Daniele Ciprì
Due nomi salgono alla mente vedendo “E' stato il figlio”, diretto e fotografato da Daniele Ciprì: N.V. Gogol' e Marco Ferreri. E' assolutamente gogoliana la monomania di Nicola Ciraulo (Toni Servillo), poverissimo pater familias della Palermo più misera, che campa recuperando ferraglia dalle navi in disarmo, assieme a un figlio malinconico e svaporato; ma quando l'adorata figlia bambina viene uccisa per sbaglio in un agguato di mafia, arrivano i soldi del “risarcimento” statale; e che ne fa Nicola? Convince la famiglia a comprare una Mercedes. L'auto diventa la ragion di vita del poveruomo - e qui è posto il seme della seconda e definitiva tragedia.
Il film è una discesa agli inferi in quattro movimenti: la vita familiare prima della morte della bambina; l'attesa spasmodica dei soldi dello stato, battagliando contro la burocrazia e intanto compromettendosi con un usuraio; il breve momento di “felicità” con la Mercedes; l'irridente e crudelissimo sviluppo finale. Come nel miglior Ferreri, “E' stato il figlio” è una commedia grottesca che va oltre il dolore implicito compreso nell'essenza stessa del comico per portare in primo piano come un grande affresco il dolore universale. Tragedia in chiave di commedia nera, è strutturata in quattro atti così fortemente segmentati da mettere a rischio l'unità del film se non funzionasse (oltre al connettivo del racconto coram populo a distanza di anni del narratore Busu: indimenticabile il suo sguardo sconvolto in macchina) il magnifico gioco d'insieme degli attori, vero elemento unificatore. Lasciano stupiti, tanto più in un film italiano, la perfezione e alla compattezza del lavoro attoriale. Se Toni Servillo, senza sorpresa, è magistrale, del pari lo sono Giselda Volodi e Aurora Quattrocchi (la madre e la nonna); e Fabrizio Falco, che era poco convincente in “Bella addormentata”, è invece ottimo qui nel ruolo del figlio.
Ciprì ha il diritto che non si assuma sempre la sua attività sotto il segno del lungo periodo di collaborazione con Franco Maresco (“Cinico Tv” e i due film collegati), ormai definitivamente concluso. Ma naturalmente c'è molto nel film che ricorda quella lunga epoca. Non solo alcuni dettagli estrinseci come i ciccioni sfatti (Giovanni sulla spiaggia) o nel finale quel paesaggio urbano popolato di cani randagi (già evocati in una notizia del giornale esibito in apertura) quando Busu ritorna tristemente a casa. Rientra nell'orizzonte morale di “Cinico Tv” quello sguardo “freddo” sul suo mondo – non sprezzante ma distaccato – dove la compassione è un'illusione ottica. Se ne allontana invece la costruzione solida della sceneggiatura, di Ciprì, Massimo Gaudioso e Miriam Rizzo, ispirata al romanzo di Roberto Alaimo.
L'incredibile evidenza dei visi, magari solo colti in un'auto che sorpassa per strada, si assomma a una regia sicura ed elegante, per quanto qui il termine strida con la materia. Penso per esempio alla bellezza dell'incrocio fra il carrello indietro della mdp e il passaggio laterale del treno, ritornante nelle scene con l'usuraio. Mentre “Cinico Tv” era puro barocco del disfacimento dei corpi, in “E' stato il figlio” Ciprì descrive una realtà orrenda senza ricorrere a barocchismi marcati - se non in alcuni passaggi di massima tensione narrativa ed espressiva: l'inquadratura “gridata” dall'alto nella scena della morte della bambina, tragica come una “Deposizione”; i forti PPP e dettagli quando la nonna, nel disastro del finale, prende il comando e impone una cinica linea di condotta come una Lady Macbeth dei quartieri bassi. In questa trasformazione della figura della nonna non vedi tanto il “familismo amorale” del Sud di cui tanto si parla dopo il famoso saggio di Edward Banfield, quanto il riemergere di una feroce (e ferocemente saggia) tradizione matriarcale.
Come la “Gomorra” di Garrone, la Palermo infima e degradata di Ciprì non è un luogo contaminato dal male, è esso stesso un atomo del male. Il termine abusato di inferno resta l'unico adatto a definire questo territorio e la vita miserrima che striscia nei suoi interstizi. Anche gli innocenti, che non sono solo i bambini, sono destinati alla perdizione. Che non è necessariamente la morte: sicuramente anche il giovane mafioso Masino ha giocato da piccolo in quel piazzale degradato; e il segno premonitore di un destino nero (non individuale ma collettivo) si può leggere nelle pistole con cui giocano le due bambine alla loro apparizione nel film, o nel gioco dei ragazzini di fare un falò nella piazza e farci esplodere bombolette vuote - gioco che congiunge l'innocenza infantile e l'illegalità adulta. Il film si conclude di fronte a un bambino triste davanti alla grande macchia di sangue sull'asfalto.
“Abbiamo l'idea di un Dio ormai impotente, che non può fare più nulla”, dicevano Ciprì e Maresco in una vecchia intervista. In “E' stato il figlio” vediamo più volte, sempre in quel piazzale, una figura ritornante: un anziano signore vestito di nero, con la barba bianca, che guarda muto e impalato. Dio forse? Chiunque sia, Dio o un uomo, è uno figura dello sguardo inane - che non può far altro che contemplare immobile l'assolutezza del male.
martedì 18 settembre 2012
martedì 11 settembre 2012
Bella addormentata
Marco Bellocchio
In un paese profondamente incivile, che trasforma in occasioncella politica qualsiasi cosa (vedi il Berlusconi testimoniato dal film), con “Bella addormentata” Marco Bellocchio ha fatto un film profondamente civile. Dove civile vuol dire qualcosa più che tollerante, vuol dire aperto. Non è che Bellocchio non prenda posizione; la sua prospettiva nel caso di Eluana Englaro, col suo conflitto fra cattolici e (in mancanza di una parola migliore) “laici”, sta decisamente nel secondo campo; ma non chiude sprezzante gli occhi di fronte all'altra parte, non ne fa la parodia. E' interessante che le figure più odiose che vediamo nel film non appartengano al campo, diciamo, cattolico ma all'altro: il ragazzotto fanatico e violento, il medico scommettitore.
Va detto che quel ragazzo è mentalmente disturbato e la carica di violenza che riversa sulla questione nasce da turbe personali; è un difetto del film che ciò non sia chiaramente enunciato, per cui il personaggio – al contrario di altre figure bellocchiane del passato – risulta troppo semplificato e volgarizzato (pare Er Pelliccia). Certo, il colloquio fra lui e il fratello nella parte finale del film arriva a conferigli una dimensione di verità; ma è una verità narrativa piuttosto che artistica - perché arriva tardi.
In una parola, “Bella addormentata” non è un film a tesi; il suo valore morale è di non chiudere gli occhi di fronte alla drammaticità della scelta e alle contrapposizioni che ne derivano. Perché un film a tesi nasce per risolvere, spazza via l'elemento opposto come il passivo di un bilancio; qui il dramma rimane intatto, non c'è una soluzione facile. La morte (e la vita-in-morte) mantiene tutta la sua tragicità. Al positivismo troppo facile del medico che all'inizio dichiara “Eluana è morta diciassette anni fa” si oppone il “Dove sei?” gridato da un altro personaggio a sua sorella in coma, Rosa.
Infatti il film gira intorno a tre “belle addormentate”: Eluana Englaro, mai enunciata sul piano visivo; Rosa, la figlia adolescente dell'attrice splendidamente interpretata da Isabelle Huppert; la drogata con istinti suicidi (Maya Sansa) vegliata in ospedale dal dottor Pallido (Pier Giorgio Bellocchio) – ed è lei a fornire quel “risveglio” che chiude su una nota di speranza il film. Salvo errore, è la prima volta che Bellocchio assume la forma “cronachistica” di diverse tracce di racconto interlineate. Il ricovero di Eluana Englaro alla clinica di Udine, con la contrapposizione fisica delle due parti davanti ai cancelli, è l'elemento catalizzatore di una serie di criticità personali. Il senatore Beffardo (Toni Servillo), socialista del partito di Berlusconi, è un laico che non si sente di aderire alla disciplina di partito, segnato dal ricordo della moglie malata terminale che gli aveva chiesto di aiutarla a morire. Sua figlia Maria (Alba Rohrwacher) è in rottura con lui e manifesta con i gruppi cattolici - ma si innamora di un ragazzo dell'altra parte (Michele Riondino), a sua volta fratello-guardiano del giovane schizofrenico che l'ha aggredita. Legata dalla contemporaneità che le didascalie rendono pressante, c'è poi la ragazza drogata con la sua chiusura nichilista alla vita; e c'è la madre di Rosa, che nella disperazione ha rotto con figlio e marito ed è diventata una sorta di Mater Dolorosa – ma in colloquio con un sacerdote sostiene di aver trasformato la sua vita di “santa” in una rappresentazione (un termine, questo, molto importante nel cinema di Bellocchio). Inoltre il discorso si allarga, scrivendo a mio parere le pagine più memorabili del film, all'ambiente politico nella sede del Senato a Roma. In tutti vibra quella domanda di un riconoscimento impossibile che caratterizza i personaggi bellocchiani, e che qui è un filo rosso che corre attraverso le storie del film.
Alcuni aspetti dello svolgimento – come il passaggio dall'innamoramento all'amore sessuale – possono sembrar accadere ex abrupto: ma “Bella addormentata” ha, a livello narrativo, una qualità "abrasiva" che sembra rispondere al momento convulso. Ovvero: quando parliamo e agiamo nella vita quotidiana applichiamo sopra parole e atti una pellicola di riflessione, di opportunità, la pellicola del tempo. Qui il film sembra svolgersi in un tempo accelerato. Il pensiero/l'azione senza la sua superficie di cautela. Del resto è giusto ricordare che in tutto il suo cinema il modo narrativo di Bellocchio potrebbe essere definito “realismo magico” - detto però nel senso di Bontempelli (essendo poi stato svalutato il termine da molta mediocrità sudamericana).
Bellocchio coglie perfettamente quel grumo di passione e disperazione, sacrificio ed egoismo, fedeltà e paura, che si forma in situazioni del genere – e lo distribuisce in modo prismatico fra i suoi personaggi. La Mater Dolorosa Isabelle Huppert nel sonno, vegliando la figlia, recita il monologo delle mani insanguinate del “Macbeth” - ecco il peso di un desiderio inconscio e inconfessabile che lei muoia, qualcosa che non può emergere alla luce del giorno. Mentre suo figlio Federico a un certo punto cerca di staccare il respiratore alla sorella per puro egocentrismo: non per dare la pace a Rosa ma perché è innamorato della madre, che si è estraniata dalla famiglia e quindi da lui. A un livello più profondo c'è un elemento ripugnante di egoismo personale (la necessità di avere la madre attrice come modello/guida) che ci riporta indietro fino alla famiglia disfunzionale de “I pugni in tasca”, con Lou Castel deciso a liberarsi della madre prima e poi del fratello handicappato, che tengono la famiglia incatenata al “natio borgo selvaggio”.
Sicuramente il film di Bellocchio che “Bella addormentata” richiama più da vicino è “Buongiorno, notte”. Ne possiede la stessa struttura portante: la tv come rimando alla realtà effettuale (anche la tv a circuito chiuso di Palazzo Madama) versus il cinema come terreno della ricostruzione in chiave di realismo poetico della realtà. Si potrebbe arrivare a dire che l'immagine della porta del Senato che si chiude davanti al senatore ribelle, dopo che lui si è rifiutato di entrare, equivale come sigillo poetico alla camminata di Moro liberato nell'alba grigia e umida di Roma.
Questa parte sulla politica è uno dei punti più alti e convincenti, non solo per l'apporto di due grandissimi attori come Toni Servillo e Roberto Herlitzka. Quasi film nel film, questo segmento trasforma la sede del Senato, Palazzo Madama, in un limbo spettrale al quale ben si adatterebbe il nomignolo dato invece al Transatlantico di Montecitorio: il Corridoio dei Passi Perduti. Culmina in un colloquio dei due nel bagno turco del Senato (che Bellocchio si è inventato a partire dalla nozione che Palazzo Madama fu costruito sopra antiche terme romane): un'analisi psicologica – il personaggio di Herlitzka è psichiatra – della miseria dei politicanti minori, creature sofferenti per le quali apparire in televisione è “una cura tampone... ti fa sentire importante anche se non conti un cazzo” (caratteristi, dice Herlitzka con terminologia cinematografica, anziché comparse). Qui Bellocchio va oltre il nudo dato satirico, contrariamente a quello che avrebbe fatto quasi ogni regista italiano, per assumere un valore universale di comprensione: quello che avrebbe potuto essere uno sketch diventa un'illuminazione abbagliante che fotografa un passaggio nodale dell'attuale identità politica italiana (o europea? o della democrazia in assoluto?).
Come ne “L'ora di religione” (e “Buongiorno, notte” naturalmente) Bellocchio guarda alla fede religiosa con rispetto ma dall'esterno. Eppure inaspettato arriva - quando Isabelle Huppert dice della figlia “C'è una sola parola che può risvegliarla” - quello che sembra un riferimento a Dreyer: “Ordet” (“La parola”), dove pure la Parola salvatrice non veniva dalla chiesa ufficiale ma dall'ultimo degli ultimi, il pazzo Johannes. Peraltro anche in “Buongiorno, notte” il cattolico Moro cercava per la sua lettera “la parola che arrivi al cuore”; la riflessione sulla parola è ritornante in Bellocchio (forse il film che l'ha teorizzata più chiaramente è “La balia”). Come che sia, certamente in Bellocchio il miracolo, quando accade, è sempre laico e terrestre e fragile: il piccolo segno di speranza che conclude la storia della ragazza drogata.
Giacché Bellocchio lavora sempre splendidamente sui raccordi di montaggio, è molto interessante che in “Bella addormentata” una ripresa documentaria di ippopotami in tv sia collegata in montaggio alla menzione della fede. Inevitabile pensare che sia un riferimento a T.S. Eliot con la sua poesia sull'ippopotamo, che - in versi orecchiabili, quasi da nursery rhyme - contrappone ironicamente l'ippopotamo, con la sua natura miserrima e la sua voce sgraziata, alla Vera Chiesa nella sua pompa e fortuna... per poi concludersi con la visione dell'ippopotamo che mette le ali ed è assunto nella gloria celeste, al di sopra della Vera Chiesa che resta in terra avvolta nella nebbia.
Un limite del film è la mediocre recitazione di un paio di giovani attori maschi, o alquanto sopra le righe o all'inverso scarsamente espressivi. In ultima analisi, non possiamo dire che “Bella addormentata” sia un capolavoro assoluto come “Vincere”, “L'ora di religione”, “Buongiorno, notte”, per citare solo dei Bellocchio relativamente recenti. Forse la sua interconnessione spirituale, per quanto sia chiara ed evidente, non raggiunge sempre la perfetta pienezza ed armonia. Ma resta un film di altissimo livello - e tanto peggio per loro se la giuria della Mostra di Venezia non se n'è accorta.
In un paese profondamente incivile, che trasforma in occasioncella politica qualsiasi cosa (vedi il Berlusconi testimoniato dal film), con “Bella addormentata” Marco Bellocchio ha fatto un film profondamente civile. Dove civile vuol dire qualcosa più che tollerante, vuol dire aperto. Non è che Bellocchio non prenda posizione; la sua prospettiva nel caso di Eluana Englaro, col suo conflitto fra cattolici e (in mancanza di una parola migliore) “laici”, sta decisamente nel secondo campo; ma non chiude sprezzante gli occhi di fronte all'altra parte, non ne fa la parodia. E' interessante che le figure più odiose che vediamo nel film non appartengano al campo, diciamo, cattolico ma all'altro: il ragazzotto fanatico e violento, il medico scommettitore.
Va detto che quel ragazzo è mentalmente disturbato e la carica di violenza che riversa sulla questione nasce da turbe personali; è un difetto del film che ciò non sia chiaramente enunciato, per cui il personaggio – al contrario di altre figure bellocchiane del passato – risulta troppo semplificato e volgarizzato (pare Er Pelliccia). Certo, il colloquio fra lui e il fratello nella parte finale del film arriva a conferigli una dimensione di verità; ma è una verità narrativa piuttosto che artistica - perché arriva tardi.
In una parola, “Bella addormentata” non è un film a tesi; il suo valore morale è di non chiudere gli occhi di fronte alla drammaticità della scelta e alle contrapposizioni che ne derivano. Perché un film a tesi nasce per risolvere, spazza via l'elemento opposto come il passivo di un bilancio; qui il dramma rimane intatto, non c'è una soluzione facile. La morte (e la vita-in-morte) mantiene tutta la sua tragicità. Al positivismo troppo facile del medico che all'inizio dichiara “Eluana è morta diciassette anni fa” si oppone il “Dove sei?” gridato da un altro personaggio a sua sorella in coma, Rosa.
Infatti il film gira intorno a tre “belle addormentate”: Eluana Englaro, mai enunciata sul piano visivo; Rosa, la figlia adolescente dell'attrice splendidamente interpretata da Isabelle Huppert; la drogata con istinti suicidi (Maya Sansa) vegliata in ospedale dal dottor Pallido (Pier Giorgio Bellocchio) – ed è lei a fornire quel “risveglio” che chiude su una nota di speranza il film. Salvo errore, è la prima volta che Bellocchio assume la forma “cronachistica” di diverse tracce di racconto interlineate. Il ricovero di Eluana Englaro alla clinica di Udine, con la contrapposizione fisica delle due parti davanti ai cancelli, è l'elemento catalizzatore di una serie di criticità personali. Il senatore Beffardo (Toni Servillo), socialista del partito di Berlusconi, è un laico che non si sente di aderire alla disciplina di partito, segnato dal ricordo della moglie malata terminale che gli aveva chiesto di aiutarla a morire. Sua figlia Maria (Alba Rohrwacher) è in rottura con lui e manifesta con i gruppi cattolici - ma si innamora di un ragazzo dell'altra parte (Michele Riondino), a sua volta fratello-guardiano del giovane schizofrenico che l'ha aggredita. Legata dalla contemporaneità che le didascalie rendono pressante, c'è poi la ragazza drogata con la sua chiusura nichilista alla vita; e c'è la madre di Rosa, che nella disperazione ha rotto con figlio e marito ed è diventata una sorta di Mater Dolorosa – ma in colloquio con un sacerdote sostiene di aver trasformato la sua vita di “santa” in una rappresentazione (un termine, questo, molto importante nel cinema di Bellocchio). Inoltre il discorso si allarga, scrivendo a mio parere le pagine più memorabili del film, all'ambiente politico nella sede del Senato a Roma. In tutti vibra quella domanda di un riconoscimento impossibile che caratterizza i personaggi bellocchiani, e che qui è un filo rosso che corre attraverso le storie del film.
Alcuni aspetti dello svolgimento – come il passaggio dall'innamoramento all'amore sessuale – possono sembrar accadere ex abrupto: ma “Bella addormentata” ha, a livello narrativo, una qualità "abrasiva" che sembra rispondere al momento convulso. Ovvero: quando parliamo e agiamo nella vita quotidiana applichiamo sopra parole e atti una pellicola di riflessione, di opportunità, la pellicola del tempo. Qui il film sembra svolgersi in un tempo accelerato. Il pensiero/l'azione senza la sua superficie di cautela. Del resto è giusto ricordare che in tutto il suo cinema il modo narrativo di Bellocchio potrebbe essere definito “realismo magico” - detto però nel senso di Bontempelli (essendo poi stato svalutato il termine da molta mediocrità sudamericana).
Bellocchio coglie perfettamente quel grumo di passione e disperazione, sacrificio ed egoismo, fedeltà e paura, che si forma in situazioni del genere – e lo distribuisce in modo prismatico fra i suoi personaggi. La Mater Dolorosa Isabelle Huppert nel sonno, vegliando la figlia, recita il monologo delle mani insanguinate del “Macbeth” - ecco il peso di un desiderio inconscio e inconfessabile che lei muoia, qualcosa che non può emergere alla luce del giorno. Mentre suo figlio Federico a un certo punto cerca di staccare il respiratore alla sorella per puro egocentrismo: non per dare la pace a Rosa ma perché è innamorato della madre, che si è estraniata dalla famiglia e quindi da lui. A un livello più profondo c'è un elemento ripugnante di egoismo personale (la necessità di avere la madre attrice come modello/guida) che ci riporta indietro fino alla famiglia disfunzionale de “I pugni in tasca”, con Lou Castel deciso a liberarsi della madre prima e poi del fratello handicappato, che tengono la famiglia incatenata al “natio borgo selvaggio”.
Sicuramente il film di Bellocchio che “Bella addormentata” richiama più da vicino è “Buongiorno, notte”. Ne possiede la stessa struttura portante: la tv come rimando alla realtà effettuale (anche la tv a circuito chiuso di Palazzo Madama) versus il cinema come terreno della ricostruzione in chiave di realismo poetico della realtà. Si potrebbe arrivare a dire che l'immagine della porta del Senato che si chiude davanti al senatore ribelle, dopo che lui si è rifiutato di entrare, equivale come sigillo poetico alla camminata di Moro liberato nell'alba grigia e umida di Roma.
Questa parte sulla politica è uno dei punti più alti e convincenti, non solo per l'apporto di due grandissimi attori come Toni Servillo e Roberto Herlitzka. Quasi film nel film, questo segmento trasforma la sede del Senato, Palazzo Madama, in un limbo spettrale al quale ben si adatterebbe il nomignolo dato invece al Transatlantico di Montecitorio: il Corridoio dei Passi Perduti. Culmina in un colloquio dei due nel bagno turco del Senato (che Bellocchio si è inventato a partire dalla nozione che Palazzo Madama fu costruito sopra antiche terme romane): un'analisi psicologica – il personaggio di Herlitzka è psichiatra – della miseria dei politicanti minori, creature sofferenti per le quali apparire in televisione è “una cura tampone... ti fa sentire importante anche se non conti un cazzo” (caratteristi, dice Herlitzka con terminologia cinematografica, anziché comparse). Qui Bellocchio va oltre il nudo dato satirico, contrariamente a quello che avrebbe fatto quasi ogni regista italiano, per assumere un valore universale di comprensione: quello che avrebbe potuto essere uno sketch diventa un'illuminazione abbagliante che fotografa un passaggio nodale dell'attuale identità politica italiana (o europea? o della democrazia in assoluto?).
Come ne “L'ora di religione” (e “Buongiorno, notte” naturalmente) Bellocchio guarda alla fede religiosa con rispetto ma dall'esterno. Eppure inaspettato arriva - quando Isabelle Huppert dice della figlia “C'è una sola parola che può risvegliarla” - quello che sembra un riferimento a Dreyer: “Ordet” (“La parola”), dove pure la Parola salvatrice non veniva dalla chiesa ufficiale ma dall'ultimo degli ultimi, il pazzo Johannes. Peraltro anche in “Buongiorno, notte” il cattolico Moro cercava per la sua lettera “la parola che arrivi al cuore”; la riflessione sulla parola è ritornante in Bellocchio (forse il film che l'ha teorizzata più chiaramente è “La balia”). Come che sia, certamente in Bellocchio il miracolo, quando accade, è sempre laico e terrestre e fragile: il piccolo segno di speranza che conclude la storia della ragazza drogata.
Giacché Bellocchio lavora sempre splendidamente sui raccordi di montaggio, è molto interessante che in “Bella addormentata” una ripresa documentaria di ippopotami in tv sia collegata in montaggio alla menzione della fede. Inevitabile pensare che sia un riferimento a T.S. Eliot con la sua poesia sull'ippopotamo, che - in versi orecchiabili, quasi da nursery rhyme - contrappone ironicamente l'ippopotamo, con la sua natura miserrima e la sua voce sgraziata, alla Vera Chiesa nella sua pompa e fortuna... per poi concludersi con la visione dell'ippopotamo che mette le ali ed è assunto nella gloria celeste, al di sopra della Vera Chiesa che resta in terra avvolta nella nebbia.
Un limite del film è la mediocre recitazione di un paio di giovani attori maschi, o alquanto sopra le righe o all'inverso scarsamente espressivi. In ultima analisi, non possiamo dire che “Bella addormentata” sia un capolavoro assoluto come “Vincere”, “L'ora di religione”, “Buongiorno, notte”, per citare solo dei Bellocchio relativamente recenti. Forse la sua interconnessione spirituale, per quanto sia chiara ed evidente, non raggiunge sempre la perfetta pienezza ed armonia. Ma resta un film di altissimo livello - e tanto peggio per loro se la giuria della Mostra di Venezia non se n'è accorta.
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