cinema (anche hollywoodiano) di materializzare i sogni – e di dare l’immortalità, come in un bel dialogo dice a Brad Pitt la giornalista Jean Smart. Questa contraddizione poteva essere artisticamente produttiva, ma si ha l’impressione che il film non la risolva, e i due poli restano non conciliati.

sabato 14 gennaio 2023

Un bel mattino

Mia Hansen-Løve

Scriveva François Truffaut nel 1957: “Il film di domani lo vedo dunque ancora più personale di un romanzo, individuale e autobiografico come una confessione o come un racconto intimo. I giovani cineasti si esprimeranno in prima persona e ci racconteranno le loro storie” (citato nel bellissimo libro di Alberto Crespi Short Cuts. Il cinema in 12 storie, Laterza 2022). Non è andata esattamente così; ma Un bel mattino di Mia Hansen-Løve ci si avvicina molto. La regista francese ha sempre portato molto di autobiografico nel suo cinema; Un beau matin – dove la giovane vedova Sandra (Léa Seydoux) e i suoi familiari fanno i conti con il tragico declinare del padre Georg (Pascal Greggory) in preda a una malattia neurovegetativa che gli sta portando via corpo e mente – adombra la vicenda di Ole Hansen-Løve, il vero padre della regista. Il potente brano poetico-filosofico “Ballata della malattia rara” che sentiamo recitare dalla voce over di Pascal Greggory sulle immagini di Sandra viene dai taccuini di Ole Hansen-Løve, come viene dai suoi taccuini il titolo prospettivo in tedesco di un’autobiografia non scritta, An einem schönen Morgen, che è il titolo del film. E anche la nonna della regista compare in una scena.
Il film di Mia Hansen-Løve è lieve e sentito (decisamente migliore del precedente Sull’isola di Bergman). Lieve non per l’argomento – anzi, questo film trasmette in pieno il dolore della vita – ma per il tocco. E’ un film antipsicologico che registra gli avvenimenti restando attaccato alla protagonista (bravissima Léa Seydoux) nel suo rapporto con la malattia del padre (commovente la pagina sulla sua biblioteca che viene regalata) e il sistema sanitario da un lato, e dall’altro la famiglia, la figlia bambina e l’amante Clément (Melvil Poupaud), con il quale il rapporto è molto passionale ma tutt'altro che facile, poiché lui è sposato. E’, quella dello spettatore nel film, una sorta di intromissione non invasiva, un comme si vous y etiez, con benevola oggettività. Nota che, poiché Sandra fa la traduttrice simultanea, un tocco delizioso del film è che, quando la vediamo in azione nel suo lavoro, si scopre, come un inner joke metanarrativo, un intelligente collegamento simbolico fra quel singolo passaggio di traduzione e il contesto della vita di Sandra in quel momento.
L’adesione simpatetica non esclude un elemento di ironia un po’ alla Claire Brétecher nella figura della madre divorziata (Nicole Garcia) che alla sua età non più verde si unisce a gruppi di eco-vandali stile Last Generation. Deliziosamente perfido il racconto di quando la polizia l’ha trattenuta per quattro ore e poi l’ha lasciata andare: “Si sono impietositi”. Ma traspare un’ironia più sottile, molto femminile, nel modo in cui l’amante Clément viene presentato all’inizio della relazione come il classico uomo dei sogni, esotismo compreso (il racconto sulla foca leopardo, che infatti Sandra si sogna la stessa notte!).
Il film ruota attorno alle figure di Sandra e del padre (Pascal Greggory gareggia con Léa Seydoux per la bellissima interpretazione). Ma anche un altro personaggio bisogna nominare, la figlia bambina Linn (la piccola Camille Leban Martins). Linn, un carattere forte corazzato nell’egocentrismo naturale dei bambini, più che dalla malattia del nonno è colpita dalla nuova relazione della madre, che scopre a letto con Clément. Ma non segue una reazione isterica alla Denys Arcand (“Mandalo via!”: Il declino dell’impero americano). In uno sviluppo davvero degno di Truffaut, si mette a ridere, trascinando Clément nella risata.
Linn
sembra una presenza di contorno e invece il suo sguardo attento attraversa tutto il film. Al punto che potremmo dire che l’intera sarabanda delle vite degli adulti è come rinchiusa fra due figure “esterne”, impossibilitate alla comprensione piena: la bambina, che adulta non è ancora, e il padre, penosamente espulso dal mondo adulto dal suo declino mentale.