C’è poco da dire, il Giappone resta la miglior cinematografia asiatica; e alla pattuglia giapponese al Far East Film Festival dobbiamo il miglior drappello di film del FEFF 2024.
Ichiko
Sappiamo
veramente chi sono le persone che amiamo? È
la stessa domanda di
Vertigo di Hitchcock, al quale lo
splendido Ichiko di Toda Akihiro (a
mio parere il più bello del festival)
può farci pensare, non per la trama thriller ma per come in
una storia d’amore rende
in modo assoluto il dolore. Ichiko, la
giovane donna del titolo, convive
felicemente da tre anni col fidanzato.
Un giorno, dopo che questi le
ha fatto una proposta di
matrimonio (ma c’entra
anche una notizia in tv?), Ichiko
inspiegabilmente si allontana in gran
fretta da
casa e scompare. Rivoltosi alla polizia, il giovane si sente dire che
Ichiko non esiste. E qui parte la sua ricerca, che scava nel passato
per ricostruire – attraverso
le scarne testimonianze di chi l’aveva conosciuta in
epoche diverse – la
realtà di questa persona
sempre avvolta nel mistero, che da bambina e da adolescente si faceva
chiamare Tsukiko. Lei
appartiene, si scopre, a
quel consistente numero di giapponesi di cui non c’è traccia
ufficiale perché non sono
stati registrati alla
nascita; ma non è questo il vero
segreto nascosto dietro le
stranezze (tanto
sue quanto
di altri che gravitano
intorno a lei) che
costellano la sua vita.
È
stato paragonato a Rashomon ma non è Rashomon perché non parla
dell’ambiguità della verità secondo i vari punti di vista
opportunisti. Ichiko è una ricerca per trovare i tasselli di un
mistero nell'arco del tempo; a occhi italiani più vicino al nostro
Pirandello. C’è la stessa tragicità esistenziale de Il fu Mattia
Pascal, ma senza neppure l’elemento della scelta presente in
Pirandello. Ichiko è una potentissima descrizione della tragicità
del destino (non in senso metafisico ma radicato nella realtà) e di
come una persona, nonostante tutti i suoi sforzi, ne venga
determinata. Un dolore infinito – che solo nelle immagini
conclusive tocca (quindi non come presupposizione narrativa ma come
commento) i confini linguistici del mélo.
Voice
Si
potrebbe considerare un’escursione del
Far East Film Festival nei territori del cinema d’essai l’ottimo
Voice, della regista giapponese Mishima Yukiko. È
una meditazione in tre
episodi (più
un breve
epilogo) con
personaggi differenti, in
eccellenti interpretazioni. Il
tema sotteso ai tre
episodi è
il rapporto dell’essere umano con la morte, il
dolore e soprattutto il
ricordo, con una centralità della donna secondo una forte
prospettiva di sguardo
femminile. Al fondo
stanno l’esperienza
traumatica e la sofferenza derivata da una violenza sessuale in età
infantile – qualcosa che
per la regista Mishima ha un aspetto dolorosamente autobiografico.
In
estrema sintesi: nel primo episodio un uomo anziano diventato donna
riceve i familiari per Capodanno, sotto l’ombra del suicidio di una
figlia anni prima. Nota in margine: questo episodio si apre con una
bella pagina di preparazione “rituale” del cibo (i credits finali listano un food stylist) visivamente notevole: bellezza di un’erba
messa trasversalmente su un gambero in una ciotola!
Nel
secondo episodio, una ragazza torna al paese d’origine e suo padre
equivoca sul motivo della sua depressione, a rischio che la storia
finisca male. Nel terzo episodio, quello più lungo, che è in b/n,
dopo il funerale di un ex fidanzato del passato una ragazza
compulsivamente incapace di avere sesso incontra un giovane gigolò.
Per
inciso, in questo episodio, il giovane gigolò essendone
appassionato, ci sono moltissimi riferimenti all’Italia (il
“comedian Totò”, Nanni Moretti e La stanza del figlio, la
Nutella, oltre a una canzone e alcune frasi in italiano).
Comune
alla struttura dei tre episodi è una costruzione a forma di mistero:
c’è sempre un “perché?” Nel primo e nel terzo (non nel
secondo, peraltro meno potente) il motivo viene svelato in una “scena
madre” che naturalmente porta in primo piano la capacità
attoriale; indimenticabile l’attrice Maeda Atsuko nel climax del
terzo e più lungo episodio.
Takano
Tofu
Takano
Tofu di Mihara Mitsuhiro è il film vincitore del Gelso d’Oro, il
massimo premio del festival, attribuito per votazione del pubblico
(mentre Confetti di Fujita Naoya è arrivato secondo, Gelso
d’Argento). Film familiare, molto amabile, su un vecchio maestro
della fabbricazione artigianale del tofu e sua figlia, vi è ovvio il
riferimento (sempre molto usato nel campo del cinema gastronomico)
fra la qualità e la sottigliezza del cibo e quella della vita – e
implicitamente del film. Grandi le interpretazioni non solo dei due
protagonisti ma anche dei caratteristi – per esempio la moglie del
barbiere, in una scena a due col protagonista, si mangia la scena.
È
interessante, nel film, la presenza di Ozu come punto di ispirazione
(non come livello estetico, si capisce). Naturalmente c’è nel
concetto base del padre che vuole che la figlia si sposi, raddoppiato
dal romance del protagonista con una donna anziana – un topos ozuiano rimodellato come un retelling with tofu, quasi un’affettuosa
parodia. Ma oltre ad esso (e come strizzata d'occhio agli spettatori)
vi sono alcune cose che producono autentici soprassalti di
riconoscimento ozuiano: quindi sempre nel segno di una gentile
(auto)ironia. In primo luogo, proprio in apertura del film, vediamo
una delle tipiche lanterne di pietra di Ozu: ma non in primo piano,
che sarebbe stata una citazione troppo diretta, bensì ben visibile
nel quadro. Di lì a poco vediamo un treno, ed è inevitabile che le
due immagini si fondano per noi. Poi, quando il protagonista è ubriaco,
portato a casa dalla figlia, pronuncia la tipica battuta dei bevitori ozuiani: “Come mi sento bene”. C’è, poi, un’altra immagine,
che ricorda molto il finale di Viaggio a Tokyo, ed è l'inquadratura
del fiume con un solo battello – che in Ozu alludeva alla morte
della moglie. Invero Takano Tofu è un film in cui la minaccia della
morte è molto presente (i problemi di cuore del protagonista,
l’operazione della sua amica) anche se l'inquadratura, molto
riconoscibile, sul fiume non è il triste suggello di Ozu. Bisogna
ricordare, infine, un altro teina molto presente nel film, questo non
ozuiano: è quello della memoria e degli effetti del bombardamento
atomico, che pesano ancora sulle vite dei giapponesi.
Confetti
Affascinante e impalpabile, Confetti (che com’è noto in inglese significa “coriandoli”) è un film di adolescenti, opera prima del trentatreenne Fujita Naoya: apparentemente semplice, aereo, in realtà ricchissimo di suggestioni e significato. Lo potremmo chiamare un Bildungsroman senza angoscia. Il protagonista è Yuki, che lavora con una compagnia itinerante di teatro popolare detto taishu engeki, e sul palcoscenico interpreta parti femminili. Durante la sosta di un mese della troupe in un luogo, Yuki, frequentando la scuola locale, crea un rapporto di amicizia a volte intensa a volte scontrosa con un ragazzo e due ragazze entrando nelle loro vite, mentre in secondo piano vediamo un interscambio anche fra gli adulti. Il teatro che si riflette nella vita (il dramma che mettono in scena alla fine parla di una madre a lungo cercata e infine incontrata), le vite personali che si riflettono l’una nell’altra, la ricerca del futuro con l’urgenza angosciosa dell’adolescenza, la sensazione agrodolce per cui ciascuno invidia quello che non ha mentre chi lo possiede magari non se ne cura. Psicologicamente acuto, ben giocato sul linguaggio del corpo, nonché sull’effetto scenografico di palco e costumi, Confetti è un film sull’adolescenza e il teatro, e non direttamente sullo scambio dei ruoli sessuali che deriva dalla recitazione en travesti – quest’ultimo è ovviamente importante ma non ha i soprassalti psicologici, o i brufoli ideologici, che ci si aspetterebbe in Occidente. Senza adagiarsi in un ottimismo programmatico, ma tuttavia restando sicuro della speranza, è un film pieno di umanità e di un sentimento che potemmo ben chiamare serenità.
Motion Picture: Choke
Un
eccellente film, scritto e diretto da Nagao Gen, in b/n e muto –
non nel senso che non sentiamo quello che dicono i personaggi (i
rumori si sentono) ma che essi proprio non hanno la dote del
linguaggio, e comunicano a gesti. Siamo in quello che potrebbe essere
un paesaggio postatomico: la protagonista (l'eccezionale Wada Misa)
vive in un relitto di costruzione moderna nel mezzo di un bosco e
vediamo in “casa” oggetti d'oggi arrugginiti; vive come una donna
delle caverne, cacciando, andando al ruscello per prendere l’acqua
in una zucca, scambiando pezzi di carne secca con un mercante
girovago. In realtà, l’assoluta scomparsa del linguaggio è
un’indicazione che il realismo sfocia impercettibilmente sul piano
simbolico.
Per
capire Motion Picture: Choke è opportuno ripensare all’inizio di
2001 – Odissea nello spazio. Come l'inizio di 2001 (l’osso in
mano all'uomo-scimmia) ci mostrava l’inizio dell’umanità
attraverso l’invenzione delle armi, in questo panorama muto da
nuova “alba del mondo” (lo stupore di lei per la lente che
accende un focherello di foglie secche!) è giusto usare per ciò che
viene scoperto lungo il film il termine invenzione. L'invenzione del
sesso, col giovane catturato, del ballo, del gioco. L’invenzione
della tecnica (l’acquedotto). L'invenzione della guerra, contro i
tre banditi. L'invenzione della schiavitù. Come ha scritto Mark
Schilling in una bellissima recensione ripubblicata sul catalogo del
festival, Motion Picture: Choke ripercorre la storia del mondo.
Fino
allo sconvolgente sviluppo finale, che credo si possa ancora
interpretare in termini di prima volta: c’è nella narrazione un
passaggio dall'oggettivo al soggettivo, con una bolla di silenzio in
cui anche la protagonista non riesce a sentire il suo urlo; un nero alle sue spalle cancella la “casa”; sguardo in macchina di lei.
Siamo spostati definitivamente dal realistico al simboli.
L’invenzione della dimensione religiosa.
Anche
se fra gli altri interpreti Hiba Daiki (il ragazzo) e Nishina Takashi
(il bandito) sono più che notevoli, è eccezionale l’interpretazione
di Wada Misa nel ruolo muto e mimico della protagonista, con una
capacità “magnetica” di convogliare i sentimenti e
rappresentarli, quasi telepaticamente, al pubblico.
Bushido
Il
regista Shiraishi Kazuya, che di solito si fa notare per una
narrazione enfatica (The Blood of Wolves, Last of the Wolves), in
questo period drama vira invece sull’atmosferico, e consegna un
film indubbiamente intenso. Il titolo internazionale Bushido non fa
niente per dissipare un equivoco: molti confondono ancora i film di
samurai con i chambara (scontro fra samurai all’arma bianca), oppure
in mancanza di duelli si aspettano un film sentimentale. Non è così
col presente film (che al FEFF ha vinto il premio dei Black Dragons,
gli abbonati sostenitori).
Yanagida
è un samurai ridotto in povertà dopo aver lasciato il castello del
suo signore per una falsa accusa. Vedovo, vive con sua figlia Okinu.
È un campione di go, e in
questa veste fa amicizia con il ricco mercante Genbei (le
interpretazioni dei due, rispettivamente Kusanagi Tsuyoshi e Kunimura
Jun, sono veramente eccellenti). Quasi tutta la prima ora trascorre
in una quieta costruzione dell'atmosfera psicologica (e storica), con
una forte attenzione sul gioco del go – il quale naturalmente ha
nelle sue mosse addentellati metaforici che a noi occidentali
sfuggono.
L’improvviso
arrivo di un altro samurai con notizie importanti cambia in
profondità il corso della narrazione. Liberato dall'accusa, Yanagida
si mette in cerca del vero colpevole per vendicarsi; ma la questione
è complicata dalla sparizione misteriosa di una forte somma in casa
di Genbei. La seconda parte del film è più sincopata, contiene una
dose di suspense (relativa al destino di Okinu che rischia di finire
a lavorare in un bordello) e culmina in un momento di duello –
anche se questo non conclude la narrazione.
The Yin Yang Master 0
Quando nel lontano 2002, al quarto FEFF, ci siamo deliziati con il fantasy-horror in costume The Yin-Yang Master di Takita Rojiiro (2001), poco sapevamo del fatto che il suo protagonista Abe no Seimei sia una figura importante del mito giapponese, un famoso onmyoji, astrologo e difensore magico dell'Imperatore e della corte imperiale nell’epoca Heian. Abe no Seimei è apparso in più di un film, e gli inizi della sua carriera sono drammatizzati in The Yin Yang Master 0 di Sato Shimako, fantasy con il giovane Abe agli inizi della carriera in una scuola di onmyoji piena di intrighi. Il film ha degli aspetti affascinanti (il danzatore mascherato che crea danzando la magia nera) ma andando avanti si perde un po’. C’è davvero da riflettere su quanto il cinema abbia perso nel suo patto faustiano con la CGI. Come che sia, pur privo della magia dei vecchi fantasy giapponesi e hongkonghesi, The Yin Yang Master 0 si lascia vedere; si apprezza l’impegno dei tre interpreti principali; e si ammira per tutto il film la grande bellezza dei costumi.
Gold Boy
Oggi
gli adolescenti assassini sono un fenomeno sociologico – è quello
che l’Occidente ottiene, e si merita, per aver distrutto il sistema
educativo – ma il bel Gold Boy di Kaneko Shusuke ci riporta
all’antico concetto del ragazzino come mostro, "giglio nero" in un
universo che non se lo aspetta - e tanto più inquietante per questo.
In
verità i mostri del film sono due. Il primo è un adulto che ha
ucciso i genitori della moglie come vendetta per un suo tradimento,
fingendo un incidente (bisogna vederlo quando, attore consumato,
piange davanti alla polizia). Il secondo è il tredicenne Asahi che,
essendo venuto per caso in possesso di una prova contro l’assassino,
cerca di ricattarlo con l'aiuto di due non tanto intelligenti amici (molto più vittime che colpevoli).
Uno penserebbe che fra un adulto astuto quanto spietato e un trio di
adolescenti non c’è partita, ma Asahi è un vero genietto del male
(e in segreto ha già un curriculum criminale di tutto rispetto).
L’abile regista di Death Note (anche quello, in fondo, era una
battaglia di ingegni...) è al suo meglio nel descrivere questa “gara
a fregarsi” senza esclusione di colpi, e descrive la totale,
agghiacciante amoralità di Asahi senza mai cedere al buonismo che
avrebbe attratto un regista italiano. Alla fine muoiono tutti, come nell'Amleto, ed è l'unica soluzione possibile.