domenica 12 gennaio 2025

Maria

 Pablo Larraín

Pablo Larraín è un regista dell’idealismo: nel senso che la mente crea la realtà – da Neruda, sull’universo di Neruda più che sulla biografia del poeta, a Jackie (Kennedy) che nei tristi giorni dopo l’assassinio del marito crea il mito di Camelot, da Tony Manero, ossessionato da John Travolta, a Spencer che tratta col fantasma di Anna Bolena. Tanto più in Maria, ove la Callas nella sua ultima settimana di vita non vede più distinzione alcuna tra la vita vera e le visioni; la realtà quotidiana viene riorganizzata e stravolta dall’irrompere dell’illusione. Con preoccupazione dei fedelissimi camerieri (Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher): “Questa troupe televisiva [che deve venire]… è reale, vero?” E che reale non sia lo capiamo subito quando l’intervistatore quando si presenta: “Mi chiamo Mandrax” (sono le pastiglie di cui Maria abusa). Questa intervista con una visione fa da filo rosso al film.
Maria a Parigi, passeggiando con l’intervistatore fantasma, passa per l’area del Trocadéro, con la Torre Eiffel sullo sfondo, e gli dice “Sono gli altri ad esibirsi”: ecco che tutta la folla casuale e anonima si avvicina, si schiera, si trasforma in un coro d’opera, per intonare il cosiddetto Coro delle incudini del Trovatore. Più tardi, un palazzo davanti al quale Maria rifiuta di cantare si riempie di comparse in rosso della Butterflyche circondano lei in kimono bianco – e poi la visione cessa, torna il vuoto, lei si allontana.
Il film inizia con un’inquadratura incorniciata, che mostra la scena tragica fra i battenti della porta aperti ai due lati, con un lentissimo movimento avanti della mdp; questo non solo allude all’inevitabile elemento voyeuristico del cinema (e specialmente del biopic) ma abilmente dichiara lo stesso film come cinema. Vale lo stesso per i ciak dell’“intervista” che dichiarano i capitoli (nella grana da superotto dei filmini familiari). Così, in Maria Larraín instaura un gioco di specchi a tre: la realtà, l’illusione e la finzione cinematografica.
Ancora una volta Larraín traccia con partecipazione un ritratto di donna che si dibatte nel cuore della crisi. Qui la voce di Maria è in declino, lei si è ritirata, il suo fisico sta per cedere. Con intelligenza e con un dialogo brillante il film ci porta dentro la sua soggettività: il carattere aggressivo verso il mondo esterno e il peso della realtà, il dolore del mondo interiore, con i suoi ricordi e i suoi fantasmi, come un volgare Onassis privo di fascino.
Naturalmente bisogna passare per un primo momento di shock nel sentire la voce della Callas uscire dalle labbra di Angelina Jolie. Questo va oltre il normale processo dei film storici onde “per” Napoleone vediamo Albert Dieudonné o Marlon Brando o Rod Steiger e così via. Quella è una sostituzione mimetica. Questa è una fusione di due corpi, cinema-Frankenstein che all’inizio turba; e così assai giustamente Larraín la fa entrare in modo impositivo nell’inizio in b/n, segnato dalla morte.
La mia vita è l’opera – non c’è ragione nell’opera”. Questa dichiarazione di Maria, che arriva subito prima della parte finale, è la chiave del film. Sul palcoscenico Maria Callas è stata sublime interprete di melodrammi. Ma la sua stessa vita è stata un melodramma; potrebbe assai bene essere trasposta in un libretto d’opera (se sulla contemporaneità John Adams e la librettista Alice Goodman hanno realizzato un bellissimo Nixon in China, perché non immaginare un Maria Callas nei teatri futuri?). Con scelta molto appropriata, Pablo Larraín organizza il suo stesso film in forma di melodramma. E proprio come nell’opera Maria muore cantando.

domenica 5 gennaio 2025

Nosferatu

Robert Eggers

Non si può negare che Robert Eggers abbia del fegato. Fare una terza versione di Nosferatu vuol dire confrontarsi con uno dei massimi geni del cinema, F.W. Murnau (1922), e con un grande quale Werner Herzog (1978). In verità, non li eguaglia; ma realizza un ottimo film in sé – molto atmosferico, stilisticamente raffinato, non privo di suggestioni e citazioni pittoriche, teso e risolto sul piano drammatico, innovativo nell’approccio.
Com’è noto, siamo a Wisborg nella Germania del 1838. L’ambizioso giovane impiegato Thomas Hutter (Nicholas Hoult) viene mandato dal suo equivoco padrone Knock nei Carpazi per trattare l’acquisto di una casa – nella loro città – da parte del conte Orlok (“Nosferatu”, cioè vampiro). La moglie Ellen lo implora di non andare, ricordandogli gli incubi che l’hanno afflitta in passato su un matrimonio con la morte. Se, dopo una criptica apertura, l’inizio appare un po’ “ricostruttivo”, già l’incontro di Hutter con Knock fa serpeggiare una soddisfacente aura di maligna ambiguità sotto i complimenti esagerati e i riferimenti alla Provvidenza – e nota l’intelligente dettaglio murnauiano di quella lettera con segni cabalistici che Knock copre in fretta. L’improvvisa pioggia quando si passa a parlare del conte Orlok certo non sorprende (al cinema la pioggia è sinonimo di sventura) ma fa subito risaltare uno dei punti di forza del film, il bellissimo montaggio di Louise Ford. Nel mentre, consente alla fotografia di Jarin Blaschke un’elegante immagine delle vie cittadine invase da ombrelli neri mentre Thomas bagnato si affretta verso casa.
Quando poi Hutter si trova fra le inospitali balze dei Carpazi, il film prende decisamente in mano il suo argomento. La sceneggiatura di Eggers riprende quella di Henrik Galeen per il Nosferatu di Murnau, ma non manca un ricordo di quello di Herzog, né Eggers dimentica il testo originale di Bram Stoker, Dracula, come rivela l’episodio del colpo di piccone. Il film si compiace di ripescare anche riferimenti folklorici autentici ma raramente visti al cinema, come il rito degli zingari per scoprire la tomba di un vampiro. La stessa caratterizzazione fisica del vampiro, ha detto Eggers in un’intervista, vuole ritornare alla base folklorica; in questo ritorno alle origini rientra anche l’abitudine di Nosferatu di succhiare il sangue dal cuore. Dimenticatevi il gelido e risecchito Max Schreck di Murnau o il disperato e romantico Klaus Kinski di Herzog; qui Bill Skarsgård è un cadavere semidecomposto (la cui enunciazione visiva è reticente, e consegnata solo a poco a poco nel film). Ha senso che l’edificio da lui comprato a Wisborg si chiami Schloss Grünewald: il pittore della miseria del corpo morto. Per inciso, i baffi che hanno sconcertato qualcuno sono storicamente appropriati, tant’è vero che anche Bram Stoker ne fornisce il conte Dracula nel suo romanzo. Ai suoi tratti inquietanti – le mani dalle unghie come artigli e il respiro affannoso – si accompagna una feroce hauteur nobiliare di cui fa esperienza subito l’ingenuo Hutter.
Il viaggio di Hutter verso il castello e la sua permanenza colà si svolgono su un doppio piano, autentico (le beffe degli zingari) eppure onirico; è “sveglio ma in sogno”, gli dice l’anziana donna ammonitrice alla locanda dove fa sosta (e nel suo parlare sentiamo, non trascritta in didascalia, la parola strigoi, altro nome dei vampiri). La bellissima scena dell’apparizione della carrozza fatata di Orlok, il cui sportello si apre da solo, sul fondo di uno spazio in fuga prospettica ricorda da vicino, se non direttamente, per lo spirito, l’opera di Alfred Kubin. Ma anche Ellen nella passeggiata nel cimitero con l’amica Anna dirà che non ci sente realmente presenti. È una perdita, un obnubilamento, uno spossessamento dei sensi che colpisce tutti.
Ecco dunque che l’enunciazione ritardata e “distillata” del mostro non è semplicemente artificio espositivo, come la sua uccisione dei bambini di Anna risolta come ombra non è semplicemente autocensura. Nella concretezza drammatica delle uccisioni e della peste, Nosferatu appartiene al regno delle ombre e dell’inconscio. “Lui è l’infinità”, dice il pazzo complice Knock, “lui è il divoramento”. L’ombra della sua mano – estrema proiezione delle ombre autonome del Nosferatu di Murnau, poi riprese da Dreyer in Vampyr – che si allarga e si stende su Ellen e sulla città non è una metafora. Le scene della peste e dei topi tengono presente Herzog; mentre un’inquadratura del professor von Franz fra le fiamme ricorda fortemente London After Midnight, il perduto film di Lon Chaney ormai divenuto iconico.
A differenza delle altre versioni, qui è messa al centro Ellen (un’ottima Lily-Rose Depp), e il suo rapporto col vampiro produce un radicale cambio di paradigma rispetto ai Nosferatu precedenti. Parla Orlok: “Io sono un appetito, niente di più”. Se si muove fuori dalla sua tomba è perché Ellen anni prima lo ha evocato in passato attraverso la forza del desiderio, il che spiega l’apertura. Ellen (“Lo conosco bene”) cercava tenerezza, e così lo chiamò. In un dialogo con Thomas, dove risalta l’illuminazione dal basso, Ellen dice di portare in Nosferatu la sua vergogna. Orlok le ha parlato di Thomas come uno sciocco e un bambino (ricordiamo per inciso che sciocco e infantile era già lo Hutter di Murnau); e la scrittura magico-diabolica intravista nella lettera a Knock la rivediamo nel contratto che Hutter assai ingenuamente firma sulla fiducia, cedendo in realtà a Orlok la moglie. È interessante che quando il vampiro lo attacca per la prima volta Hutter abbia una visione flashing di Ellen nuda – ciò che precede l’episodio (un po’ residuale) del medaglione con l’immagine.
Non a caso, Orlok parla a Ellen come un innamorato deluso (“Davvero credevi che non sarei tornato?”). Verrebbe da domandarsi, alla Hitchcock, se tutti gli innamoramenti non siano che evocazioni.
Così il rapporto fisico sacrificale alla fine diventa qui esplicitamente sessuale – un rapporto sessuale nel quale la luce rivela più che mai il corpo di Nosferatu. C’è qualcosa di suggestivo in questa doppia funzione della luce del giorno, inedita rispetto al simbolismo espressionista di Murnau e al realismo romantico di Herzog, una luce del giorno rivelatrice sul piano cinematografico e distruttrice sul piano del racconto. Ucciso dalla luce, Nosferatu non si dissolve in polvere nella luce ma muore e lentamente si trasforma in scheletro; la sua postura disteso su Ellen crea un quadro de “La morte e la fanciulla” come un’allegoria di Hans Baldung Grien in chiave romantica e decadente.
Se il Nosferatu di Murnau era un doloroso apologo sull’invincibilità del destino, in quello di Eggers non c’è il destino: ci sono le passioni umane, la loro implacabilità, la loro autopunizione. Il male nasce dentro di noi o viene da fuori?, si chiedono angosciati i personaggi. Come nel suo capolavoro The Witch (la wilderness esterna e la wilderness spirituale), Eggers intercetta la nostra incertezza esistenziale e i nostri oscuri sensi di colpa: il nostro male interiore apre la porta al male esterno. Negli attacchi di possessione di Ellen si ricorda il cinema degli esorcismi e si esprime la realtà del vampiro come potenza interiore.
E ci si può chiedere se attraverso questo concetto del male interiore e del suo insinuarsi nell’anima (non è semplicemente il languore della vittima!) Eggers non finisca per riallacciarsi a quel cinema che sembrerebbe le mille miglia lontano da lui: il cinema di Terence Fisher.

venerdì 27 dicembre 2024

Conclave

Edward Berger

Mi sembra di essere a una convention politica americana”, dice il protagonista Ralph Fiennes preso tra le manovre del Conclave del piacevole film di Edward Berger. Il Papa è morto e il Cardinal Decano (Fiennes) deve presiedere al conclave che eleggerà il successore: un conclave difficile, pieno d’insidie e di sorprese (salta fuori anche un nuovo cardinale sconosciuto a tutti, che era stato nominato in pectore dal Papa defunto). Decisamente, intrufolarsi come spettatori in questo conclave è affascinante, grazie alla grande suggestione di una ritualità secolare, che viene rafforzata dall'uso del latino. 
Il film, che offre della Chiesa un quadro poco edificante, racconta il conclave come un thriller (non per nulla ha toni thriller anche il commento musicale), mantenendo tuttavia un approccio realistico fin quasi alla fine. All’attenzione ai maneggi tra i cardinali, che rendono Conclave appassionante, non corrisponde però un eguale approfondimento psicologico. Sceneggiato da Peter Straughan dal romanzo di Robert Harris, il film divide rigorosamente i personaggi fra buoni (i “liberali”) e cattivi (i conservatori): le caratterizzazioni sono un po’ tagliate con l’accetta. Il super-nemico è il cardinale conservatore Goffredo Tedesco (che peraltro, a parere di chi scrive, dice le cose più di buon senso), tratteggiato da un bravo Sergio Castellitto come una figura detestabile ictu oculi, a prima vista, e un po’ macchiettistica. Il personaggio con maggiore profondità e consistenza psicologica è il tormentato protagonista Ralph Fiennes.
Parlando di conclavi immaginari, il vecchio film The Shoes of the Fisherman (L’uomo venuto dal Kremlino, 1968) di Michael Anderson o il bellissimo fanta-romanzo del 1904 Adriano Settimo di Frederick Rolfe Baron Corvo erano altrettanto consci delle rivalità di politica ecclesiastica e delle brucianti ambizioni personali, ma ne davano una descrizione meno banale.
Questa sceneggiatura di mano un po’ pesante viene redenta (le mot juste) da una regia efficace e convincente, che integra le eleganti inquadrature della fotografia di Stéphane Fontaine, un montaggio abile e un’ottima direzione degli attori. È quindi un peccato che alla fine, seguendo fedelmente il romanzo di Harris, il film spari una serie di sorprese (ma una si indovinava sin dall’inizio) passabilmente implausibili, fino alla bomba atomica del finale, che incrinano il realismo e avvicinano Conclave allo stravagante The Young Pope televisivo di Paolo Sorrentino.

domenica 15 dicembre 2024

Piccole cose come queste

Tim Mielants

A un certo punto di Piccole cose come queste un bambino povero, disperato perché non ha ricevuto il regalo di Natale che desiderava, sfonda con un pugno la crosta di ghiaccio in un secchio immergendo la mano nell’acqua gelata. Una sensazione simile la provoca il film di Tim Mielants sui soprusi delle suore irlandesi (non diciamo nell’Ottocento ma nel secolo scorso) nelle case-convento per ragazze orfane o “immorali”, le case Magdalene. Gli amanti del cinema ricorderanno un film di Peter Mullan del 2002 con quel titolo.
1985: il carbonaio Bill, che soffre per antiche ferite interiori, incontra nel convento del suo villaggio una ragazza incinta sottoposta a crudeli maltrattamenti, chiusa di notte nella legnaia gelida. Lei si chiama Sarah come la madre di Bill, una ragazza madre salvatasi da un nero destino grazie a una ricca benefattrice. Nella coscienza di Bill si scontrano da un lato l’omertà del paese (dove le suore sono una potenza), approvata da sua moglie, dall’altro la compassione e l’onestà. Non a caso, l’atto di lavarsi le mani sporche – giustificato dal racconto perché Bill fa il carbonaio – ricorre più volte, con significato simbolico. La fotografia di Frank van den Eeden che tiene il primo piano a fuoco e il resto fuori fuoco, come nei vecchi film, serve all’atmosfera di claustrofobia (non fisica ma morale).
Il film si impernia su due notevoli interpretazioni. Quella molto sfumata di Cillian Murphy (Bill) rende bene l’autentica paura che lui prova in presenza della madre superiora suor Mary. Dal canto suo Emily Watson crea con suor Mary un memorabile ritratto di perfidia nascosta. La scena in cui, a colloquio con Bill, fa un discorso di ipocrita bontà e di larvata minaccia, concluso con una bustarella travestita da regalo di Natale, è la scena madre del film.


(
Messaggero Veneto)

domenica 8 dicembre 2024

Grand Tour

Miguel Gomes

Edward, un funzionario inglese nell’Asia ancora coloniale del 1918, è fidanzato con Molly, rimasta a Londra, che non vede da sette anni. Quando Molly alfine lo raggiunge in Asia per sposarlo, Edward ha un attacco di terrore del matrimonio e fugge, in preda alla depressione, realizzando un vero “Grand Tour” asiatico, inseguito da telegrammi della fidanzata – un viaggio segnato dalla logica della fuga o dai giochi del destino. Birmania! Thailandia! Filippine! Giappone! Cina! Innamorata e testarda, prepotente e ironica, Molly segue la traccia di Edward con inflessibile determinazione. Potrebbe essere un contrasto della viltà e del coraggio (“Ogni uomo ha il terrore del matrimonio”, dice il buffo cugino Singleton, peraltro convinto che Edward sia una spia). Su questa trama un po’ alla Conrad, il portoghese Miguel Gomes costruisce un film complesso e geniale. Grand Tour è un film bivalve, diviso in due parti come il suo precedente Tabu: la prima metà segue Edward, la seconda Molly (Crista Alfaiate, eccezionale. La sua risata soffiando a labbra chiuse è un tratto distintivo memorabile del film). La malattia di Molly introduce un elemento personale tragico.
Nell’impasto linguistico del film, la lingua inglese parlata dai personaggi è rappresentata dal portoghese, ma le varie voci narranti – che integrano un racconto ellittico – parlano nelle lingue dei paesi visitati. La cosa spiazzante è che, mentre tutta la trama si svolge nel 1918, l’Asia in cui si muovono i personaggi è quella odierna, con i cellulari e i motorini. In questo modo Gomes utilizza tranquillamente materiale documentario da lui ripreso. Il passato e il presente si toccano e si fondono, con un effetto di straniamento.
Nel bianco e nero del film, poi, sprizzano improvvisi momenti di colore, per lo più dedicati a spettacoli di burattini asiatici di vari paesi, a rappresentare una profonda persistenza culturale. Che sfiora il metafisico: i fantasmi giapponesi sentiti da Edward nel tempio, che (dice la voce narrante) “gli raccontavano orrori in una lingua che non conosceva”; le benevole “piccole anime” dei morti indicate a Molly dall’ancella Ngoc nella casa vietnamita (vediamo bolle di sapone che sciamano sulle tombe).
Grand Tour presenta una realtà enigmatica – che è indubbiamente quella di Gomes, grande e criptico rimodellatore dell’immaginario, ma in verità è quella della vita. In ogni episodio se ne aprono altri impliciti e possibili, ogni piega del racconto nasconde altre innumerevoli pieghe. Jorge Luis Borges avrebbe capito e apprezzato.
C’è un bellissimo uso del sonoro in tutto il film (una delle cui caratteristiche è l’anticipazione sonora, prolungata più del normale). A un certo punto, sull’immagine del barcone che porta Edward febbricitante a Saigon, entra Sul bel Danubio blu, che continua su uno stacco al traffico della città vietnamita, con un ralenti leggero per cui la musica lo trasforma in una danza di motorini. Inevitabile a questo punto pensare a 2001. Il brano è stato usato molte volte, ma una così perfetta giunzione fra la musica di Strauss e le immagini non la vedevamo dai tempi di Kubrick.
Grand Tour è un affascinante mix di melodramma, film esotico ironicamente rivisto, commedia amara e apologo filosofico. Un giro dell’Asia attraversato da accenni al dominio coloniale che sta per crollare. Una riflessione sull’incomprensione reciproca fra Oriente e Occidente, e in particolare sulla presunzione conoscitiva dell’uomo occidentale (nota che né Edward né Molly comprendono la presenza dei morti fra i vivi). Un pamphlet pessimistico sull’esistenza, non disgiunto da quella bizzarra vena di umorismo che spesso posseggono i pessimisti. È una delle grandi esperienze cinematografiche del 2024 – che non nasconde di essere cinematografica, come mostra  – non senza un filo di ambiguità – il finale.


domenica 1 dicembre 2024

Il corpo

Vincenzo Alfieri

 “Il corpo” è il cadavere di una bella donna cinquantenne, morta d’infarto (fin dall’inizio, non è uno spoiler): è Rebecca (Claudia Gerini), ricchissima e alquanto crudele, che ha sposato (ovvero si è comprata) un marito squattrinato più giovane di lei, Bruno (Andrea Di Luigi). Dalla sua morte quest’ultimo ha tutto da guadagnare. Com’è, come non è, il cadavere scompare dall’obitorio. Un bizzarro ispettore di polizia (Giuseppe Battiston) indaga sul fatto, e convoca all’obitorio il vedovo tutt’altro che inconsolabile.
È un gioco al gatto col topo (l’ispettore non fa mistero di odiare Bruno) in un’interminabile notte piovosa, costellata di flashback. Anche se Il corpo è il remake di un film spagnolo, l’atmosfera di corruzione diffusa e di prepotenza (la beffa iniziale di Rebecca a Bruno) che vediamo squadernata in questi flashback può far pensare agli ambienti malati di Georges Simenon – mentre il fatto che, di fronte a questi strani avvenimenti, il vedovo comincia inevitabilmente a sospettare che la morta non sia proprio morta è suggerito da un vecchio, bellissimo thriller francese, I diabolici, di Henri-Georges Clouzot. Quel ch’è certo, le regole dell’indagine, come le vediamo nel film, non hanno nulla a che fare con la prassi italiana.
Il corpo è un giallo un po’ fatuo ma divertente, con una buona resa delle atmosfere, e fondato su un’implausibilità addirittura monumentale. Alla fine come tutti i gialli, mette in campo una soluzione (di cui com’è ovvio non farò parola), nella quale alcune apparenti falle logiche vengono tappate – ma al prezzo di un’inverosimiglianza ancora più grande di quella precedente. Ovvero, c’è nel film un doppio set di implausibilità, quella dell’indagine e quella della soluzione. Beninteso, la plausibilità nel cinema non è mai stata una legge assoluta. Ci sono autentici capolavori basati su un’improbabilità quasi sfacciata (uno per tutti: Detour di Edgar G. Ulmer). Ma si tratta di un gioco di prestigio che deve illusoriamente dar conto di tutto, come negli assurdi e meravigliosi romanzi di John Dickson Carr. Ne Il corpo, il primo set di assurdità non è interamente sanato dal secondo.
Infatti nel cinema, accanto alle eventuali inverosimiglianze della trama, vi sono delle assurdità pertinenti all’universo diegetico che mettono in crisi la croyance. Per intenderci, se nel presente film, d’un tratto, il corpulento Battiston facesse un balzo verso l’alto di due metri afferrandosi con le mani a una modanatura del soffitto, la nostra sospensione dell’incredulità ne uscirebbe irrimediabilmente compromessa (mentre in altro contesto lo accetteremmo da John Wick).
Non succede questo ne Il corpo, ma – attenzione, seguono spoiler – riguardo all’atteggiamento dell’ispettore e del suo aiutante verso l’ambiguo Bruno, che è sospettato ma convocato come testimone, i conti non tornano. In Italia, un paese in cui (purtroppo!) un poliziotto che spara a un criminale armato che lo minaccia trova il magistrato che lo manda sotto processo, quello che l’ispettore si permette con Bruno integra una serie di autentici reati, non escluso il sequestro di persona – culminando in una delirante scena di confessione al registratore in una cappella davanti a un pubblico di poliziotti-spettatori. La soluzione finale ne dà una spiegazione psicologica – ma non lo rende credibile. Eppure la soluzione c’era: non si capisce perché gli sceneggiatori (Vincenzo Alfieri e Giuseppe Stasi) non abbiano ambientato il film in qualche paese europeo diverso dall’Italia: bastava cambiare i nomi.
Come già detto, Il corpo è il remake di un fortunato film spagnolo del 2012, El cuerpo di Orion Paulo, che ne ha già avuti un paio. Questo regista e sceneggiatore ha girato nel 2016 Contratiempo, altro giallo che pure ha avuto dei remake internazionali, fra cui l’italiano Il testimone invisibile e l’eccellente coreano Confession (Jabaek) di Yoon Jong-seok, visto al Far East Film Festival 2022. Anche in Contratiempo l’intero svolgimento viene ribaltato dalla rivelazione finale di una simulazione che ridefinisce tutto il film; però in questo caso (almeno nel film coreano) il gioco di prestigio era perfettamente riuscito e lo sviluppo appariva del tutto credibile. Se lo menziono, non tanto è per paragonarvi sfavorevolmente Il corpo quanto per far notare la somiglianza strutturale fra le due storie.
Attrice dotata e coraggiosa, Claudia Gerini, che esibisce una splendida nudità sia da viva sia da morta, è la migliore in campo, tratteggiando un ottimo ritratto di dark lady borghese: in fondo non chiede altro che di godersi il marito, al quale ama fare scherzi cattivi (esagerata ma bella la scena della piscina). Giuseppe Battiston è bravo come sempre, sebbene l’implausibilità di cui si è detto pesi molto sul suo personaggio. Altri personaggi o non hanno gran consistenza o escono dal film letteralmente circonfusi da un’aura di incredibilità assoluta. La buona regia di Vincenzo Alfieri, coadiuvato dall’abile montaggio dello stesso e dalla fotografia di Andrea Reitano, è fondamentale nel tener su il film.

domenica 24 novembre 2024

Giurato numero 2

Clint Eastwood

Fa male a vedersi”, lo splendido e terribile Giurato numero 2 di Clint Eastwood – per la potenza con cui ci parla del dolore umano e di scelte che sono comunque perdenti; e per il modo in cui (contro le antiche e onorate regole hollywoodiane) lascia il giudizio morale interamente a noi spettatori. Non è un film testamentario (semmai lo era Cry Macho), è un dramma morale basato su un’ipotesi, che pone un problema, impone una riflessione.
Si tratta di un courtroom drama, un dramma giudiziario, su un processo magnificato dal bellissimo montaggio di di David S. Cox e Joel Cox: nota come vengono alternate velocemente, contro l’ordine temporale oggettivo, le arringhe finali dell’accusa e della difesa, mettendole in parallelo come se fosse un dialogo. Per l’omicidio di una donna, trovata morta in un burrone mesi prima, viene processato il suo fidanzato, un pregiudicato che era stato visto litigare furiosamente con lei. Un courtroom drama e non un thriller ma una tensione da thriller lo attraversa. Bisogna aggiungere che tale tensione dapprima è legata allo sviluppo narrativo (cosa accadrà?); poi, senza abbandonare questo, si allarga al piano morale (cosa è giusto fare?).
La prima votazione vede undici giurati contro uno, come nel famoso Twelve Angry Men (La parola ai giurati) di Sidney Lumet (1957). In quel film l’unico innocentista, Henry Fonda, si batteva per rovesciare il verdetto in una tesa memorabile discussione. Ma Henry Fonda serviva imparzialmente la verità. Qui – attenzione, seguono spoiler: la lettura è per chi ha già visto il film – il giurato numero 2 (Nicholas Hoult), Justin, ex alcoolizzato guarito, la cui moglie aspetta un bambino, ha un motivo personale. Eastwood (su sceneggiatura di Jonathan Abrams) mette le carte in tavola già all’inizio. All’inizio del processo, nell’illustrazione preliminare del caso da parte dell’accusa, gli ossessivi primissimi piani di Justin (laddove ordinariamente ci si aspetterebbero i controcampi dell’imputato) sono un modo abile per dirci senza bisogno di dialogo che il vero imputato è lui, non davanti alla legge ma alla coscienza, e alla sua paura. Infatti, per un perfido gioco del destino, Justin è moralmente innocente ma tecnicamente colpevole proprio della morte della ragazza. L’aveva investita lui in quella lontana notte di pioggia battente, e credeva di aver colpito un cervo poi fuggito; in realtà la donna era stata scagliata nel burrone oltre il parapetto. Ma se Justin lo dicesse adesso, nessuno crederebbe a un ex bevitore (che per di più quella notte aveva ordinato al bar un whisky senza poi berlo), e lo aspetterebbero molti anni di carcere. Di qui il suo tentativo di far sì che l’imputato sia assolto, giocando sulla tenuità delle prove, però senza autodenunciarsi – ma anche il suo doppio gioco quando un altro giurato, un ex poliziotto (J.K. Simmons), si avvicina troppo alla verità.
Il film si apre con l’immagine della moglie di Justin con una benda sugli occhi: è per farle trovare una sorpresa in casa, ma anticipa in modo geniale e impressionante il grande tema del film, che è la giustizia. Il che fare della giustizia quando ogni scelta a disposizione è distruttiva – e, in una parola, ingiusta. Il protagonista è innocente come l’imputato; confessare salverebbe l’accusato dall’ergastolo ma distruggerebbe, oltre che lui stesso, la sua famiglia. Il dilemma si duplica nell’ambiziosa, ma onesta, pubblica accusatrice Faith (una Toni Collette da Oscar), che ha investito molto su questo processo per la sua carriera, e viene a scoprire con orrore la verità.
Con un finale aperto (non è detto che Faith sia venuta per arrestare Justin, benché questa sia l’interpretazione più probabile) che si chiude sul campo/controcampo dei due, Eastwood e Abrams rinunciano a ogni sorta di soluzione che metta un punto fermo in positivo o in negativo (esempi immaginari, l’imputato muore in cella, Justin si consegna con nobili parole, Justin si uccide, Faith decide di lasciarlo andare, salta fuori un testimone deus ex machina, un pazzo confessa di avere ucciso lui la donna anche se non è vero). Siamo lasciati soli a decidere.
Se ci prendiamo la responsabilità di rispondere che Justin deve cadere, tutto diventa un Fiat Iustitia, pereat mundus inumano. Ma se ci prendiamo la responsabilità di rispondere – come chi scrive queste righe – che è giusto che Justin si salvi a spese dell’imputato (che è stato uno spacciatore), in una sorta di bilancia dei mali… non solo il concetto base del giusto processo è tradito, ma non possiamo chiudere gli occhi davanti al fatto che Justin se la cava personalmente assai bene (nessuno è innocente!), e ci torna in mente il rassegnato cinismo di Martin Landau alla fine di Crimini e misfatti di Woody Allen, altro capolavoro sulla questione morale.
Non è un quiz. Eastwood in questo film ci pone di fronte all’essenza della tragedia, dove non c’è soluzione rispetto alle forze contrastanti che lacerano la vita del protagonista. Non c’è composizione, non c’è possibilità di battersi come Richard Jewell, altro protagonista di una situazione kafkiana; c’è solo il male dell’esistenza, con la spietatezza di un Cornell Woolrich. In tutta la sua carriera, prima nelle forme del cinema di genere, poi andando oltre il cinema di genere senza rinnegarlo, Clint Eastwood ha dibattuto gli stessi temi: la responsabilità, il pentimento, la scelta, la giustizia sostanziale, il destino, cosa significa essere un uomo. Ora novantaquattrenne, con una perfetta regia di sobrietà classica
riprende la sua riflessione in questo film non solo profondamente ma anche dolorosamente umano.