sabato 27 gennaio 2024

Povere creature!

Yorgos Lanthimos

Il Frankenstein di Mary Wollstonecraft Shelley (1818, ripubblicato modificato 1831) non è semplicemente la storia di un mostro. Influenzato da Rousseau, nella vicenda del dottor Frankenstein e della sua creatura il romanzo dipinge in forma tragica la formazione intellettuale e morale di un uomo artificiale, tabula rasa, precipitato adulto nel mondo senza passare per l’apprendimento dell’infanzia (e rinnegato dal suo creatore per il suo aspetto mostruoso). Yorgos Lanthimos è sempre stato affascinato dal tema delle modifiche del/sul corpo umano, ma anche da quello del linguaggio. Così non stupisce il suo incontro col mito di Frankenstein; ce ne dà una riscrittura postmoderna con Povere creature! (Poor Things, sceneggiato da Tony McNamara dal romanzo di Alasdair Gray), che mette in risalto il doppio processo parallelo e in ultima analisi coincidente dell’acquisizione del linguaggio e della formazione dell'autocoscienza.

Entra in scena il dottor Godwin Baxter (Willem Dafoe), il “dottor Frankenstein” della situazione, dal volto pieno di cicatrici. I suoi studenti lo chiamano “il mostro”, ma nel film ci si riferisce a lui col non innocente diminutivo God (Dio). Quando Bella, la creatura, dirà nel film cose come “God my father” il doppio senso è evidente; questo si perde in traduzione, ed ecco un motivo (in aggiunta a quelli canonici) per vedere il film nella versione originale sottotitolata. Il gusto per il grottesco di Lanthimos (la cui cifra è una "sacra dismisura") si esplicita anche nello zoo frankensteiniano, capitanato da un’oca a quattro zampe – precedenti esperimenti del dottore – che compare nel film. Godwin Baxter porta in viso e sul corpo i segni degli esperimenti sadico-scientifici di suo padre, uno scienziato pazzo: come dire, è anche lui una sorta di mostro di Frankenstein, come se attraesse su di sé la carica di mostruosità del mito. Infatti la sua creatura Bella (Emma Stone, nell'interpretazione della sua carriera), non è un mostro bensì una donna bellissima, anche se ha una backstory particolarmente macabra.
Scopriamo Bella con gli occhi dell’ingenuo assistente dottor McCandless (Ramy Youssef); nel film ritorna per bocca di lei il bisticcio con Candles (candele), ironica allusione alla luce della conoscenza. Lo shock della scena del rospo mostra il grande tema narrativo del film, che si sviluppa a poco a poco: la formazione della coscienza nella creatura; in questo senso, fra tanti Frankenstein cinematografici, fra tante versioni e riscritture del mito, quella di Lanthimos è probabilmente l’opera cinematografica che lo ha meglio compreso. Se da Mary Shelley in poi lo scopo delle varie versioni è stato di delineare (certo, spesso per sommi capi) il modo di pensare del mostro, qui il film crea una cronaca rigorosa e credibile del suo svuiluppo; quello che appare più geniale, innovativo e psicologicamente plausibile è di dipingere uno sviluppo ineguale, a tratti, per cui le preoccupazioni illuministe di Mary Shelley vengono riprese e concretizzate – anche se in un modo che l’avrebbe scandalizzata.
Bella viene dal nulla”, dice God. Il suo sviluppo mentale parte da uno stadio iniziale tutto aggressività e infantilismo, dal linguaggio più che elementare, con una golosità sessuale del tutto opposta alle regole della morale vittoriana (e non solo): “Bella scoperto gioco gradevole”, annuncia tutta lieta a tavola (le citazioni sono dai sottotitoli della proiezione a Venezia). Lanthimos ha notoriamente uno sguardo piuttosto freddo, pur con tocchi di pietas, sulle emozioni umane. Ma Bella, creatura di laboratorio partita da zero, non è umana in senso stretto – o per meglio dire, è più umana degli altri. Proprio come Tod Browning, Lanthimos ha simpatia per i “mostri”.

Senza che Godwin si preoccupi di fermarla, Bella fugge a Lisbona col libertino Duncan (Mark Ruffalo). Il film ci scaraventa in un coloratissimo delirio steampunk (un tardo Ottocento con decisi elementi futuristici) che raggiungerà i tratti più folli nel disegno di Alessandria, una delle tappe del lungo viaggio. Quello spazio-tempo irreale che Lanthimos aveva creato coi grandangoli ne La favorita, qui è dato dall’ambientazione steampunk attraverso la CGI.
A Lisbona e in seguito, Bella si dedica con innocenza primigenia alla gioia del sesso e alla scoperta del mondo. Delizioso il modo in cui il suo linguaggio diventa sempre più preciso ma mantiene un elemento alieno e straniato (è l’aspetto più divertente del film, che senza essere una comedy è tuttavia gustosissimo). Questa creatura uscita da un laboratorio, magari si impaccia sulla sintassi ma ha un modo tutto suo di introdurre nel proprio discorso precisi termini medico-scientifici e concetti come “empirico”. Bella non comprende le metafore e intende tutto in modo referenziale (quando dopo un’assenza Duncan la rimprovera “Sei sparita”, lei: “No. Non si può sparire”). Più oltre nell’apprendimento, Bella prende a usare una sfilza di sinonimi attaccati, come se ciascuno portasse una sfumatura di significato per cui solo l’insieme riesce a trasmettere l’idea. Soprattutto, Bella non comprende le norme sociali che presiedono al linguaggio; non sa mentire: la sua innocenza è quella dell’herzoghiano Kaspar Hauser. Conseguente disperazione dell’innamorato Duncan – per la sua totale ignoranza del background di Bella, la figura di Duncan integra la classica “condizione ironica” : ovvero, soffre di una mancanza di competence rispetto agli spettatori.
Conveniva accennarne separatamente, ma contestualmente allo sviluppo linguistico di Bella Povere creature! (scandito in capitoli che sono altrettante tappe di un percorso sia materiale che interiore) ne traccia il completo sviluppo intellettuale, morale, anche politico. È insieme una satira sociale, un manifesto femminista-libertario e una riflessione sul libero arbitrio (anche questo si può riferire alla riflessione di Mary Shelley). Bella cresce come autocoscienza in stadi progressivi, imparando via via, ma sempre mantenendo un’alterità pressoché anarchica rispetto alle convenzioni della società, come Gulliver nei suoi mondi alieni; passando dalla scoperta orrificata della povertà estrema in Alessandria (“Il denaro è una malattia – e anche la sua assenza”) alla vita alla vita in un bordello a Parigi, che è un’affascinante riflessione sul sesso, fino al ritorno a Londra, per un capitolo finale, forse fattore di minore equilibrio nella tessitura del film ma comunque necessario allo sviluppo narrativo, completando la backstory e aprendo alla conclusione. Una conclusione di trionfale liberazione, in un frankensteiniano giardino incantato, dove Bella decide di diventare la prima donna laureata in medicina d'Inghilterra. Non è anche questo – agli occhi del maschilismo vittoriano – (sanamente) “mostruoso”?

venerdì 26 gennaio 2024

I dipinti di Antonella Peresson in mostra alla Einaudi-Gaspari

 

I dipinti di Antonella Peresson non sono mai superfici lisce. Fin dagli inizi, in cui si vedeva l’influenza di Guttuso, ha sempre posseduto una pennellata densa, pastosa, sensuale: una spessa materialità del tratto che dà un’evidenza tattile all’immagine e al gioco ricco del colore. La sua mostra dal titolo “Tracce – Storia di un percorso di pittura” alla Libreria Einaudi-Gaspari in via Vittorio Veneto 49 a Udine ripercorre una carriera pittorica che si muove con disinvoltura dal figurativo all'informale.
Parte dal figurativo, con la bellezza e l’esuberanza dei suoi nudi femminili o l’inondazione di una luce calda e meridionale nelle sue marine; è una vera pittura degli elementi, dove le figure non si inseriscono nel paesaggio ma vi si fondono, diventano terreno, acqua, roccia, in una percezione pánica e sempre fluente dell’universo. Però questa pittrice carnale e solare possiede un lato nerissimo che emerge nei dipinti raggruppati sotto l’ironico titolo “Cuore di mamma”, che esplorano l’elemento di orrore implicito (e costantemente negato) presente nella gravidanza. Quella ricchezza della materia, quella natura “lavica” del tratto, viene incanalata nella cupezza del tema, eppure persiste, in una sorta di barbarica ricchezza.
Col tempo la pittura di Antonella Peresson si avvia sempre più verso forme espressioniste, testimoniate dai più recenti nudi e marine. Amante dei cicli tematici, mantiene volentieri l’aggancio al referente, ora in forma nettamente figurativa (la serie sulla malattia e guarigione) ora facendolo deflagrare in un’esplosione di luce e colore, come nei dipinti sulla Divina Commedia. Infine l’approdo all'informale le consente di articolare in forme di pura energia il suo eterno innamoramento del colore, fino alla ricerca metafisica della serie “Polvere di pensiero”.


(Messaggero Veneto)


domenica 21 gennaio 2024

Il maestro giardiniere

Paul Schrader

Torna Paul Schrader! La stella del regista di Hardcore, American Gigolo, Il bacio della pantera, nonché sceneggiatore (ai limiti del coautore) di quattro film di Martin Scorsese, si è – a torto – alquanto offuscata nell’ultimo ventennio, anche per la sua coerenza e la sua irriducibilità alle tendenze. Il suo ultimo film, Il maestro giardiniere, è passato alla Mostra di Venezia nel 2022 ma solo quest’inverno è uscito, un po’ alla spicciolata, sugli schermi italiani.
Se nel precedente Il collezionista di carte si coglieva una difficoltà a unificare le varie linee, pur se l’insieme produceva comunque un film ammirevole, Il maestro giardiniere richiama, nella sua tessitura poetica e coerente, lo Schrader migliore. Paul Schrader ci parla sempre di solitudine e redenzione, o crocifissione; i suoi personaggi devono traversare il deserto del passato e della colpa. È un percorso bressoniano, e ricordiamo l’amore del regista per Pickpocket, citato esplicitamente nel finale di American Gigolo. Narvel Roth, il maestro giardiniere eponimo (Joel Edgerton), è un uomo solitario, segretamente segnato (non solo nell'anima: porta il suo passato tatuato sulla schiena), che cura con competenza il grande giardino di proprietà di una milionaria (Sigourney Weaver) che è anche la sua amante. L’arrivo di Maya, una giovane apprendista con problemi di droga alle spalle (Quintessa Swindell, provoca una crisi tanto fra le persone quanto in relazione alla sopravvivenza stessa del giardino.
L'artificio del diario consente un’entrata non invasiva della voce narrante; ecco l’elemento di consapevolezza di molti personaggi schraderiani: è produttivo riflettersi in uno scritto. Nel rapporto di Narvel Roth con Maya – dapprima didattico e amicale, poi amoroso – c’è una strana connessione di paternità e sessualità: un tema, quello del padre, centrale in Schrader. Giocato sul peso della memoria, Il maestro giardiniere è un film psicologico ma teso, non privo di un lato di suspense e violenza (la “visita” di Roth agli spacciatori riporta un concetto di moralità western: oltre che Bresson, Schrader ama John Ford). Detto in margine, non manca l’interesse di Schrader per il cinema – che, sul piano biografico, scoprì tardissimo – e i meccanismi della riproduzione (pensiamo ad Auto Focus). C’è anche, in una corsa in auto nella notte, un’entrata improvvisa di CGI nel film: lungo i bordi della strada, fiori e piante sbocciano e fioriscono; poi tutta la strada diventa un prato.
Schrader ci introduce alla filosofia dei giardini: temperare il caos con l'armonia ma anche introdurre un po’ di disordine dove occorre, temperare gli opposti. “I giardinieri estirpano le erbacce”: questa semplice nozione è il concetto base: un faticoso miglioramento sia nello spazio esterno sia nello spazio interiore, in un giardino che è insieme molto concreto e molto metaforico. Anzi, dall’estirpare la malerba alla lotta agli afidi, dal ruolo del concime alla fioritura delle piante nello stesso momento (alcune vanno d'accordo, altre si sopportano a malapena), ricorda la poetica barocca il modo in cui tutta l’attività del giardiniere e e tutta la vita del giardino trovano una puntuale corrispondenza a livello di metafora (plurimetaforico, visto che in un’intervista Schrader ha menzionato il Guardino dell'Eden). Mette conto, qui, ricordare la grande costruzione architettonica del capolavoro Adam Resurrected, dove ogni passo, ogni figura, ogni movimento attiva il riconoscimento di correspondances. Schrader ama la metafora. La sua educazione calvinista, e quindi biblica, lo ha formato; il suo cinema assume sempre la forma della parabola. Il maestro 
giardiniere è insieme un manuale di giardinaggio e un manuale dell’anima.

sabato 13 gennaio 2024

Perfect Days

Wim Wenders

Di recente è stato rieditato il film di Wim Wenders Tokyo-Ga, del 1985, in cui il regista tedesco compie una triplice ricerca: della memoria del maestro giapponese Ozu Yasujiro con le sue immagini “chiare, pulite, trasparenti”; dell’eredità visiva di Ozu ormai perduta nella Tokyo contemporanea; e infine – la sua ricerca di sempre – dell’immagine pura, che abbia senso, nel diluvio di immagini odierno, nell’universo dei simulacri.
Col suo nuovo, splendido film Perfect Days Wenders, tornando a Tokyo, ha ripreso in mano il problema di Tokyo-Ga e gli ha dato una risposta affermativa e vincente: sì, è ancora possibile trovare la purezza dell’immagine. Perfect Days racconta le giornate “sempre uguali” di un addetto alla pulizia dei gabinetti pubblici di Tokyo, un uomo silenzioso, gentile, estremamente dedito al suo umile lavoro, interpretato da Yakusho Koji. Il signor Hirayama si sveglia, si lava, esce (la musica è diegetica: le audiocassette di Van Morrison e Lou Reed che ascolta in macchina), lavora, mangia in una tavola calda dove il proprietario lo accoglie ogni giorno con la stessa frase, va al bagno pubblico, torna a casa, stende il futon, legge, si addormenta; vediamo anche i suoi sogni. A ora di pranzo Hirayama mangia un tramezzino in un parco (nota come si inchina davanti a un torii prima di attraversarlo) e fotografa gli alberi, che sono amici, sentiamo nel film. Nelle sue foto cerca di cogliere quell’attimo irripetibile della luce che filtra tra le fronde (komorebi). Anche Hirayama cerca di raggiungere l'immagine pura, e infatti ne butta via molte. Il b/n accomuna le foto di Hirayama e i suoi sogni (leggiamo nei titoli di coda: dream installations di Donata Wenders, la moglie di Wim).
Con quieta intensità nella leggerezza del tocco Wenders traccia i gesti ripetuti della quotidianità conferendo loro una risonanza sobria e ammirevole che li carica di significato poetico; il senso ritornante del tempo ha qualcosa dello haiku nella sua contemplazione dell’esistenza. Un gioco di Hirayama con la nipote scappata di casa che passa alcuni giorni da lui rende perfettamente il concetto base della sua vita: lo vediamo quando giocano a ripetersi “La prossima volta è la prossima volta” mentre invece “Adesso è adesso” (imawa ima). “Adesso è adesso”: la perfetta concentrazione del tempo nell’istante, l’assolutezza del momento, nella consapevolezza dell’impermanenza, entro il grande flusso delle cose. Wenders crea un’opera che Ozu avrebbe apprezzato (occorre appena ricordare che Hirayama è uno dei cognomi ritornanti nell’opera di Ozu, che amava usare gli stessi nomi di film in film); al di là dello spirito, l’influsso di Ozu si sente in particolare in una scena, quella della canzone della padrona del bar. Perfect Days è una narrazione, ma non nel solito senso drammaturgico del cinema. È, potremmo dire, un racconto del non-racconto; qualcosa che Wenders ha spesso cercato, e qui possiamo citare un altro suo bellissimo film appena rieditato, Alice nelle città.
Il mondo è fatto di tanti mondi,” dice con la sua profondità tranquilla Hirayama alla nipote, “alcuni sono collegati fra loro, altri no”. Wenders, lo sappiamo, è sempre andato in cerca degli angeli, e in un certo modo anche Hirayama è un angelo. La sua muta gentilezza (se può, non parla mai) va dalle piantine che coltiva al giovane collega rumoroso e scemotto, alla nipote, all’uomo disperato che incontra nel finale; ma se c’è un episodio che la esprime con impalpabile delicatezza di filigrana, è quello della partita a “tondini e crocette” che gioca con uno sconosciuto attraverso un biglietto lasciato in un interstizio in una toilette. Si vorrebbero citare tanti altri dettagli e personaggi: perché questo film in cui sembra che non succeda quasi niente è gonfio di una incommensurabile vastità.
Quest’uomo è tutt’altro che privo di emozioni (il cinema wendersiano non è sempre una riflessione sul rapporto fra l’individuo e le sue emozioni?); ma le esprime solo quando è da solo. Con sorrisi segreti – o anche con il pianto, come dopo l’incontro con la sorella, o con il riso e il pianto insieme nel superbo finale in auto. Film antipsicologico (come in Ozu), tuttavia Perfect Days ci dice molte cose sul suo protagonista. Scopriamo che il signor Hirayama ha un passato (doloroso) alle spalle; ipotizziamo che forse possa avere un futuro diverso da quel suo presente continuo. Certi avvenimenti, come la visita della nipote, portano un cambiamento nella sua vita quotidiana. Ma questi sviluppi non determinano il racconto del film, non lo indirizzano, bensì vi vengono assorbiti, con una naturalezza sempre fluente.
Tutta l’operazione di Wenders non si sarebbe potuta compiere senza l’interpretazione dell’incredibile (è l’aggettivo che usa anche Wenders nei ringraziamenti a fine film) Yakusho Koji. Non è questione che Yakusho sia un ottimo attore: già lo conoscevamo come tale (The Woodsman and the Rain, Retribution, 13 assassini); ma in questo ruolo quasi muto fa di più. Mette in atto la capacità particolarissima di creare la comunicazione totale senza proferire parola, di trasmettere una comunicazione umana assoluta mediante i minimi movimenti del suo viso: una capacità che lo mette nella stessa categoria mimica di un Charlie Chaplin.

mercoledì 3 gennaio 2024

Ferrari

Michael Mann

Perché il bellissimo Ferrari di Michael Mann ci fa pensare a un western anche se non ne ha le caratteristiche? Perché quei valori fondanti su cui si è sempre esercitato il cinema classico americano, dal quale discende Mann, li ha espressi nella forma più pura nel western: sicché la forma richiama alla memoria il contenuto, in uno scambio di prospettiva (è questo l’equivoco di molti film catalogati con l’ossimoro di “western moderni”, come Il gigante). In Ferrari i temi portanti sono con tutta evidenza quelli, archetipali, del western: il Patriarca, la Difesa (del ranch o del cattle empire o qui dell’azienda), l’Eredità, la Gara come momento di prova della realtà.
Ferrari però è ambientato in Italia, un paese quanto mai avverso al western (tant’è vero che volendo farne ha dovuto inventarsene una variazione tutta sua, picaresca e barocca). In America non sarebbe possibile la frase di Ferrarti che l’unica cosa che gli italiani non perdonano è il successo. Gli americani hanno dei miti fondativi: questo non è concesso a Ferrari, tanto più che, come molti eroi manniani (il film concentra il ritratto biografico in un anno di vita del protagonista, il 1957), vive in un momento di trapasso valoriale: nello specifico, nell’Italia sul crinale fra la ricostruzione dopo la sconfitta e gli albori del miracolo economico che ne sarà la rifondazione – e inoltre in un momento difficile per l’azienda (la scena della telefonata di Gianni Agnelli).
Lasciando da parte The Fortress, che è altra cosa, Ferrari è il film più “esotico”, nel senso di immersione in una cultura non americana, di Mann. Nota in margine: da notare il bel lavoro sul dialogo inglese, con l’impiego di termini italiani in misura maggiore del solito. La sceneggiatura è di Troy Kennedy-Martin. Il film non è inficiato qualche piccola imprecisione di messa in scena storica (per esempio nel 1957 il celebrante avrebbe detto “Ite, missa est”, e le sirene nella scena del grande incidente hanno il suono sbagliato).

Alla base del film c’è un uomo (splendidamente interpretato da Adam Driver, a dispetto di Favino) imprigionato in una doppia coppia dove lui rappresenta il medio maschile: da un lato la famiglia istituzionale, con la moglie Laura (Penelope Cruz) che ha anche un potere economico su di lui, dall'altro la famiglia affettiva con l’“amante” Lina (Shailene Woodley), in realtà una moglie parallela, che gli ha dato un figlio che potrebbe sostituire quello morto. “Ho diritto a un erede”, dice Ferrari. Enzo Ferrari con le sue due donne non soffre di una scissione – l’uomo di Mann non è internamente scisso (la scissione semmai è tra lui e la società) – ma non ha la possibilità di scegliere; questa è la sua condanna, ed è anche il contrappasso di quel “muro” che (come dichiara nel film) ha eretto intorno alle proprie emozioni. L’eroe manniano, in ultima analisi, è sempre solo. Ferrari è un uomo che non parla; solo davanti alla tomba del figlio morto esprime quella debolezza che non gli è concesso di condividere con gli altri (nemmeno con l’amata Lina), raccontandogli quello che accade in una scena di confidenza commovente come John Wayne ne I cavalieri del Nord Ovest.
Individualismo di Ferrari! Anche in questo è in tutto e per tutto l’eroe manniano, caratterizzato da un professionismo che spesso confina, come nel presente film, con l’ossessione. Ferrari è chiuso nella sua missione, che non è economica – come per la rivale Maserati – ma sportiva: non gareggia per vendere auto, fabbrica auto per gareggiare (e c’è qualcosa di più manniano di una corsa su strada?)
Se tutto questo ci ricorda Howard Hawks, è giusto: Hawks è il grande nome da richiamare quando parliamo di Michael Mann. Del resto, si potrebbe ricondurre tutta la dialettica interna al cinema epico americano classico alla dialettica Ford-Hawks. I film di Mann contengono la vita, che, potremmo dire, “sfugge da tutte le parti”. Il grande obiettivo della narrazione moderna seguita al classicismo è di trasmettere questa caratteristica (quella classica la disciplinava nella reductio ad unum del racconto); e Mann è allo stesso tempo classico, perché il racconto è per lui l’istanza principale, e post-classico, perché non manca nel suo cinema l'apertura alla varietà della vita (e la consapevolezza aperta del linguaggio).

Sul piano tematico ritroviamo in Ferrari le categorie di Mann. La famiglia, di cui abbiamo già detto. Il doppio, qui con la moglie Laura che appare come doppio imperfetto (mentre per esempio in Heat si realizzava il doppio perfetto) – e in quanto tale, non può innestare il momento del riconoscimento che tanta parte ha in Mann. Il tormento del passato e la potenza della memoria; non a caso è centrale nel film quel “giardino di pietra” (come direbbe F.F. Coppola) che è il cimitero, il luogo del ricordo e del rimpianto. Il tormento del passato non è espresso a parole ma sopportato virilmente, ancora alla Hawks.
E naturalmente il tema, centrale, della visione: sul quale non mi soffermo perché posso rimandare a un magnifico articolo di Paolo A. D’Andrea (al quale sono fortemente debitore), Lo sguardo di Ferrari, che si può leggere online: https://www.eccedenzeblog.com/post/lo-sguardo-di-ferrari
Sul piano della scrittura ritroviamo naturalmente in Ferrari le caratteriste stilistiche di Mann, dallo stile di ripresa dei visi (primissimi piani stretti, dettagli che “tagliano”) al suo uso del ralenti: in particolare negli incidenti ritroviamo i “ralenti emozionali” manniani, che giustamente non sono estetici ma narrativi.

Esposto lungo le coordinate del pericolo e del destino, Ferrari è puro cinema epico. I piloti della Ferrari (più di quelli della Maserati) sono come soldati in guerra; e infatti, in una scena stupenda, la notte prima della corsa, come soldati la notte prima della battaglia, scrivono una (possibile ultima) lettera alle loro donne. Lo stesso afflato epico si ha in quel solenne “catalogo delle navi” che è la partenza delle auto, a turno, per le Mille Miglia, nella notte sotto la pioggia.
Non solo nella pagina paurosa dell’incidente, ma lungo tutto il film aleggia l’ombra della morte. Tutti i film di Michael Mann parlano della morte; ma è ovvio, perché Mann è un autore umanista, mette l’uomo al centro; e di che cosa è costituito l’uomo, al di là della carne? La società idiota contemporanea tende a nasconderselo: ma è costituito di realizzazioni, di memoria, e di finitezza (è la nostra mortalità ciò che ci rende umani).
C’è una commovente fragilità nell’aggrapparsi degli eroi manniani al loro bagaglio di ricordi – appunto perché non sono fordianamente inseriti nel processo di costruzione di una nazione (pur rendendosi conto di tutti i suoi limiti) ma sono soli. Ferrari però apre al futuro concludendosi su una discendenza ritrovata – ove il figlio illegittimo (che Ferrari potrà riconoscere solo dopo la morte della moglie) è una prosecuzione del padre, e fissa la sua missione nel tempo. Avviandosi con lui per la prima volta verso verso la tomba del figlio morto: “Vieni… ti presento tuo fratello Dino”.