domenica 14 aprile 2024

I misteri del bar Étoile

Dominique Abel & Fiona Gordon

Eccentrico e clownesco (un aggettivo amato dai due autori), I misteri del bar Étoile di Dominique Abel e Fiona Gordon – interpreti e registi, nonché marito e moglie – si ispira in chiave comico-malinconica ai film thriller, pur non essendo esattamente una parodia. Boris, un ex terrorista, vive nascosto lavorando come barista; una sua vittima che ha perso un braccio in un suo attentato lo scopre e vuole ucciderlo (ma il braccio meccanico va per conto suo come quello dell’ispettore Kemp in Frankenstein Junior). L’amante di Boris, Kayoko, e il loro amico Tim hanno un piano: sostituire a Boris un suo perfetto sosia, l’inconsapevole Dom, in modo che venga ucciso lui. Intanto entra in scena l’ex moglie di Dom, un'investigatrice privata depressa e totalmente kaurismäkiana, di nome Fiona. Bastano i nomi Dom(inique) e Fiona per capire chi li interpreta.
In questo film pieno di dolore universale (e di protesta sociale) il riferimento più immediato è per l’appunto alle semi-commedie di Aki Kaurismäki, di cui il film riprende – ai limiti del derivativo – lo humour freddo e distaccato, i volti impassibili, i colori bizzarri, gli ambienti poveri e tristi. Basta spingere appena un po’ avanti la rotella dell’osservazione della vita reale, ed essa lascia trasparire la sua assurdità; lo sapeva bene anche Jacques Tati (del resto, certi ambienti, come il piccolo bar, sono pura Tativille).
Di diverso rispetto a Kaurismäki c’è un amore degli autori per il movimento meccanico e coordinato, che fa pensare a certe comiche mute, e sfocia in un balletto finale. Fra gli interpreti, tutti bravi, sotto questo punto di vista è la migliore è la giapponese Kaori Ito (Kayoko), che non per nulla nella vita reale è una ballerina famosa. Non ci stupisce: la gestualità comico-meccanica che il film le richiede è ben presente nella commedia giapponese. Il modo da giocoliere – e molto sexy – in cui lei usa il piede nudo in una scena farebbe impazzire Quentin Tarantino.
C’è molto di bello nel film: gag che funzionano, attori in gamba, corretto senso dei tempi; tanto da far passare un’ora e mezza piacevoli… anche se, misteriosamente, l’insieme non fa clic. Almeno fino a due terzi di durata, I misteri del bar Étoile resta nella memoria più come un’antologia di “pezzi unici”. Il meglio sono certi tocchi di poetica bellezza in momenti “laterali” come la prima visita di Fiona al cimitero, davanti alla tomba di una bambina, con quella lacrima buffamente abbondante che scende da sotto gli occhiali neri – lancinante commento a una storia intuibile e non raccontata.

martedì 9 aprile 2024

Il teorema di Margherita

Anna Novion

C’è un aspetto assai positivo nel piacevole Il teorema di Margherita, coproduzione franco-svizzera di Anna Novion, ed è di saper destare l’interesse (non diciamo la comprensione) dello spettatore per l’alta matematica.
Dimostrare la congettura di Goldbach è, apprendiamo, il Santo Graal dei matematici; ed è il sogno di Marguerite, brillantissima dottoranda, non un tipo semplice con cui trattare. Stimolata da un professore opportunista – il film rende con intelligenza il sospetto inconscio di quest’ultimo che la sua allieva sia più brillante di lui – si produce davanti a una platea di giovani matematici come lei in una dimostrazione pubblica che crede incontrovertibile, ma che viene messa in crisi da un’obiezione del collega studente Lucas. Marguerite abbandona rabbiosamente l’aula; il suo professore opportunista la molla; lei molla l’università. Giura di non occuparsi più di matematica, va ad abitare con una ballerina e per sbarcare il lunario diventa una giocatrice professionista di mahjong (delizioso: la matematica, uscita dalla porta, rientra dalla finestra).
Un punto di forza del film è la splendida interpretazione di Ella Rumpf, fenomenale fin dalla scena iniziale dell’intervista (in contrasto, il giovane Lucas, l’attore belga Daniel Frison, sembra un po’ troppo normale – e con una carineria molto francese – per essere del tutto credibile nel suo ruolo di vice-genio della matematica). C’è in questa ragazza occhialuta, chiusa, tetragona, una caratteristica che evidentemente unisce i grandi matematici ai grandi artisti: una sorta di lucida monomania. Marguerite si è chiusa all’esterno – a qualunque stimolo esterno che sia un po’ impegnativo, intendiamo, perché con l’amica Noa, che è il contrario di lei, sta benissimo; già con la madre è più difficile. Se poi parliamo del sesso, poi, non ci sono problemi con un giovane che invero avrebbe dovuto interessarle come specimen, perché potrebbe essere il peggior attore della storia del cinema francese. Ma non quando si ipotizzano legami più profondi, e qui entra in gioco Lucas. In effetti Marguerite è un po’ la valchiria di Wagner, serrata da una barriera di calcoli invece che di fuoco. Siccome poi i film devono avere l’happy end, a differenza della vita, alla fine la barriera cadrà.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, è quando il film si allontana dalla matematica che diventa, non diremo banale, ma meno interessante. Tuttavia, per lo più è attratto dalla forza di gravità delle enormi lavagne nere ricoperte di calcoli (grande il modo in cui Marguerite risistema o devasta, dipende dai punti di vista, il suo appartamento in affitto). Lavagne che non sono quelle dei fratelli Coen in A Serious Man, ironica meditazione sull'incomprensibilità del mondo, ma sono il terreno di un percorso di scoperta e autoaffermazione.
La cosa notevole è che questo percorso di autoaffermazione ci appassiona anche se non comprendiamo lo sviluppo del lavoro (quando a un certo punto lei ha un’illuminazione, grazie a un foglio capovolto, la natura di quest’illuminazione ci resta oscura). Dobbiamo fidarci sulla parola, e dire come il sagrestano portinaio in Manzoni: “Basta! lei ne sa più di me”. E quando Marguerite alla fine ottiene un classico trionfo all'americana, tutti noi spettatori siamo felici – anche quelli fra noi che non distinguono una sottrazione da una radice quadrata.

venerdì 29 marzo 2024

Priscilla

Sofia Coppola

Pur non rientrando nel novero delle opere principali di Sofia Coppola, Priscilla è un film notevole. È la storia del matrimonio fra Elvis Presley e la giovanissima Priscilla, incontrata quand’era poco più che una bambina, raccontata dal punto di vista di quest'ultima e tratta dalle sue memorie; accanto al bravo Jacob Elordi (Elvis), la protagonista Cailee Spaeny è magnetica nel rendere la trasformazione da ragazzina del liceo a moglie innamorata – e infelice. Finché arriva il momento che non regge più, e in una bellissima pagina finale se ne va, sulle note piene di decisione e di amarezza di I Will Always Love You di Dolly Parton. Sul piano musicale questo è un film su Elvis senza Elvis (non sono stati concessi i diritti) ma Sofia Coppola, di cui ricordiamo l’uso originalissimo del rock in Marie Antoinette, ha risolto l’impasse con una splendida score curata dal marito Thomas Mars.
Sotto lo sguardo di Priscilla (lo sguardo è la struttura portante del film, e anzi un doppio sguardo: quello della protagonista e quello della regista, che ora si fonde col suo, ora rimane distaccato e oggettivo), emerge il ritratto di Elvis come un egocentrico, sempre più dipendente dalle pillole, che vede la moglie come una bambola da vestire come vuole lui, un marito-padrone infedele e bugiardo, con improvvisi scoppi di violenza seguiti da scuse lacrimose. Il montaggio di Sarah Flack, coi suoi stacchi netti e laconici, è un capolavoro: tutti i giovani aspiranti montatori dovrebbero studiarlo, e anche qualche regista.
Priscilla contiene in modo quintessenziale tutti i temi di Sofia Coppola, autrice di estrema coerenza: l’adolescenza, lo spiazzamento, una perplessa sospensione, il sogno di fuggire. Tutti i suoi personaggi si sentono lost (come Lost in Translation), tutti sognano un Somewhere, un “altrove” indefinito. Priscilla crede di trovarlo nell’amore di Elvis – solo per ritrovarsi nella gabbia dorata di Graceland, il suo regno con tanto di cortigiani ossequienti. Ricordiamo che Sofia Coppola ci ha sempre raccontato le storie di giovani donne imprigionate... le “vergini suicide” del suo folgorante film d’esordio.
C’è da dire però che nei migliori film di Sofia Coppola troviamo uno stato della visione come stupefazione, una visione trasognata, dreamlike. Anche a parte i primi due, seminali suoi film, bene si vedeva in Somewhere, anche quello ispirato a un divo dello spettacolo (immaginario però). Priscilla era adattissimo per tutto ciò; che però rimane ancorato alla protagonista, più concentrato in uno studio psicologico del personaggio che allargato al film. Manca qualcosa. Nonostante questo, il film è bello (non è il fallimento di Bling Ring) – e non ci dimenticheremo di Priscilla.

venerdì 22 marzo 2024

Another End

Piero Messina

Dietro l'intelligente film di fantascienza filosofica/psicologica Another End, diretto da Piero Messina (è un film italiano. parlato in inglese e spagnolo) si intravede l’ombra di Philip K. Dick e della fantascienza cyberpunk – nonché, a livello immediato, la suggestione di quel cinema fantastico orientale che tratta della possessione. Ma andando più in là, non possiamo non riconoscere il mito di Orfeo ed Euridice: riportare la persona amata dall'oltretomba e vedersela sfuggire dopo uno sguardo.
In un futuro prossimo, la società Aeterna vende una sorta di ritorno dei defunti a tempo. I morti si possono far rivivere per un breve periodo innestando la loro memoria nel corpo di “ospiti” volontari anonimi (il testo italiano li chiama in modo suggestivo locatori/locatrici, quello inglese ha un più semplice host). Così queste memorie viventi dentro un corpo estraneo possono frequentare brevemente i loro cari, in modo che questi ultimi possano elaborare il lutto e dare loro un addio; ma è importante che non venga loro rivelato che sono morti. I locatori non mantengono alcun ricordo dei periodi in cui “sono un altro” (tanto che un personaggio, Ava, paragona la possessione al suicidio). Alla fine di un numero d’incontri prefissato, quando il locatore si addormenta la memoria del morto svanisce per sempre.
Sul piano strettamente logico, il presupposto è evidentemente fragile; ma questo non affligge la costruzione narrativa del film, che vuol essere un conte philosophique e insieme un dramma sentimentale. Il protagonista Sal, che da poco ha perso la moglie in un incidente, è fratello di un’impiegata di alto livello della Aeterna, Ebe, la quale (non senza alcune violazioni delle regole) gli fa incontrare la moglie morta Zoe nel corpo della prostituta Ava. Ma Sal non si rassegna alla futura perdita di Zoe resuscitata, riesce a rompere la barriera dell’anonimato e incontra Ava nella sua vita vera. Qual è il rapporto tra corpo e anima? Tra l'apparenza fisica e l’identità? Cosa significa il soma in rapporto alla mente? E inoltre: è giusto, è saggio, richiamare indietro i morti? Chi ama veramente Sal? Se dapprima è perso dietro Zoe ritornata, comincia ad amare Ava – oppure si è creato un incrocio fra le due donne (nota che Ava, inusualmente, ha dei frammenti di ricordo di Zoe)? Peraltro, senza fare spoiler a questo punto, una sorpresa finale ridefinirà il quadro.
Questo è il primo problema sotteso alla vicenda, ed evidentemente è solo uno dei temi sui quali questo film stimola la riflessione. Un altro, che il film esprime in particolare in un personaggio secondario, è quello della miseria della perdita: per cui chi ha perso uno o più esseri amati (il marito e la figlia in questo caso) si rassegna, faute de mieux, a ritrovarli per breve tempo in un corpo diverso. Un altro, non trattato, riguarda questa vita umbratile dei morti dal loro punto di vista. Ancora un altro tema sotteso è lo sfruttamento dei corpi dei locatori e delle locatrici – notevoli le scene quasi horror nell’enorme deposito della Aeterna – in un’interessante prosecuzione futuristica di quell'affitto dei corpi (femminili: il cosiddetto utero in affitto) che è finora il massimo cui sia arrivata la vampirizzazione contemporanea, ma che – ci insegna anche questo film – trova certamente nuove frontiere.
Se il protagonista Gael Garcia Bernal (Sal) ha una sola espressione mesta (benché giustificata) in tutto il film, Bérénice Bejo (Ebe) e Renate Reinsve (Ava) sono eccellenti. Il film delinea una visione del futuro (ottimo il lavoro della scenografa Eugenia Di Napoli) tanto più inquietante in quanto disegnata quietamente, matter of fact, senza toni urlati.
Vale la pena di soffermarci un attimo sul simbolismo di alcuni nomi. Ebe è la coppiera degli dei, dispensatrice del nettare e dell’ambrosia, ossia il cibo dell’immortalità; e qui, come funzionario della Aeterna, offre una (imitazione di) immortalità resuscitando i morti. Zoe significa vita: è un paradosso, perché Zoe è morta, ma certamente rappresenta l’unica possibilità di vita per il protagonista, il quale si aggrappa ciecamente a lei (all’inizio del film tentava il suicidio). Ma non sembra gratuita la posizione di Ava e Zoe ai due estremi dell’alfabeto. Ava, pur essendo disperata della sua vita misera, rappresenta un principio di concretezza vitale (nota il suo discorso sprezzante su quei “deficienti”, morons, che vogliono reincontrare i loro morti). L'ipotesi, qui accennata, che Sal possa amare Ava per sé, “superando” Zoe, abbandonerebbe la sequenza rovesciata Z-A per rimettere la serie (la vita) sulle sue gambe ripartendo da A.
A questo punto però – attenzione, lettore! Arriva uno spoiler radicale, per cui il consiglio è che continui a leggere solo chi ha già visto Another End – si rivela il trick del film. Scopriamo che anche Sal è morto insieme a Zoe nell’incidente; l’uomo che abbiamo visto in tutto il film è solo il contenitore di una memoria, a opera di sua sorella Ebe.
Alla fine del film, accanto ad Ava già libera dalla possessione, anche quest'uomo si addormenta – e così, Sal svanisce. Lo sguardo che i due si scambiano al loro risveglio alla fine del film, in un bel campo/controcampo sul letto, è uno sguardo vergine. Potrebbe essere un inizio, o una fine.

lunedì 18 marzo 2024

Drive-Away Dolls

Ethan Coen

Nella deliziosa commedia lesbica a base pseudo-thriller Drive-Away Dolls di Ethan Coen, Jamie (volitiva, promiscua, sboccata, un po’ incosciente) è in viaggio verso Tallahassee, Florida, insieme alla sua amica Marian (seria, severa, lettrice di Henry James, un po’ repressa), per andare a trovare la zia di quest’ultima. Il guaio è che la Dodge che hanno noleggiato è stata data loro per equivoco: era destinata a un trio di gangster che dovevano portare a Tallahassee una valigetta nascosta nella macchina.
Quando la coppia Coen si separa in due entità individuali, la bravura registica rimane, ma sembra perdersi, almeno in parte, quella qualità imperscrutabile che evidentemente nasceva dall’amalgama dei due. Se dovessimo provare a separare le influenze dei fratelli Coen sul loro cinema (agli inizi solo Joel firmava la regia, ma le opere sono sempre state frutto di entrambi) alla luce dei due film che hanno diretto dopo una speriamo provvisoria separazione, verrebbe voglia di pensare che in Joel prevalga l’elemento tragico-filosofico (da solo ha diretto un Macbeth in b/n, buono ma molto debitore a Welles) e in Ethan l’elemento colorato e farsesco. Chiariamoci, sicuramente non c’è una distinzione così netta, ma va detto che nel Macbeth di Joel non c’è la “follia” coeniana mentre nell'adorabile Drive-Away Dolls di Ethan la follia non raggiunge il livello di nichilismo cosmico dei film della coppia.
Perché dietro le opere dei Coen come coppia c’è la consapevolezza di un immenso mondo buio, dominato nella forma tragica dalla violenza e dal fallimento, nella forma comica dalla stupidità. Anche le commedie più esilaranti, come Burn After Reading, hanno un sapore di fondo drammatico e nichilista che rappresenta l’assoluta disperazione razionale sull'universo e sull’uomo. Totus mundus stultus. In questo buio brillano a volte alcune fiammelle, i “giusti”, come la poliziotta incinta di Fargo – che non servono a sollevare la situazione generale ma vi portano la loro piccola luce, equilibrando moralmente la presenza del male. Forse, secondo la leggenda ebraica, sono il motivo per cui Dio lascia esistere il mondo.
Drive-Away Dolls non si può dire che rientri appieno in questo schema. Questo non vuol dire che il film – scritto da Ethan con Trisha Cooke – non sia notevole: è bello ed è estremamente divertente. Aperto da titoli coloratissimi al neon, che sono puro Coen, cui segue una scena di folle crudeltà esilarante (idem), è un road movie a lieto fine. Mentre nel cinema dei Coen coppia il contenuto è l'assurdo e il punto fermo è la morte, qui il contenuto è l’assurdo (il MacGuffin è un dildo) ma il punto fermo è il matrimonio. Fra le due donne, naturalmente.
Bisogna segnalare per prima cosa la bellezza del dialogo: è una screwball comedy dei giorni nostri, lesbica e sboccatissima. I dialoghi fra Jamie e Marian, con la prima che cerca di far uscire la seconda dal suo guscio, sono umoristicamente raddoppiati da quelli fra i gangster Arliss e Flint (che voltano la stessa intenzione di didassi esistenziale in chiave puramente comica). Divertenti i riferimenti a Henry James, a Steinbeck, e non dimentichiamo l’accenno alla steiniana Alice B. Toklas nel nome di una cagnetta. Il montaggio (anche quello firmato da Ethan Coen e Trisha Cooke) è perfetto: non solo nell’interpunzione (grande una tendina trasversale che sembra “crollare” sull'immagine) ma anche e soprattutto per la logica e l’umorismo dei raccordi.
Tutto diventa una corsa in montaggio parallelo verso Tallahassee: le due ragazze, i gangster, più la durissima e rancorosa poliziotta ex fidanzata di Jamie, che vuole sbolognarle la cagnetta. Trattandosi di un road movie, è inevitabile che il racconto si strutturi in episodi, o tappe; ma per evitare che diventi una serie di vignette la sceneggiatura “recupera” i nuclei passati inserendo dei richiami (la ex poliziotta passa all'agenzia dove giace il gerente in precedenza pestato dai gangster, i due gangster interrogano la squadra di calcio femminile con cui le nostre hanno fatto un’orgia, e si fanno imbrogliare).
Il film contiene sequenze flashback/oniriche su due diversi livelli narrativi. Il primo (in realtà abbastanza forzato e inutile) è relativo alla giovinezza drogata del villain in capo, come sapremo alla fine. Il secondo invece è indovinato: è una rievocazione dell’adolescenza di Marian coi suoi trucchi per spiare la vicina nuda al bordo della piscina di là della staccionata. Per inciso, l’immagine della bella donna nuda che, chiamata in casa dal marito panzone, si infila gli stivali ha una misteriosa carica di erotismo fetish, che giustifica l’espressione della giovane Marian in primissimo piano.
Il film, naturalmente, deve moltissimo alle interpretazioni strepitose di Margaret Qualley (Jamie), con la sua sfrenata loquela texana, e Geraldine Viswanathan (Marian), con il suo gioco di occhi. Ma anche di tutti i personaggio secondari, nessuno escluso, anche se per ragioni di spazio vorrei menzionare solo Joey Slotnick (il pedante gangster Arliss). L’eccellente uso degli attori è una delle caratteristiche dello “stile Coen” – e questo né Joel né Ethan l’hanno perso nella separazione.

domenica 17 marzo 2024

La sala professori

Ilker Çatak

Se basta un granello di sabbia per inceppare una macchina perfetta, figuriamoci cosa può succedere in una scuola, che è un delicato esercizio di equilibrio instabile fra amministrazione dell'istituzione, insegnamento della materie e psicologia applicata. Ne fa fede il film tedesco “La sala professori” di Ilker Çatak, ambientato in una scuola dove si verificano vari furti. Una giovane professoressa (Leonie Benesch) scopre che mancano dei soldi dal giubbotto lasciato in sala professori. Ma ha lasciata aperta la sua webcam, e vi appare la camicia (non il volto) di chi frugava. Dal disegno della camicia individua la presunta colpevole e l’accusa, prima in un confronto personale senza esito, poi con la preside. Da ciò procede una serie di avvenimenti concatenati che significano rovina.
Questa storia di caduta su due livelli (l’insegnante in sala professori e l'insegnante in classe) è la parte interessante del film: possiede una logicità e una sorta di suspense del dolore, che brillano per contrasto in una drammaturgia per altri aspetti grezza e meccanica. In effetti bisognerebbe esser grati alla (possibile) ladra per averla messa in moto, giacché prima di questo avvenimento il film è puerile, con un comportamento degli altri insegnanti e della preside completamente irrazionale: un bambino di origine turca viene accusato di furto su basi debolissime. In realtà la sceneggiatura vuol solo dirci che le autorità scolastiche sono senza cuore, tant’è vero che l’istituto proclama di avere una politica di “tolleranza zero”. Ma quando abbandona le banalità “politically correct”, il film è convincente nel descrivere l’odissea della professoressa – che si rispecchia in quella del figlio dell’accusata – e riesce ad abbozzare alla grossa uno sguardo sulla scuola e sul ruolo dell’insegnante.

(Messaggero Veneto)

venerdì 15 marzo 2024

Dune - Parte due

Denis Villeneuve

Costa un po’ di fatica – e d’incertezza – commentare Dune: Part Two come un film a sé stante, perché… come si esprimerebbero i Fremen… è la parte mediana del verme: è il secondo atto in una trilogia che è una monumentale opera compatta. Dune: Part Two è grande spettacolo, indubbiamente entusiasmante; e come rozzamente si suol dire, avercene di film così. Anche al di là del racconto e delle sue psicologie, anche al di là della costruzione del mito e dei suoi problemi, basterebbe a nobilitare questa epopea del deserto il valore “grafico” dell’immagine, ossia l’azione in relazione al paesaggio (i Sardaukar che ascendono in volo sulla roccia, oppure Paul e Chani che si muovono all’unisono sulle dune di sabbia come in un balletto). Inutile menzionare la potenza dei grandi vermi che scorrono nella sabbia. Già lo sappiamo, Denis Villeneuve è un grande paesaggista, e i suoi esterni immaginari sono autentici dipinti.
Peraltro, comparando il presente film col precedente, è difficile sottrarsi all’impressione che la Part One fosse in qualche modo più affascinante. Non è solo questione di una distribuzione imperfetta dei tempi: l’attacco finale, che dovrebbe avere la portata catastrofica di un Götterdämmerung, appare un po’ accelerato rispetto alla tragica ampiezza (minuziosamente preparata dal racconto) dell’attacco degli Harkonnen nel primo film; e il duello finale fra Paul Atreides e Feyd-Rautha è addirittura “tirato via” (nel romanzo di Frank Herbert è più solenne ed emozionante, col cupo silenzio di Paul mentre si batte che destabilizza l'avversario).
Come che sia, la differenza fra i due film non è una questione di realizzazione del plot. I film di Dune sono la cronaca di un conflitto, idea centrale alla quale sono subordinati tutti gli aspetti. Nel primo film, il conflitto è esterno: il gioco di guerra tra le famiglie Atreides e Harkonnen (con la complicità nascosta dell'Imperatore) e la preparazione, non priva d’angoscia, della famiglia Atreides allo scontro. Così il tema base si allarga con violenza, “fugge” da tutte le parti: sul piano paesaggistico si allarga a più pianeti, sul piano interpersonale si allarga a più personaggi, ivi compresi i diversi membri di Casa Atreides. Nel secondo film, il conflitto è interno a una singola persona, è tutto giocato dentro Paul Muad'Dib, che non vuole essere il Mahdi, il messia dei Fremen, e non vuole andare a sud, dove la sua apparizione fra i “fondamentalisti” sarà il segnale della guerra santa che sterminerà miliardi di persone in tutta la galassia. Verso tale destinazione lo spinge la madre, Lady Jessica, contro di essa lo avvertono le sue visioni; ma Paul non può sottrarsi alla logica delle cose. È quindi corretto dire che in Part One la narrazione era centrifuga, mentre in Part Two è centripeta. Tutto tende a precipitare precipita dentro la soggettività di Paul, come in un buco nero: anche l'elemento avventuroso (gli attacchi agli Harkonnen), l’elemento “esotico” (gli Harkonnen, l’Impero), e perfino la storia d’amore con Chani, tutto è attratto e finisce subordinato al suo dramma: la lotta e poi la resa alla profezia.
Il più consistente degli sforzi del film per sfuggire a questa forza centripeta si ha nella grande pagina del mondo sotto il sole nero dove Feyd-Rautha festeggia il suo compleanno (bellissima la trovata dei fuochi artificiali “a macchia d’inchiostro”). Leni Riefenstahl, che nella prima parte era tenuemente nascosta dietro l’ombra di George Lucas, ora emerge in pieno, culminando nella parata sotto il sole nero: ora – in relazione all'esercizio del potere puro per il quale vivono gli Harkonnen – è apertamente esplicitata. Da notare che l’invenzione di questo sole con la sua luce particolare permette un lavoro sull’immagine che ha anche il vantaggio di rendere la CGI meno evidente.
Lo scontro di volontà fra Paul e la madre pone, in prosecuzione e sviluppo della Part One, il grande tema del rapporto fra il piano e il destino. Quella del Mahdi è una profezia che si autoavvera. Paul parla di propaganda delle Bene Gesserit che si è radicata, ma non può fare niente contro di essa, come mostrano le parole di Stilgar quando nega di essere il messia promesso: “Il Mahdi è troppo umile per dire che è il Mahdi”. Nei nostri giorni, in cui purtroppo abbiamo modo di studiare quotidianamente il pensiero paranoico e le teorie del complotto, è un meccanismo psicologico di facile comprensione.
Il peso che grava su Paul non deriva però solo dalla madre, divenuta un'inquietante santona dal viso tatuato, che comunica telepaticamente con la figlia, la futura (almeno in Herbert) Santa Alia del Coltello, nel suo ventre. Breve digressione: il punto in cui il film non solo si diparte di più dal libro ma tende al massimo la plausibilità è il fatto che – mentre in Herbert Alia è bambina al momento della resa dei conti (grande la sua apparizione in David Lynch!) – qui è ancora nel ventre della madre. Ciò restringe assurdamente i tempi della riconquista di Arrakis, a meno di non pensare a una gravidanza innaturalmente protratta.
Tornando a Paul, la rivelazione della sua discendenza dagli Harkonnen per parte di madre non è solo un colpo alla sua personalità, è la scoperta di una identità che scorre nel sangue. “Noi siamo Harkonnen – e sopravvivremo facendo gli Harkonnen”. Una spietata logica delle cose (e la visione dell’unica possibilità di sopravvivenza) lo porta a diventare ciò che non voleva. Così in Dune: Part Two il dramma di Paul si inscrive in una visione pessimistica universale, valida per tutta la saga: l’impossibilità della libera scelta.