giovedì 20 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Cina e Hong Kong


Il cinema di Hong Kong attraversa un periodo di transizione: dove i piccoli film intrisi di nostalgia hanno meno successo e le più ricche coproduzioni con la Cina continentale non sempre colgono nel segno. Fra i film interamente hongkonghesi, menziono solo un film.

Peg O’ My Heart

L’horror, lo sappiamo, si avventura volentieri nei territori del sogno (ombra di Freddy Krueger!). È una dimensione difficile da visualizzare, ma in Peg O’ My Heart Nick Cheung (regista, co-sceneggiatore e anche interprete) realizza un buon lavoro in questa immersione, e resteranno nella memoria alcuni lampi di paura (l'uomo che insegue il taxi a velocità impossibile battendo la testa contro il vetro del finestrino) o di magnifica bizzarria (la fuga del personaggio femminile interpretato da Fala Chen in ralenti, sulle note romantiche della canzone, inseguita dalle persone tutte uguali in volto – che a loro volta il ralenti fa muovere come un balletto).
Di disturbi del sonno soffrono entrambi i protagonisti, le cui storie vengono a intrecciarsi. Uno è il dottor Man (Terrance Lau), uno psichiatra che si interessa tanto ai suoi pazienti da improvvisarsi investigatore ai fini della terapia; l'altro è il tassista Choi (Nick Cheung), che non osa dormire per via degli incubi – di conseguenza, alla guida è pericoloso – e ha una moglie deranged in preda alle allucinazioni. Aggiungerei che mi par di vedere un ricordo di Kurosawa Kiyoshi nel concetto di “contagio” serpeggiante in questi sogni: quando viene fatto l’elettroshock a Nick Cheung, le immagini che vediamo lampeggiare non sono solo quelle dei suoi incubi ma anche quelle degli incubi (dimenticati) di Terrence Lau. Nota che nel film (e nei sogni in particolare) non c’è niente di casuale: non sembra, ma ogni tassello finisce per andare a posto, lasciandoci un’impressione di costruzione rigorosa.

Dust to Dust

Il raffinato Dust to Dust di Jonathan Li è un raro esempio di coproduzione Hong Kong-Cina interamente riuscita. Incrocia il thriller e il film procedural romanzando la storia realmente accaduta di una caccia all’uomo durata decenni. Da notare la bellissima apertura con un improvviso assassinio ripreso in campo lunghissimo (serve alla narrazione, è perché non si riconoscano i personaggi, ma è elegante comunque). In seguito l’inizio è un po’ lento, ma il film prende presto il volo con la prima delle due rapine della trama. C’è una scena intermedia fra queste due rapine, che si svolge attorno a un tavolo di ristorante, che è quasi Tarantino. Jonathan Li, che era stato anche aiuto regista di Infernal Affairs III, mostra dell’autentica capacità.
Dopo una grande rapina, con morti, in Cina, organizzata dal terribile industriale Chen Xinwen (Da Peng a.k.a. Dong Chengpeng), la polizia individua i rapinatori di secondo piano e Chen e suo cugino scappano in Birmania; lì Chen uccide un uomo, Mo Zhiqiang, per rubargli l’identità, sotto la quale ritorna in Cina e mette su famiglia, vivendo indisturbato per 18 anni. Ma il tignoso investigatore Wang (Lam Ka-tung, vale a dire Gordon Lam) non molla neppure dopo essere andato in pensione.
Mentre Gordon Lam è efficace ma tende un po’ a fare il Clint Eastwood con gli occhi a mandorla, Dong Chengpeng è veramente spettacoloso in un doppio ruolo (Chen giovane e grasso, il falso Mo di mezza età e magro). Come Chen, delinea un personaggio assolutamente spietato ma anche stranamente umano (non nel senso dell’umana bontà, beninteso) e assolutamente credibile. Come Mo, il suo gioco di comprensione reciproca con Wang, un gioco fra cacciatore e preda narrato matter of fact, è una delle eccellenze del film. Chiaramente, il contrasto fra i crimini di Chen, prima, e la vita di buon padre di famiglia del falso Mo, dopo, implica un lato mélo, con una famiglia che la caccia di Wang deve distruggere – in questo senso, nella sua spietatezza l’ultima parte ha qualcosa che ricorda Samuel Fuller.

Raid on the Lethal Zone


Il prolifico (e vecchio amico del Festival) Herman Yau era presente al FEFF con tre film, tutti e tre, possiamo dire, che rappresentando un tratto di congiunzione tra Hong Kong e la Cina continentale, al di là dell’etichetta. Il migliore è Raid on the Lethal Zone, che incrocia i filoni del disaster movie e del film di combattimenti. Siamo nel mezzo di un’esplosione di maltempo che causa inondazioni e smottamenti sulle montagne. Una grande partita di droga sta per essere consegnata, approfittando del caos e del fatto che l’esercito è impegnato nei soccorsi; inoltre, un gruppo concorrente di banditi si prepara a tendere un agguato alla gang degli spacciatori; i protagonisti (polizia di frontiera) devono attaccare i due gruppi. Gli elementi naturali fanno sì che tutta l'operazione diventi un massacro da cui usciranno decimati (ma ai banditi, con soddisfacente severità narrativa, va anche peggio).
Herman Yau è sempre stato un regista enfatico, e dedicandosi con grandi mezzi a un genere di per sé enfatico, come si può prevedere, pompa a mille. Nel suo estremismo fracassone, il film ha delle scene visualmente sbalorditive: in primo luogo con i crolli di parte della montagna, le slavine di fango che travolgono uomini e cose, i fiumi in piena e l'allagamento che spazza la cittadina abbandonata dove si consuma la resa dei conti; ma anche con le semplici sparatorie, in mezzo alla natura e poi nella città abbandonata. Notevole alla fine un car chasing in cui i buoni inseguono il cattivo e l’acqua in piena insegue tutti loro.
Forse ancora più fracassone, ma meno efficace, il folle Moscow Mission, mentre Customs Frontline fa da fanalino di coda. Sono, questi due, film godibili più per qualche singola scena che per l’insieme, a differenza del precedente.

Venendo a parlare della Cina, non si può assolutamente mancar di menzionare il grandissimo Zhang Yimou, che ha ricevuto il Premio alla Carriera. Abbiamo potuto vedere i restauri, a cura del FEFF, di due suoi famosi capolavori, Lanterne rosse e l’ancor più bello Vivere! Abbiamo anche visto il suo recente film Under the Light: un dramma sulla corruzione che è uscito dopo quattro anni, massacrato dalla censura cinese (30 minuti di tagli). Che dire? Fondamentalmente il film che abbiamo visto è un torso, anche con prevedibili problemi di equilibrio narrativo, dove però chi conosce l’opera di Zhang ritrova le tracce del maestro (per esempio i neon di Keep Cool). Infine, Zhang Yimou ha tenuto una masterclass nell’affollatissimo Teatro Nuovo: un meraviglia di umanità, saggezza e modestia che forse resterà nel ricordo di tutti i presenti come il punto più alto del festival.

The Movie Emperor


Nel cinema orientale mi pare che si possa vedere, se non proprio come sottogenere, certo come micro-genere laterale una descrizione fra satirico e critico/autocritica di se stesso come meccanismo, incentrato sulla figura della star. Menziono il filippino Fan Girl di Antoinette Jadaone con Paulo Avelino, su un’ammiratrice che incontra il divo che adora, e anche Saving Mr. Wu di Ding Sheng (interpretato da Andy Lau, come il presente The Movie Emperor di Ning Hao) rientrava in questa linea pur avendo un plot da thriller. La cosa importante è che queste figure di star sono interpretate da star, in un ruolo o coincidente con se stessi o comunque molto vicino: il cortocircuito sarebbe inevitabile comunque, ma qui è previsto, dichiarato, è una vera enunciazione.
The Movie Emperor è il divo Lau Wa-chi (Andy Lau); è una superstar ma non ha la delusione di non vincere agli Hong Kong Awards (che vediamo nel film): gli ruba il premio Jackie Chan. Lau ha la solita vita privata scombinata delle star, con moglie divorziata e due figli piccoli. Vuole interpretare un film che piaccia ai festival; così per il suo nuovo film si butta nel realismo contadino, anche andando a visitare un villaggio per entrare nella parte – e di qui comincerà la sua rovina. Tutto questo è gustosamente satirico, coi discorsi sul contadino cinese povero in giacca di cotone imbottito come trademark per far invitare i film cinesi ai festival occidentali. Per inciso, Ning Hao si permette anche un paio di punture di spillo (ma coraggiose comunque, visti i tempi) rispetto al controllo poliziesco.
Tra l’arroganza da divo di Chi e la balordaggine dei suoi assistenti (e del regista, interpretato da Ning Hao stesso), le cose peggiorano sempre più – il film ci mette dentro con gusto la satira sui social e sugli imbecilli che vi polemizzano per cercare la sensazione di esistere. Nella parte finale, con un maiale che si aggira per i corridoi dell’albergo, mi pare che spunti addirittura un tono polanskiano.

Wonder Family

Molte commedie cinesi appartengono a quel genere che in Italia definiremmo “comico demenziale”. Ingentilito, e con un pizzico di moralismo molto cinese, questo è il carattere del divertente Wonder Family di Song Yang. Il protagonista Qiang (Ai Lun) ha rotto con la sua famiglia di pazzoidi, cinesi che abitano in un paese di fantasia simile alla Russia, e s’è trasferito in Cina, dove ha inventato una app che potrebbe renderlo ricco Torna a casa quando muore il nonno, eroe di guerra, per il funerale. Ma ecco che una meteora che cade sulla casa conferisce a tutti (tranne Qiang) dei superpoteri: il nonno risuscita e diventa immortale, il padre ubriacone diventa invisibile a comando, la sorella maggiore sa volare e una trovatella adottata (gustosa la parodia in flashback della storia della Piccola Fiammiferaia) ottiene il dono della superforza. Questi poteri, però, funzionano solo quando i familiari sono vicini (trasparente la metafora). Saranno necessari per lottare contro il cattivo della situazione, che vuole la app per fare operazioni sporche.
Alla base di questo film giocato sfacciatamente sull’accumulo sta un gruppo comico teatrale cinese al suo ventesimo anniversario, e infatti tutti gli interpreti sono molto bravi. Il migliore è probabilmente Shen Teng, che interpreta in modo esilarante il villain dal nome gogoliano di Cicikov, gustosissima parodia di mafioso russo in salsa cinese.

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