Yorgos Lanthimos
Il Frankenstein di Mary Wollstonecraft Shelley (1818, ripubblicato modificato 1831) non è semplicemente la storia di un mostro. Influenzato da Rousseau, nella vicenda del dottor Frankenstein e della sua creatura il romanzo dipinge in forma tragica la formazione intellettuale e morale di un uomo artificiale, tabula rasa, precipitato adulto nel mondo senza passare per l’apprendimento dell’infanzia (e rinnegato dal suo creatore per il suo aspetto mostruoso). Yorgos Lanthimos è sempre stato affascinato dal tema delle modifiche del/sul corpo umano, ma anche da quello del linguaggio. Così non stupisce il suo incontro col mito di Frankenstein; ce ne dà una riscrittura postmoderna con Povere creature! (Poor Things, sceneggiato da Tony McNamara dal romanzo di Alasdair Gray), che mette in risalto il doppio processo parallelo e in ultima analisi coincidente dell’acquisizione del linguaggio e della formazione dell'autocoscienza.
Entra
in scena il dottor Godwin Baxter (Willem Dafoe), il “dottor
Frankenstein” della situazione, dal volto pieno di cicatrici. I
suoi studenti lo chiamano “il mostro”, ma nel film ci si
riferisce a lui col non innocente diminutivo God (Dio). Quando Bella,
la creatura, dirà nel film cose come “God my father” il doppio
senso è evidente; questo si perde in traduzione, ed ecco un motivo
(in aggiunta a quelli canonici) per vedere il film nella versione
originale sottotitolata. Il gusto per il grottesco di Lanthimos (la cui cifra è una "sacra dismisura") si
esplicita anche nello zoo frankensteiniano, capitanato da un’oca a
quattro zampe – precedenti esperimenti del dottore – che compare
nel film. Godwin Baxter porta in viso e sul corpo i segni degli
esperimenti sadico-scientifici di suo padre, uno scienziato pazzo:
come dire, è anche lui una sorta di mostro di Frankenstein, come se
attraesse su di sé la carica di mostruosità del mito. Infatti la
sua creatura Bella (Emma Stone, nell'interpretazione della sua
carriera), non è un mostro bensì una donna bellissima, anche se ha
una backstory particolarmente macabra.
Scopriamo
Bella con gli occhi dell’ingenuo assistente dottor McCandless (Ramy
Youssef); nel film ritorna per bocca di lei il bisticcio con Candles
(candele), ironica allusione alla luce della conoscenza. Lo shock
della scena del rospo mostra il grande tema narrativo del film, che
si sviluppa a poco a poco: la formazione della coscienza nella
creatura; in questo senso, fra tanti Frankenstein cinematografici,
fra tante versioni e riscritture del mito, quella di Lanthimos è
probabilmente l’opera cinematografica che lo ha meglio compreso. Se
da Mary Shelley in poi lo scopo delle varie versioni è stato di
delineare (certo, spesso per sommi capi) il modo di pensare del
mostro, qui il film crea una cronaca rigorosa e credibile del suo
svuiluppo; quello che appare più geniale, innovativo e
psicologicamente plausibile è di dipingere uno sviluppo ineguale, a
tratti, per cui le preoccupazioni illuministe di Mary Shelley vengono
riprese e concretizzate – anche se in un modo che l’avrebbe
scandalizzata.
“Bella
viene dal nulla”, dice God. Il suo sviluppo mentale parte da uno
stadio iniziale tutto aggressività e infantilismo, dal linguaggio
più che elementare, con una golosità sessuale del tutto opposta
alle regole della morale vittoriana (e non solo): “Bella scoperto
gioco gradevole”, annuncia tutta lieta a tavola (le citazioni sono dai sottotitoli della proiezione a Venezia). Lanthimos ha
notoriamente uno sguardo piuttosto freddo, pur con tocchi di pietas,
sulle emozioni umane. Ma Bella, creatura di laboratorio partita da
zero, non è umana in senso stretto – o per meglio dire, è più
umana degli altri. Proprio come Tod Browning, Lanthimos ha simpatia
per i “mostri”.
Senza
che Godwin si preoccupi di fermarla, Bella fugge a Lisbona col
libertino Duncan (Mark Ruffalo). Il film ci scaraventa in un
coloratissimo delirio steampunk (un tardo Ottocento con decisi
elementi futuristici) che raggiungerà i tratti più folli nel
disegno di Alessandria, una delle tappe del lungo viaggio. Quello
spazio-tempo irreale che Lanthimos aveva creato coi grandangoli ne La
favorita, qui è dato dall’ambientazione steampunk attraverso la
CGI.
A
Lisbona e in seguito, Bella si dedica con innocenza primigenia alla
gioia del sesso e alla scoperta del mondo. Delizioso il modo in cui
il suo linguaggio diventa sempre più preciso ma mantiene un elemento
alieno e straniato (è l’aspetto più divertente del film, che
senza essere una comedy è tuttavia gustosissimo). Questa creatura
uscita da un laboratorio, magari si impaccia sulla sintassi ma ha un
modo tutto suo di introdurre nel proprio discorso precisi termini
medico-scientifici e concetti come “empirico”. Bella non
comprende le metafore e intende tutto in modo referenziale (quando
dopo un’assenza Duncan la rimprovera “Sei sparita”, lei: “No.
Non si può sparire”). Più oltre nell’apprendimento, Bella
prende a usare una sfilza di sinonimi attaccati, come se ciascuno
portasse una sfumatura di significato per cui solo l’insieme riesce
a trasmettere l’idea. Soprattutto, Bella non comprende le norme
sociali che presiedono al linguaggio; non sa mentire: la sua
innocenza è quella dell’herzoghiano Kaspar Hauser. Conseguente
disperazione dell’innamorato Duncan – per la sua totale ignoranza
del background di Bella, la figura di Duncan integra la classica
“condizione ironica” : ovvero, soffre di una mancanza di
competence rispetto agli spettatori.
Conveniva
accennarne separatamente, ma contestualmente allo sviluppo
linguistico di Bella Povere creature! (scandito in capitoli che sono
altrettante tappe di un percorso sia materiale che interiore) ne
traccia il completo sviluppo intellettuale, morale, anche politico. È
insieme una satira sociale, un manifesto femminista-libertario e una
riflessione sul libero arbitrio (anche questo si può riferire alla
riflessione di Mary Shelley). Bella cresce come autocoscienza in
stadi progressivi, imparando via via, ma sempre mantenendo
un’alterità pressoché anarchica rispetto alle convenzioni della
società, come Gulliver nei suoi mondi alieni; passando dalla
scoperta orrificata della povertà estrema in Alessandria (“Il
denaro è una malattia – e anche la sua assenza”) alla vita alla
vita in un bordello a Parigi, che è un’affascinante riflessione
sul sesso, fino al ritorno a Londra, per un capitolo finale, forse
fattore di minore equilibrio nella tessitura del film ma comunque
necessario allo sviluppo narrativo, completando la backstory e
aprendo alla conclusione. Una conclusione di trionfale liberazione,
in un frankensteiniano giardino incantato, dove Bella decide di
diventare la prima donna laureata in medicina d'Inghilterra. Non è
anche questo – agli occhi del maschilismo vittoriano –
(sanamente) “mostruoso”?
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