domenica 6 ottobre 2024

Vittoria

Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman

Il cinema di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman (Butterfly, Californie) cammina su una lama di coltello, si basa sul discrimine impalpabile fra documentario e fiction; i personaggi ripropongono nel racconto se stessi e la loro vita. Vittoria, parlato in napoletano con sottotitoli italiani, ritorna a Torre Annunziata; ora Jasmine, già apparsa in Californie, è sulla quarantina, sposata con tre figli, di cui uno già grande. Lei ha un sogno ricorrente: il padre morto (la storia tocca lateralmente l’ILVA e l'amianto) le consegna una bambina; e una figlia femmina è il suo desiderio di sempre. Jasmine, che ha avuto tre parti cesarei, non vuole un’altra gravidanza; decide di adottare una bambina in Bielorussia. Questo causa un litigio immediato e poi un tiramolla di frizioni col marito Rino. In alcuni momenti sembra che Jasmine si comprenda meglio col figlio maggiore Vincenzo; ma il rapporto è forte con l’intera famiglia (“Voi siete la vita mia”).
Marilena “Jasmine” Amato “recita” se stessa come gli altri, ripercorrendo – liberamente ispirato”, dice una didascalia – il racconto vero della sua adozione nel 2016; e i suoi primissimi piani ricevono un'indubitabile potenza dalla particolare natura del film. Jasmine è incrollabile («‘na capa tosta» come suo padre, sentiamo nel film). I problemi familiari, la macchina burocratica, i costi spropositati necessari per adottare, niente la ferma. Il montaggio di Alessandro Cassigoli è legato ai sentimenti, tanto elegante quanto significativo.
Una bella ellissi, non l’unica del film, ci porta alfine da Torre Annunziata in Bielorussia, dove Jasmine e Rino incontrano la piccola Vittoria; ed è una splendida scena dove l'enunciazione visiva della bambina è ritardata (prima un dettaglio, il braccio, poi la piccola è tenuta fuori fuoco) fino al “Le posso andare vicino?” di Jasmine. Ma i problemi non sono finiti. Vittoria, che non reagisce nel primo incontro, ha un disturbo cognitivo, non si sa quanto grave. La crisi, anche personale di Jasmine, raggiunge il suo apice in una tesa sequenza in cui la bambina dovrebbe disegnare un cerchio (è un test per capire la gravità del disturbo) e non vuole. La scandiscono in modo drammatico le frasi in bielorusso non tradotte (fra cui si capisce davaj, “avanti!”). E questo dramma è risolto, imprevedibilmente, dal marito, con un autentico coup de théâtre, però radicato nella realtà, che realizza un alto momento commovente. Nella scena seguente coi palloncini per la prima volta vediamo la bambina ridere. La serie di foto con didascalie che appare alla fine (ove, naturalmente, la bambina è un’altra: quella vera)
ci conferma che il titolo Vittoria ha un doppio significato.

sabato 28 settembre 2024

Vermiglio

Maura Delpero

È stato detto unanimemente, quando il film è passato alla Mostra di Venezia vincendo il Leone d’Argento - Gran Premio della Giuria, che Vermiglio di Maura Delpero si inserisce nella linea di Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli, Torneranno i prati). Ma non nel senso di derivativo o imitativo: questo notevole film, recitato in dialetto trentino coi sottotitoli, è un apporto attivo e vitale.
Vermiglio è un paese povero e isolato della Val di Sole; l’epoca è la fine della seconda guerra mondiale e subito dopo. Il maestro Graziadei ha dieci tra figli e figlie; è in freddo col maschio maggiore ma affettuoso verso le tre figlie più grandi: la sfortunata Lucia, l’inquieta Ada e la piccola Flavia che è la più brillante nella scuola elementare. In questa famiglia di dignitosa povertà (i due figli maschi dormono nello stesso letto in posizione invertita), solo Flavia potrà continuare gli studi, con dispiacere di Ada che l’avrebbe voluto. Lucia si innamora di un soldato siciliano rifugiato, Pietro, e lo sposa; il matrimonio avrà una svolta drammatica.
Attorno a queste figure, Vermiglio è un film corale. Ogni personaggio ha diritto all’attenzione; ogni personaggio ha un’autenticità profonda, che viene convogliata da un’eccellente direzione degli attori, professionisti e non professionisti. Non c’è né arcadia sciocca né naturalismo brutale nella descrizione attenta della vita del paese nel suo svolgersi, il lavoro, le chiacchiere, le feste, la trasgressione segreta nella “ribelle” del paese, i battesimi e i funerali, gli interrogativi dei più piccoli sulla morte, la religione: le preghiere, la confessione, i riti, con la pregnanza del latino ecclesiastico, con le sue formule conosciute da tutti. Maura Delpero viene dal documentarismo, una lezione che si vedeva anche nel suo primo film di fiction, Maternal; la vivezza con cui emerge la vita collettiva d’allora a Vermiglio (che poi è il paese di nascita del padre della regista) è debitrice a un occhio “antropologico”. In un rito popolare nella parte iniziale del film, è Lucia a impersonare Santa Lucia, la portatrice di doni, condotta sull’asino con un velo sul viso che la “acceca” come la santa senza occhi (curiosità: la melodia del canto su Santa Lucia che sentiamo nella scena è la stessa della ninnananna friulana Sdrindulaile). Verso la fine del film, quando è incinta ed emerge che il matrimonio è stato una disgrazia, la donne anziane commentano, fra dispiacere e malignità: “A forza di fare Santa Lucia è diventata orba anche lei”.
È tempo di guerra, che non compare direttamente ma è una presenza costante col suo carico di dolore, da cui si torna sconvolti. “Quelli che tornano dalla guerra hanno i segreti”, dicono le donne del paese, e Pietro parlando della vita dei soldati: è “come se sei vivo, però non proprio”. L’accuratezza storica ripesca, per l’aereo “nemico” che ronza sopra il paese, il nome “Pippo”, che con impaurita familiarità veniva popolarmente dato (anche in Friuli) ai solitari ricognitori alleati.
Mentre nella maggior parte del cinema italiano i personaggi sono portatori di giudizi fin dal primo apparire, l’adesione al concreto di Maura Delpero introduce figure autentiche, cioè complesse. Il miglior esempio è la figura del maestro (Tommaso Ragno), patriarca in tutti i sensi che impone ai paesani la linea morale sulla guerra (per cui Pietro non viene denunciato) e in famiglia è la figura patriarcale in tutti i sensi (superbo uno scambio di battute fra lui e la moglie Adele subito dopo il parto di lei). Vediamo la sua interiorità e le sue contraddizioni; acquista dei dischi di musica classica anche se non gira denaro in famiglia (“pane per l’anima”, e li userà anche per le sue lezioni) e quando Ada va a rubare le sigarette nel suo cassetto vi scopre un album di fotografie di donne nude, che la turbano, e a cui ritorna più volte, punendosi poi con inconsuete penitenze.
Nella fotografia di Michail Kričman l’aspetto visuale del film si basa su una sorta di contrappunto fra la quotidianità dei volti e degli ambienti in dialogo con i grandi paesaggi della montagna - però, questi, non alieni ma egualmente familiari ai viventi. 
È la stessa familiare conoscenza di cui parla Manzoni (ciò non toglie che una panoramica ascendente lungo una cascata possa rappresentare l'idea del suicidio).
Vermiglio è una storia sul fluire del tempo, e sui drammi e dolori che vi si incistano, come ferite destinate forse a cicatrizzarsi e forse no. Come (e anche più che) in Maternal, Delpero coglie in modo potente la densità dei gesti, degli sguardi, delle parole espresse – in una parola, l’immediatezza assoluta delle cose.


venerdì 27 settembre 2024

Finalement - Storia di una tromba che si innamora di un pianoforte

Claude Lelouch

Ci sono nel cinema i registi che invecchiando si appannano o si perdono. E poi per fortuna ci sono i grandi vecchi, che hanno raggiunto una pienezza artistica che è anche (coincidenza interessante) pienezza di comprensione morale e umana. Un esempio famoso è Clint Eastwood. Un altro, qui in Europa, è Claude Lelouch.
Nella “fiaba musicale”, come scrive Lelouch nei titoli di testa, Finalement – Storia di una tromba che si innamora di un pianoforte Kad Merad è Lino Massaro, un avvocato che soffre di una malattia al cervello – quella di dire la verità parlando “senza filtri” – si aggira per la Francia suonando la tromba e sparando panzane a chi gli offre un passaggio in auto (perché si identifica con i suoi clienti e fa propria la loro storia). Nelle sue peregrinazioni incontra anche Gesù con gli Apostoli e Dio in persona: ma è un'allucinazione probabilmente. Intanto una famiglia allargata e complicata si dispera e lo cerca.
Turbinare di musica, di umorismo, di cinema, è un film che si può solo amare. Come in tanto Lelouch, penso a Ci sono dei giorni… e delle lune, è una delizia assoluta il montaggio/narrazione sfavillante, musicale (e infatti qui la musica entra abbondantemente), dove si può intravedere la lezione di Sacha Guitry.
È anche, Finalement, un monumento che Lelouch eleva a Lino Ventura, il quale appare in flashbacks (in realtà frammenti dei suoi film col regista) nel ruolo “retrospettivo” del padre gangster del protagonista, morto in carcere. Ed è un monumento al cinema, con una serie di riferimenti innamorati. E in questa vena è anche un monumento di Lelouch a se stesso, che si autocita non senza ironia.
L’inesplicabile fecondità del caso”, sono parole di Lino Massaro alla fine, determina i fatti e i destini. Finalement è un’esaltazione del caso, della libertà e dell'amore (anche quando è mercenario). Come tutti i grandi vecchi, Lelouch esalta la vita.

martedì 10 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice

Tim Burton

Diciamolo subito: il primo Beetlejuice (1988) resta un unicum, nella sua combinazione di commedia macabra, scherzi interdimensionali, grafica outrée (Tim Burton è sempre stato in primo luogo un grande illustratore). più una solitaria pennellata di musical con Banana Boat. È una testimonianza del periodo geniale, ormai trascorso, di Burton. Tuttavia, Beetlejuice Beetlejuice (A.D. 2024, com'è scritto sotto il titolo nei credits e sui poster) è un film delizioso. È una reunion; e chi ha detto che un regista non abbia il diritto di girare una reunion? (Fra l’altro non è la prima volta che Tim Burton eleva un monumento a se stesso). L’importante è che questa operazione azzardata sia andata felicemente in porto.
Del primo Beetlejuice, tutti ricordiamo innanzitutto l’estrema intelligenza del rapporto fra il villaggio e il modellino che lo rappresenta – fin dallo splendido inizio: mdp “kubrickiana” che vola sulla foresta e poi sul villaggio; ragnone enorme che spunta da dietro una casa; mano che lo prende, dichiarandoci che il ragnone è un ragnetto e la casa e il villaggio sono un modellino. Ci sono due film che rendono in modo magistrale la dialettica fra l’originale e la sua riproduzione in scala ridotta: Shining di Kubrick (1980) e – non senza citarlo – questo film di Burton del 1988. Merita aggiungere che il rovesciamento dimensionale, in cui si scambiano il sopra e il sotto, il dentro e il fuori, o magari il mondo dei morti e quello dei vivi, è sempre stato il cuore del cinema burtoniano, basato appunto sul trespassing. Tutto questo rimane in Beetlejuice Beetlejuice, e infatti nel cimitero del modellino della cittadina (però, se la memoria non mi inganna, le dimensioni non sono esattamente le stesse rispetto al primo film) dimora ancora lo schifosissimo essere eponimo, Betelgeuse alias Beetlejuice. Macrocosmo e microcosmo. Saggiamente però Tim Burton e i suoi sceneggiatori Alfred Gough e Miles Millar non ne fanno un punto nodale come nel primo film; la sorpresa ormai è consumata, non solo nel contesto di questa storia ma nella filmografia di Burton in generale (Beetlejuice era solo il suo secondo film).
Invece Burton sviluppa l’altro asse portante del primo film, che è la descrizione umoristica del mondo dei morti. Nelle sue varie visioni dell’oltretomba Burton scatena quel suo amore per i giocattoli macabri, i fumetti della E.C. Comics, i costumi di Halloween, i ragni finti attaccati ai vestiti e via dicendo. Vedi in Beetlejuice la comicissima rassegna dei morti in sala d’aspetto all'aldilà, nel presente film ripresa e ampliata – forse con una fantasia meno sfacciata ma sempre debitrice di quell'umorismo gross, infantil-adolescenziale, che caratterizza l'autore.
Il pregio di Beetlejuice Beetlejuice è la fedeltà alla concezione originaria (sembra niente, ma in quest'epoca di abbellimenti insipidi e odiosi reboot...!). A partire dall’elemento principale. Beetlejuice era un film di animatronics, quei pupazzi meccanici che dominarono il cinema horror dei ‘70-’80 (ed erano l'attrazione dei parchi Disney). Alle prime notizie del sequel, era legittima la paura che Burton rovinasse tutto buttandosi sulla CGI. Invece ha fondamentalmente mantenuto gli animatronics con tutto il loro corredo narrativo/nostalgico (non è sbagliato, pur nella loro diversità, accostare questa scelta conservatrice al – finto – “passo uno” di Mars Attacks). La continuità è stata la scelta vincente.
Talvolta, infatti, al cinema e in letteratura, le prosecuzioni lasciano un fondo di amarezza – in Dumas, per fare un esempio assai alto – relativo al modificarsi dei personaggi. Qui il passare del tempo non li ha rovesciati. Attorno a un Michael Keaton (Beetlejuice) sempre in forma, e fortunatamente sempre carogna, ruotano Delia/Catherine O’Hara, sempre ben definita come pseudo-artista contemporanea, e Lydia/Winona Ryder, ora vedova e madre insicura. Non è difficile ipotizzare perché Jeffrey Jones, Charles nel primo film, sia stato escluso dal sequel: la sua carriera è finita dopo le sue condanne per pedopornografia. Infatti Charles si aggira nell’oltretomba senza testa e senza spalle (mangiate da uno squalo), quindi senza coinvolgere l’attore (questo è il motivo per cui un breve flashback sulla sua fine è realizzato, altrimenti inspiegabilmente, in animazione).
A questi personaggi si aggiungono Rory (Joaquin Phoenix), il fidanzato di Lydia, che è una pallida imitazione dell’Otto del primo film, e soprattutto Astrid (Jenna Ortega), figlia ribelle di Lydia. Forse è, Astrid, un po’ troppo grillo parlante per esprimere propriamente la tematica adolescenziale del sentirsi isolati e rifiutati, su cui Burton lavora da sempre; tuttavia, senza fare spoiler, diciamo che la vita e soprattutto la morte le riservano delle salutari occasioni di crescita. È rinfrescante, di questi tempi, il non moralismo di Burton a proposito dello spettro Jeremy (Arthur Conti).
Siccome la figura più divertente del primo Beetlejuice era l’esploratore dalla testa rimpicciolita, qui Tim Burton riprende l’idea fornendone un’intera schiera come impiegati di Beetlejuice (un dettaglio evidentemente vicario, ma simpatico). L’allargamento della visuale sul mondo dei morti comprende un Willem Dafoe (Wolf) che si prende in giro come poliziotto-attore (c’è una strana somiglianza con una figura minore di MaXXXine) ma soprattutto un’ottima Monica Bellucci nei panni di Delores, la pericolosa ex moglie vendicativa di Beetlejuice, che entra in scena a pezzi e si riattacca con graffette di cucitrice. Non dimentichiamo che quella del corpo smontabile e ricomponibile è una sempiterna ossessione burtoniana. Col suo carisma assassino, Delores è di gran lunga la figura migliore di quest’aggiornamento dell'oltretomba, e la sua presenza consente anche una piccola backstory di Beetlejuice.
È un po’ fiacco l’aspetto para-musical, perché le scene di balletto accanto al Treno verso il Grande Ignoto sono inutili e la canzone nuziale di Beetlejuice alla fine non fa che ripetere la situazione dell'indimenticabile scena di Banana Boat nel film originario, con in più il difetto che questi attori costretti magicamente a farsi ricettacolo della voce altrui non riescono a rendere, nella scena, l’orrore stupefatto di sentirsi cantare come i personaggi del primo film.
Invece arriva come un’effettiva sorpresa, nella macabra allegria del film, l’incubo finale, che è una citazione testuale di It’s Alive di Larry Cohen. In conclusione, probabilmente la bizzarra e sfacciata poesia del primo Beetlejuice non c’è più nel sequel di Tim Burton; ma questo suo riabbeverarsi all'antica fonte gli ha giovato, e Beetlejuice Beetlejuice è il suo miglior film da dodici anni in qua.

mercoledì 4 settembre 2024

MaXXXine

Ti West

Il citazionismo di Ti West non è un atto d’amore romantico come quello di Tarantino. Tarantino, per esempio, può introdurre in un film un personaggio di nome Colonnello Fenech, e a noi amanti delle commedie italiane si riscalda il cuore per l’omaggio a Edwige Fenech. Quello di West è un citazionismo che ha il senso di riflettere sul cinema replicando, non senza uno sguardo ironico-critico, un tempo e il cinema di quel tempo. In un’intervista il regista diceva che non userebbe obiettivi sconosciuti all’epoca cinematografica di cui parla.
Nella trilogia con la fantastica Mia Goth, X – A Sexy Horror Story riporta lo splatter degli anni ‘70 (per inciso, certe cose che oggi appaiono originalissime erano comuni nel cinema dell'epoca; basta pensare ai monologhi deliranti di Quel motel vicino alla palude, Tobe Hooper 1976, un film che West tiene assai presente). Nel capolavoro Pearl, con una sfasatura temporale il 1918 viene rivisto innestando l’horror sul glamour dai vivi colori delle commedie musicali d'antan, fra Il mago di Oz e Mary Poppins, con Pearl come perfetta Cenerentola sognante disneyana (ma la scena coi morti a tavola è puro Texas Chainsaw Massacre). MaXXXine ci porta nel 1985, incrociando il filone poliziesco-vendicativo (sul quale dai ‘70 arriva l’ombra lunga delle figure iconiche di Charles Bronson e Clint Eastwood, puntualmente citati nel dialogo) con il giallo all’italiana: di lì viene la figura dell’assassino misterioso in nero coi guanti e il pugnale seghettato. In questi film sul cinema, da notare il doppio regime fotografico dell’inquadratura.
MaXXXine ci porta nel 1985, incrociando il filone poliziesco-vendicativo (sul quale dai ‘70 arriva l’ombra lunga delle figure iconiche di Charles Bronson e Clint Eastwood, puntualmente citati nel dialogo) con il giallo all’italiana: di lì viene la figura dell’assassino misterioso in nero coi guanti e il pugnale seghettato. In questi film sul cinema, da notare il doppio regime fotografico dell’inquadratura.
In MaXXXine, il personaggio di Mia Goth finalmente arriva allo status di diva (questo è a tal punto il filo rosso della trilogia che se il nome non fosse stato già occupato avrebbe potuto chiamarsi Fame); così arriva a conclusione un processo durato tre film e più di sessant’anni, se consideriamo che Mia Goth/Maxine incontrava se stessa nella figura di Pearl. Ora col nome di Maxine Minx è una star del cinema porno, ormai diventato legale: ricordiamo la predizione del giovane proiezionista del 1918 in Pearl! Maxine però vuole passare al cinema “vero”, come Marilyn Chambers, qui menzionata; e ottiene il ruolo protagonista nell’horror La puritana II. Nota in margine (Ti West è un regista-sceneggiatore così ricco che ci vorrebbe una nota in margine a ogni riga): in una trilogia con forti connotazioni del mondo agricolo e tradizionalista come questa, il riferimento a Salem e alla presenza del diavolo entra particolarmente bene. Quando Maxine recita il monologo sul diavolo (“Satan is back”) nelle selezioni per la parte, è inquadrata frontalmente e parla guardando in macchina: è il punto di vista della commissione, ma lei non si rivolge solo ai selezionatori: si rivolge a noi spettatori.
In quei giorni Hollywood è terrorizzata dal serial killer (realmente esistito) detto il Night Stalker, e attorno a Maxine si verificano crudeli omicidi che colpiscono le sue colleghe del porno. Inoltre Maxine è perseguitata da un più che losco detective privato (Kevin Bacon), dal naso incerottato (grazie a lei) come Jack Nicholson in Chinatown. Una coppia di poliziotti che sembra rappresentare una parodia di quelle delle serie televisive indaga senza ottenere la sua collaborazione. C'è un tocco di deliziosa ironia quando la poliziotta va a prendere dal distributore delle bibite una Coke per Maxine – che vediamo farsi di cocaina, coke, per tutto il film.
Lo svolgimento thriller non consente di fare spoiler; anche se tutti quelli che hanno visto X – A Sexy Horror Story sanno bene cosa aspettarsi da Maxine, che è tough as nails, e quando dice “Sai cosa è successo all’ultima persona che ha cercato di uccidermi? Le ho schiacciato il cazzo di testa!” non fa altro che ricordarci quel che sappiamo. Tuttavia non si può non menzionare l’omaggio al Bates Motel, che compare tra gli studios, con casa Bates dietro in tutta la sua nera potenza. Perché non è solo un omaggio a Hitchcock, il più grande di tutti, ma una dichiarazione di principio: Ti West, nel dialogo del film, si riallaccia esplicitamente al suo programma eversivo di far emergere i nostri demoni interiori, ed usa come portavoce un suo autentico alter ego che è la regista Liz Bender (Elizabeth Debicki).
Ricchezza di Ti West! Che crea film estremamente compatti e interconnessi, pieni di collegamenti sia al proprio interno sia all’esterno, cioè entro il corpo della trilogia. Spingendo la credibilità al limite (l'agente di Maxine) ma senza mai cadere in un’implausibilità contraddittoria che rovina il film (qualcuno ha detto Shyamalan?), MaXXXine è sanguinoso, divertente ed emozionante, con un convulso finale nella villa degli assassinii dove la frenesia dà ragione a Liz quando diceva “La cosa più preziosa che abbiamo è il tempo”.
Infine lei raggiunge il successo, incarnando letteralmente i due paradigmi dello stardom biondo: la bionda hitchcockiana (parole di Liz) e Marilyn Monroe (la scena della prima del film). Un allargamento di visuale finale (che ricorda un altro Psycho, quello di Gus Van Sant) ci porta in volo sopra Hollywood ricordandoci che quello che abbiamo visto è un film sull’anima di Hollywood (un’anima nera – ma al cinema questa non è una novità); ma è anche un film sull'anima di Maxine. Due anime che coincidono.

venerdì 30 agosto 2024

L'innocenza

Kore-eda Hirokazu

Per coincidenza, due film usciti quest’anno parlano entrambi di un’accusa mossa a un insegnante da parte di un allievo/allieva, il che letteralmente terrorizza l’istituzione scolastica: Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan e L’innocenza di Kore-eda Hirokazu. Altra coincidenza, alla visione del primo può sorgere un’idea, no, un sospetto di manierismo rispetto ai suoi film precedenti; nel secondo, si tratta di più che un sospetto. In ogni modo, resta un film notevole.
Ne L'innocenza (il cui titolo originale è Kaibutsu/Monster) la struttura narrativa è complessa. In un movimento progressivo che ha qualcosa di solenne, il film racconta tre volte la stessa storia (le immagini dei pompieri e di un incendio fanno da punto di ri/partenza) ampliandola da un diverso punto di vista e aggiungendovi particolari decisivi. C’era da scommetterci che nelle recensioni qualcuno avrebbe tirato fuori Rashomon di Kurosawa Akira, che è una dolorosa meditazione sull’insincerità, mentre è più giusto dire che L'innocenza allarga sul piano del racconto un meccanismo che conosciamo bene in Kore-eda: la faticosa “ridefinizione” della percezione di una persona in una nuova comprensione di essa; un meccanismo che qui viene trasferito dai personaggi (per esempio quelli di Ritratto di famiglia con tempesta o Still Walking o Le verità) direttamente allo spettatore.
È, quella del racconto, una vérité che emerge in tre movimenti, da un’apparente semplicità, attraverso successivi approfondimenti, che impostano da un lato un giudizio sulla comprensibilità delle cose – attenzione: Kore-eda non è uno scettico, è un fenomenologo – e dall’altro un’osservazione, motivo tipico dell’autore, si come la nostra soggettività si smarrisca e si perda a fronte dell’intrico delle altre, e dei fatti. Sembra la storia di un ragazzino tormentato da un insegnante (la madre vedova indignata è la grande attrice Ando Sakura), poi si allarga all’ombra del bullismo (“Chi è il mostro?”), poi esplode letteralmente in un rapporto di omofilia fra due preadolescenti dal dolore taciuto, un rapporto tratteggiato con la penetrazione psicologica propria di Kore-eda e parimenti con il suo senso poetico (sì, l’analogia con Miyazaki che è stata individuata c’è; ma conviene ricordare che risponde a una vena presente in tutto il cinema kore-ediano, e basta pensare agli “animali magici” che vi appaiono, le farfalle e le lucciole – ma anche un rospo).
Il tema su cui più insiste Kore-eda è la famiglia, intesa come comunità di affetti più che come consanguineità (cfr. Un affare di famiglia, titolo anodino per The Shoplifters). Facile osservare che le sfuriate di Ando Sakura contro il gruppo preside-insegnanti della scuola attaccano proprio il fatto che non si comporta come una vera comunità (educativa) ma è tutta formalismo e menzogna. In effetti questo personale scolastico, preoccupato soltanto dell’immagine della scuola (al punto di gettare ai lupi uno di loro sapendolo innocente), non è moralmente migliore di un gruppo di yakuza. Si suol dire che i giapponesi sentono la pressione sociale più degli altri; ma nella descrizione della scuola la spinta al conformismo supera ogni limite; e nonostante un dettaglio indovinatissimo (senza spoiler: la fotografia sulla scrivania della preside) si ha la netta impressione che qui nella sceneggiatura di Sakamoto Yuji si veda un’ansia “didattica” per la quale Kore-eda non è portato.
Mentre è più che portato, naturalmente, per introdurre le nuances del comportamento e le piccole ambigue rivelazioni del dialogo, per la splendida direzione degli attori (la moltiplicazione dei punti di vista gli consente di trarre il massimo dagli interpreti, a partire dai due ragazzini), e per instaurare quel suo tempo-non tempo che gli consente di far sorgere il racconto dal fluire della vita più che da momenti di rottura drammaturgica. O per essere più precisi: ne L’innocenza la drammaturgia c’è, e perfino la suspense, del resto connaturata alla struttura di conoscenza progressiva; nondimeno, i “punti di crisi”, che in molti film dell’autore (non tutti) venivano elisi, qui vengono depotenziati.
Kore-eda è un regista non solo di temi ma di elementi ritornanti. I conoscitori del suo cinema ne ritroveranno molti, comprese la curiosità per la morte, i funerali e la reincarnazione, o le “filosofie” (grande, qui, quella sull’inversione del tempo) – o il tifone. Kore-eda, lo sappiamo, ama i tifoni. In una vecchia intervista diceva, all’incirca, che puliscono l'aria. Anche ne L’innocenza il tifone, certo spaventoso, si carica di un valore metaforico: rappresenta la possibilità di una rinascita.

venerdì 28 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Giappone


 

C’è poco da dire, il Giappone resta la miglior cinematografia asiatica; e alla pattuglia giapponese al Far East Film Festival dobbiamo il miglior drappello di film del FEFF 2024.

Ichiko

Sappiamo veramente chi sono le persone che amiamo? È la stessa domanda di Vertigo di Hitchcock, al quale lo splendido Ichiko di Toda Akihiro (a mio parere il più bello del festival) può farci pensare, non per la trama thriller ma per come in una storia d’amore rende in modo assoluto il dolore. Ichiko, la giovane donna del titolo, convive felicemente da tre anni col fidanzato. Un giorno, dopo che questi le ha fatto una proposta di matrimonio (ma c’entra anche una notizia in tv?), Ichiko inspiegabilmente si allontana in gran fretta da casa e scompare. Rivoltosi alla polizia, il giovane si sente dire che Ichiko non esiste. E qui parte la sua ricerca, che scava nel passato per ricostruire – attraverso le scarne testimonianze di chi l’aveva conosciuta in epoche diverse la realtà di questa persona sempre avvolta nel mistero, che da bambina e da adolescente si faceva chiamare Tsukiko. Lei appartiene, si scopre, a quel consistente numero di giapponesi di cui non c’è traccia ufficiale perché non sono stati registrati alla nascita; ma non è questo il vero segreto nascosto dietro le stranezze (tanto sue quanto di altri che gravitano intorno a lei) che costellano la sua vita.
È stato paragonato a Rashomon ma non è Rashomon perché non parla dell’ambiguità della verità secondo i vari punti di vista opportunisti. Ichiko è una ricerca per trovare i tasselli di un mistero nell'arco del tempo; a occhi italiani più vicino al nostro Pirandello. C’è la stessa tragicità esistenziale de Il fu Mattia Pascal, ma senza neppure l’elemento della scelta presente in Pirandello. Ichiko è una potentissima descrizione della tragicità del destino (non in senso metafisico ma radicato nella realtà) e di come una persona, nonostante tutti i suoi sforzi, ne venga determinata. Un dolore infinito – che solo nelle immagini conclusive tocca (quindi non come presupposizione narrativa ma come commento) i confini linguistici del mélo.

Voice

Si potrebbe considerare un’escursione del Far East Film Festival nei territori del cinema d’essai l’ottimo Voice, della regista giapponese Mishima Yukiko. È una meditazione in tre episodi (più un breve epilogo) con personaggi differenti, in eccellenti interpretazioni. Il tema sotteso ai tre episodi è il rapporto dell’essere umano con la morte, il dolore e soprattutto il ricordo, con una centralità della donna secondo una forte prospettiva di sguardo femminile. Al fondo stanno l’esperienza traumatica e la sofferenza derivata da una violenza sessuale in età infantile – qualcosa che per la regista Mishima ha un aspetto dolorosamente autobiografico.
In estrema sintesi: nel primo episodio un uomo anziano diventato donna riceve i familiari per Capodanno, sotto l’ombra del suicidio di una figlia anni prima. Nota in margine: questo episodio si apre con una bella pagina di preparazione “rituale” del cibo (i credits finali listano un food stylist) visivamente notevole: bellezza di un’erba messa trasversalmente su un gambero in una ciotola!
Nel secondo episodio, una ragazza torna al paese d’origine e suo padre equivoca sul motivo della sua depressione, a rischio che la storia finisca male. Nel terzo episodio, quello più lungo, che è in b/n, dopo il funerale di un ex fidanzato del passato una ragazza compulsivamente incapace di avere sesso incontra un giovane gigolò.
Per inciso, in questo episodio, il giovane gigolò essendone appassionato, ci sono moltissimi riferimenti all’Italia (il “comedian Totò”, Nanni Moretti e La stanza del figlio, la Nutella, oltre a una canzone e alcune frasi in italiano).
Comune alla struttura dei tre episodi è una costruzione a forma di mistero: c’è sempre un “perché?” Nel primo e nel terzo (non nel secondo, peraltro meno potente) il motivo viene svelato in una “scena madre” che naturalmente porta in primo piano la capacità attoriale; indimenticabile l’attrice Maeda Atsuko nel climax del terzo e più lungo episodio.

Takano Tofu

Takano Tofu di Mihara Mitsuhiro è il film vincitore del Gelso d’Oro, il massimo premio del festival, attribuito per votazione del pubblico (mentre Confetti di Fujita Naoya è arrivato secondo, Gelso d’Argento). Film familiare, molto amabile, su un vecchio maestro della fabbricazione artigianale del tofu e sua figlia, vi è ovvio il riferimento (sempre molto usato nel campo del cinema gastronomico) fra la qualità e la sottigliezza del cibo e quella della vita – e implicitamente del film. Grandi le interpretazioni non solo dei due protagonisti ma anche dei caratteristi – per esempio la moglie del barbiere, in una scena a due col protagonista, si mangia la scena.
È interessante, nel film, la presenza di Ozu come punto di ispirazione (non come livello estetico, si capisce). Naturalmente c’è nel concetto base del padre che vuole che la figlia si sposi, raddoppiato dal romance del protagonista con una donna anziana – un topos ozuiano rimodellato come un retelling with tofu, quasi un’affettuosa parodia. Ma oltre ad esso (e come strizzata d'occhio agli spettatori) vi sono alcune cose che producono autentici soprassalti di riconoscimento ozuiano: quindi sempre nel segno di una gentile (auto)ironia. In primo luogo, proprio in apertura del film, vediamo una delle tipiche lanterne di pietra di Ozu: ma non in primo piano, che sarebbe stata una citazione troppo diretta, bensì ben visibile nel quadro. Di lì a poco vediamo un treno, ed è inevitabile che le due immagini si fondano per noi. Poi, quando il protagonista è ubriaco, portato a casa dalla figlia, pronuncia la tipica battuta dei bevitori ozuiani: “Come mi sento bene”. C’è, poi, un’altra immagine, che ricorda molto il finale di Viaggio a Tokyo, ed è l'inquadratura del fiume con un solo battello – che in Ozu alludeva alla morte della moglie. Invero Takano Tofu è un film in cui la minaccia della morte è molto presente (i problemi di cuore del protagonista, l’operazione della sua amica) anche se l'inquadratura, molto riconoscibile, sul fiume non è il triste suggello di Ozu. Bisogna ricordare, infine, un altro teina molto presente nel film, questo non ozuiano: è quello della memoria e degli effetti del bombardamento atomico, che pesano ancora sulle vite dei giapponesi.

Confetti

Affascinante e impalpabile, Confetti (che com’è noto in inglese significa “coriandoli”) è un film di adolescenti, opera prima del trentatreenne Fujita Naoya: apparentemente semplice, aereo, in realtà ricchissimo di suggestioni e significato. Lo potremmo chiamare un Bildungsroman senza angoscia. Il protagonista è Yuki, che lavora con una compagnia itinerante di teatro popolare detto taishu engeki, e sul palcoscenico interpreta parti femminili. Durante la sosta di un mese della troupe in un luogo, Yuki, frequentando la scuola locale, crea un rapporto di amicizia a volte intensa a volte scontrosa con un ragazzo e due ragazze entrando nelle loro vite, mentre in secondo piano vediamo un interscambio anche fra gli adulti. Il teatro che si riflette nella vita (il dramma che mettono in scena alla fine parla di una madre a lungo cercata e infine incontrata), le vite personali che si riflettono l’una nell’altra, la ricerca del futuro con l’urgenza angosciosa dell’adolescenza, la sensazione agrodolce per cui ciascuno invidia quello che non ha mentre chi lo possiede magari non se ne cura. Psicologicamente acuto, ben giocato sul linguaggio del corpo, nonché sull’effetto scenografico di palco e costumi, Confetti è un film sull’adolescenza e il teatro, e non direttamente sullo scambio dei ruoli sessuali che deriva dalla recitazione en travesti – quest’ultimo è ovviamente importante ma non ha i soprassalti psicologici, o i brufoli ideologici, che ci si aspetterebbe in Occidente. Senza adagiarsi in un ottimismo programmatico, ma tuttavia restando sicuro della speranza, è un film pieno di umanità e di un sentimento che potemmo ben chiamare serenità.

Motion Picture: Choke

Un eccellente film, scritto e diretto da Nagao Gen, in b/n e muto – non nel senso che non sentiamo quello che dicono i personaggi (i rumori si sentono) ma che essi proprio non hanno la dote del linguaggio, e comunicano a gesti. Siamo in quello che potrebbe essere un paesaggio postatomico: la protagonista (l'eccezionale Wada Misa) vive in un relitto di costruzione moderna nel mezzo di un bosco e vediamo in “casa” oggetti d'oggi arrugginiti; vive come una donna delle caverne, cacciando, andando al ruscello per prendere l’acqua in una zucca, scambiando pezzi di carne secca con un mercante girovago. In realtà, l’assoluta scomparsa del linguaggio è un’indicazione che il realismo sfocia impercettibilmente sul piano simbolico.
Per capire Motion Picture: Choke è opportuno ripensare all’inizio di 2001 – Odissea nello spazio. Come l'inizio di 2001 (l’osso in mano all'uomo-scimmia) ci mostrava l’inizio dell’umanità attraverso l’invenzione delle armi, in questo panorama muto da nuova “alba del mondo” (lo stupore di lei per la lente che accende un focherello di foglie secche!) è giusto usare per ciò che viene scoperto lungo il film il termine invenzione. L'invenzione del sesso, col giovane catturato, del ballo, del gioco. L’invenzione della tecnica (l’acquedotto). L'invenzione della guerra, contro i tre banditi. L'invenzione della schiavitù. Come ha scritto Mark Schilling in una bellissima recensione ripubblicata sul catalogo del festival, Motion Picture: Choke ripercorre la storia del mondo.
Fino allo sconvolgente sviluppo finale, che credo si possa ancora interpretare in termini di prima volta: c’è nella narrazione un passaggio dall'oggettivo al soggettivo, con una bolla di silenzio in cui anche la protagonista non riesce a sentire il suo urlo; un nero alle sue spalle cancella la “casa”; sguardo in macchina di lei. Siamo spostati definitivamente dal realistico al simboli. L’invenzione della dimensione religiosa.
Anche se fra gli altri interpreti Hiba Daiki (il ragazzo) e Nishina Takashi (il bandito) sono più che notevoli, è eccezionale l’interpretazione di Wada Misa nel ruolo muto e mimico della protagonista, con una capacità “magnetica” di convogliare i sentimenti e rappresentarli, quasi telepaticamente, al pubblico.

Bushido

Il regista Shiraishi Kazuya, che di solito si fa notare per una narrazione enfatica (The Blood of Wolves, Last of the Wolves), in questo period drama vira invece sull’atmosferico, e consegna un film indubbiamente intenso. Il titolo internazionale Bushido non fa niente per dissipare un equivoco: molti confondono ancora i film di samurai con i chambara (scontro fra samurai all’arma bianca), oppure in mancanza di duelli si aspettano un film sentimentale. Non è così col presente film (che al FEFF ha vinto il premio dei Black Dragons, gli abbonati sostenitori).
Yanagida è un samurai ridotto in povertà dopo aver lasciato il castello del suo signore per una falsa accusa. Vedovo, vive con sua figlia Okinu. È un campione di go, e in questa veste fa amicizia con il ricco mercante Genbei (le interpretazioni dei due, rispettivamente Kusanagi Tsuyoshi e Kunimura Jun, sono veramente eccellenti). Quasi tutta la prima ora trascorre in una quieta costruzione dell'atmosfera psicologica (e storica), con una forte attenzione sul gioco del go – il quale naturalmente ha nelle sue mosse addentellati metaforici che a noi occidentali sfuggono.
L’improvviso arrivo di un altro samurai con notizie importanti cambia in profondità il corso della narrazione. Liberato dall'accusa, Yanagida si mette in cerca del vero colpevole per vendicarsi; ma la questione è complicata dalla sparizione misteriosa di una forte somma in casa di Genbei. La seconda parte del film è più sincopata, contiene una dose di suspense (relativa al destino di Okinu che rischia di finire a lavorare in un bordello) e culmina in un momento di duello – anche se questo non conclude la narrazione.

The Yin Yang Master 0

Quando nel lontano 2002, al quarto FEFF, ci siamo deliziati con il fantasy-horror in costume The Yin-Yang Master di Takita Rojiiro (2001), poco sapevamo del fatto che il suo protagonista Abe no Seimei sia una figura importante del mito giapponese, un famoso onmyoji, astrologo e difensore magico dell'Imperatore e della corte imperiale nell’epoca Heian. Abe no Seimei è apparso in più di un film, e gli inizi della sua carriera sono drammatizzati in The Yin Yang Master 0 di Sato Shimako, fantasy con il giovane Abe agli inizi della carriera in una scuola di onmyoji piena di intrighi. Il film ha degli aspetti affascinanti (il danzatore mascherato che crea danzando la magia nera) ma andando avanti si perde un po’. C’è davvero da riflettere su quanto il cinema abbia perso nel suo patto faustiano con la CGI. Come che sia, pur privo della magia dei vecchi fantasy giapponesi e hongkonghesi, The Yin Yang Master 0 si lascia vedere; si apprezza l’impegno dei tre interpreti principali; e si ammira per tutto il film la grande bellezza dei costumi.

Gold Boy

Oggi gli adolescenti assassini sono un fenomeno sociologico – è quello che l’Occidente ottiene, e si merita, per aver distrutto il sistema educativo – ma il bel Gold Boy di Kaneko Shusuke ci riporta all’antico concetto del ragazzino come mostro, "giglio nero" in un universo che non se lo aspetta - e tanto più inquietante per questo.
In verità i mostri del film sono due. Il primo è un adulto che ha ucciso i genitori della moglie come vendetta per un suo tradimento, fingendo un incidente (bisogna vederlo quando, attore consumato, piange davanti alla polizia). Il secondo è il tredicenne Asahi che, essendo venuto per caso in possesso di una prova contro l’assassino, cerca di ricattarlo con l'aiuto di due non tanto intelligenti amici (molto più vittime che colpevoli). Uno penserebbe che fra un adulto astuto quanto spietato e un trio di adolescenti non c’è partita, ma Asahi è un vero genietto del male (e in segreto ha già un curriculum criminale di tutto rispetto). L’abile regista di Death Note (anche quello, in fondo, era una battaglia di ingegni...) è al suo meglio nel descrivere questa “gara a fregarsi” senza esclusione di colpi, e descrive la totale, agghiacciante amoralità di Asahi senza mai cedere al buonismo che avrebbe attratto un regista italiano. Alla fine muoiono tutti, come nell'Amleto, ed è l'unica soluzione possibile.