Il
cinema di Hong Kong attraversa un periodo di transizione: dove i
piccoli film intrisi di nostalgia hanno meno successo e le più
ricche coproduzioni con la Cina continentale non sempre colgono nel
segno. Fra i film interamente hongkonghesi, menziono solo un film.
Peg
O’ My Heart
L’horror,
lo sappiamo, si avventura volentieri nei territori del sogno (ombra
di Freddy Krueger!). È una
dimensione difficile da visualizzare, ma in Peg O’ My Heart Nick
Cheung (regista, co-sceneggiatore e anche interprete) realizza un
buon lavoro in questa immersione, e resteranno nella memoria alcuni
lampi di paura (l'uomo che insegue il taxi a velocità impossibile
battendo la testa contro il vetro del finestrino) o di magnifica
bizzarria (la fuga del personaggio femminile interpretato da Fala
Chen in ralenti, sulle note romantiche della canzone, inseguita dalle
persone tutte uguali in volto – che a loro volta il ralenti fa
muovere come un balletto).
Di
disturbi del sonno soffrono entrambi i protagonisti, le cui storie
vengono a intrecciarsi. Uno è il dottor Man (Terrance Lau), uno
psichiatra che si interessa tanto ai suoi pazienti da improvvisarsi
investigatore ai fini della terapia; l'altro è il tassista Choi
(Nick Cheung), che non osa dormire per via degli incubi – di
conseguenza, alla guida è pericoloso – e ha una moglie deranged in
preda alle allucinazioni. Aggiungerei che mi par di vedere un
ricordo di Kurosawa Kiyoshi nel concetto di “contagio”
serpeggiante in questi sogni: quando viene fatto l’elettroshock a
Nick Cheung, le immagini che vediamo lampeggiare non sono solo quelle
dei suoi incubi ma anche quelle degli incubi (dimenticati) di
Terrence Lau. Nota che nel film (e nei sogni in particolare) non c’è
niente di casuale: non sembra, ma ogni tassello finisce per andare a
posto, lasciandoci un’impressione di costruzione rigorosa.
Dust
to Dust
Il
raffinato Dust to Dust di Jonathan Li è un raro esempio di
coproduzione Hong Kong-Cina interamente riuscita. Incrocia il
thriller e il film procedural romanzando la storia realmente
accaduta di una caccia all’uomo durata decenni. Da
notare la bellissima apertura con un improvviso assassinio ripreso in
campo lunghissimo (serve alla narrazione, è perché non si
riconoscano i personaggi, ma è elegante comunque). In seguito
l’inizio è un po’ lento, ma il film prende presto il volo con la
prima delle due rapine della trama. C’è una scena intermedia fra
queste due rapine, che si svolge attorno a un tavolo di ristorante,
che è quasi Tarantino. Jonathan Li, che era stato anche aiuto
regista di Infernal Affairs III, mostra dell’autentica capacità.
Dopo
una grande rapina, con morti, in Cina, organizzata dal terribile
industriale Chen Xinwen (Da Peng a.k.a. Dong Chengpeng), la polizia
individua i rapinatori di secondo piano e Chen e suo cugino scappano
in Birmania; lì Chen uccide un uomo, Mo Zhiqiang, per rubargli
l’identità, sotto la quale ritorna in Cina e mette su famiglia,
vivendo indisturbato per 18 anni. Ma il tignoso investigatore Wang
(Lam Ka-tung, vale a dire Gordon Lam) non molla neppure dopo essere
andato in pensione.
Mentre
Gordon Lam è efficace ma tende un po’ a fare il Clint Eastwood con
gli occhi a mandorla, Dong Chengpeng è veramente spettacoloso in un
doppio ruolo (Chen giovane e grasso, il falso Mo di mezza età e
magro). Come Chen, delinea un personaggio assolutamente spietato ma
anche stranamente umano (non nel senso dell’umana bontà,
beninteso) e assolutamente credibile. Come Mo, il suo gioco di
comprensione reciproca con Wang, un gioco fra cacciatore e preda
narrato matter of fact, è una delle eccellenze del film.
Chiaramente, il contrasto fra i crimini di Chen, prima, e la vita di
buon padre di famiglia del falso Mo, dopo, implica un lato mélo, con
una famiglia che la caccia di Wang deve distruggere – in questo
senso, nella sua spietatezza l’ultima parte ha qualcosa che ricorda
Samuel Fuller.
Raid on the Lethal Zone
Il
prolifico (e vecchio amico del Festival) Herman Yau era presente al
FEFF con tre film, tutti e tre, possiamo dire, che rappresentando un
tratto di congiunzione tra Hong Kong e la Cina continentale, al di là
dell’etichetta. Il migliore è Raid on the Lethal Zone, che
incrocia i filoni del disaster movie e del film di combattimenti.
Siamo nel mezzo di un’esplosione di maltempo che causa inondazioni
e smottamenti sulle montagne. Una grande partita di droga sta per
essere consegnata, approfittando del caos e del fatto che l’esercito
è impegnato nei soccorsi; inoltre, un gruppo concorrente di banditi
si prepara a tendere un agguato alla gang degli spacciatori; i
protagonisti (polizia di frontiera) devono attaccare i due gruppi.
Gli elementi naturali fanno sì che tutta l'operazione diventi un
massacro da cui usciranno decimati (ma ai banditi, con soddisfacente
severità narrativa, va anche peggio).
Herman
Yau è sempre stato un regista enfatico, e dedicandosi con grandi
mezzi a un genere di per sé enfatico, come si può prevedere, pompa
a mille. Nel suo estremismo fracassone, il film ha delle scene
visualmente sbalorditive: in primo luogo con i crolli di parte della
montagna, le slavine di fango che travolgono uomini e cose, i fiumi
in piena e l'allagamento che spazza la cittadina abbandonata dove si
consuma la resa dei conti; ma anche con le semplici sparatorie, in
mezzo alla natura e poi nella città abbandonata. Notevole alla fine
un car chasing in cui i buoni inseguono il cattivo e l’acqua in
piena insegue tutti loro.
Forse
ancora più fracassone, ma meno efficace, il folle Moscow Mission,
mentre Customs Frontline fa da fanalino di coda. Sono, questi due,
film godibili più per qualche singola scena che per l’insieme, a
differenza del precedente.
Venendo
a parlare della Cina, non si può assolutamente mancar di menzionare
il grandissimo Zhang Yimou, che ha ricevuto il Premio alla Carriera.
Abbiamo potuto vedere i restauri, a cura del FEFF, di due suoi famosi
capolavori, Lanterne rosse e l’ancor più bello Vivere! Abbiamo
anche visto il suo recente film Under the Light: un dramma sulla
corruzione che è uscito dopo quattro anni, massacrato dalla censura
cinese (30 minuti di tagli). Che dire? Fondamentalmente il film che
abbiamo visto è un torso, anche con prevedibili problemi di
equilibrio narrativo, dove però chi conosce l’opera di Zhang ritrova le tracce del maestro (per esempio i neon di Keep Cool).
Infine, Zhang Yimou ha tenuto una masterclass nell’affollatissimo
Teatro Nuovo: un meraviglia di umanità, saggezza e modestia che forse resterà nel ricordo di tutti i presenti come il punto più alto del
festival.
The Movie Emperor
Nel
cinema orientale mi pare
che si possa vedere, se
non proprio come sottogenere, certo come micro-genere laterale una
descrizione fra
satirico e critico/autocritica di se stesso come meccanismo,
incentrato sulla figura della star. Menziono
il
filippino Fan Girl di
Antoinette Jadaone
con Paulo Avelino, su
un’ammiratrice che
incontra il divo che adora,
e anche Saving
Mr. Wu di Ding Sheng
(interpretato
da Andy Lau, come il
presente The
Movie Emperor di Ning Hao)
rientrava in questa linea pur avendo un plot da thriller. La
cosa importante è che queste figure di star sono interpretate da
star, in un ruolo o coincidente con se stessi o comunque molto
vicino: il cortocircuito sarebbe inevitabile comunque,
ma qui è previsto,
dichiarato, è una vera enunciazione.
The
Movie Emperor è il divo Lau Wa-chi (Andy
Lau); è una
superstar ma non ha la
delusione di non vincere
agli Hong Kong
Awards (che
vediamo nel film): gli
ruba il premio Jackie
Chan. Lau ha
la solita vita privata scombinata delle star, con moglie divorziata e
due figli piccoli. Vuole interpretare un film che piaccia ai
festival; così per il suo nuovo film si butta nel realismo
contadino, anche andando a visitare un villaggio per entrare nella
parte – e di qui
comincerà la sua rovina.
Tutto questo è
gustosamente satirico,
coi discorsi sul contadino
cinese povero in giacca di cotone imbottito come trademark per far
invitare i film cinesi ai festival occidentali. Per inciso, Ning Hao
si permette anche un paio di punture di spillo (ma coraggiose
comunque, visti i tempi) rispetto al controllo poliziesco.
Tra
l’arroganza da divo di Chi e la balordaggine dei suoi assistenti (e
del regista, interpretato da Ning Hao stesso), le cose peggiorano
sempre più – il film ci mette dentro con gusto la satira sui
social e sugli imbecilli che vi polemizzano per cercare la sensazione
di esistere. Nella parte finale, con un maiale che si aggira per i
corridoi dell’albergo, mi pare che spunti addirittura un tono
polanskiano.
Wonder
Family
Molte
commedie cinesi appartengono a quel genere che in Italia definiremmo
“comico demenziale”. Ingentilito, e con un pizzico di moralismo
molto cinese, questo è il carattere del divertente Wonder Family di
Song Yang. Il protagonista Qiang (Ai Lun) ha rotto con la sua
famiglia di pazzoidi, cinesi che abitano in un paese di fantasia
simile alla Russia, e s’è trasferito in Cina, dove ha inventato
una app che potrebbe renderlo ricco Torna a casa quando muore il
nonno, eroe di guerra, per il funerale. Ma ecco che una meteora che
cade sulla casa conferisce a tutti (tranne Qiang) dei superpoteri: il
nonno risuscita e diventa immortale, il padre ubriacone diventa
invisibile a comando, la sorella maggiore sa volare e una trovatella
adottata (gustosa la parodia in flashback della storia della Piccola
Fiammiferaia) ottiene il dono della superforza. Questi poteri, però,
funzionano solo quando i familiari sono vicini (trasparente la
metafora). Saranno necessari per lottare contro il cattivo della
situazione, che vuole la app per fare operazioni sporche.
Alla
base di questo film giocato sfacciatamente sull’accumulo sta un
gruppo comico teatrale cinese al suo ventesimo anniversario, e
infatti tutti gli interpreti sono molto bravi. Il migliore è
probabilmente Shen Teng, che interpreta in modo esilarante il villain
dal nome gogoliano di Cicikov, gustosissima parodia di mafioso russo
in salsa cinese.
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