Una cosa va detta
subito: il FEFF 2019 segna il ritorno in forze di Hong Kong.
Questa città è la vera culla del festival, e allora viva
Hong Kong, viva il suo cinema (non dico le coproduzioni col
continente) e viva la lingua cantonese, con le sue finali prolungate!
Che trionfa (in un bellissimo mix tra cantonese, filippino, inglese e
un buffo inglese scorretto; il gioco fra questi diversi linguaggi è
un fattore fondamentale) nel potente e commovente Still
Human
di Oliver Chan, vincitore del festival. Il titolo dice tutto: è un
film umanista, non solo sulla necessità di sognare nonostante le
condizioni più avverse ma sull'importanza fondamentale di
un'apertura
nei riguardi degli altri. E' prodotto da Fruit Chan (che appare in un
cameo: è il padrone del ristorante) ma più che il cinema di Fruit
Chan può ricordare quello di Ann Hui.
Cheong-wing (Anthony
Wong), che è paralizzato da anni e riesce a muovere solo le braccia,
ha una nuova badante filippina (Crisel Consunji). L'uomo è
scorbutico e chiuso in se stesso, ritenendosi un rottame umano. Si
crea a poco a poco un rapporto di autentico affetto fra i due, e lui
la aiuta a realizzare il suo sogno di divenire una fotografa di
successo. A leggerlo può sembrare programmaticamente buonista: ma
invece il modo in cui l'esordiente Chan concretizza questa storia
sentimentale è estremamente delicato, con una forza realistica della
messa in scena e un'autentica concretezza del sentimento. Se
Crisel Consunji è bravissima, Anthony Wong – è addirittura
monumentale. Tranne una scena di fantasia, recita tutto il film
immobile giocando sull'espressione. Ricordo qui che Anthony Wong ha
vinto il Gelso d'Oro alla Carriera del FEFF 2019, con la coreana Jeon
Do-yeon e la cinese Yao Chen.
Tutto
cantonese è A Home with a
View di
Herman Yau (vedi
scheda sotto). Idem
per Hotel Soul Good
di
Yan
Pak-wing,
uno
dei due autori di Vampire
Cleanup Department,
visto due anni fa. Proprio a proposito di quel film scrivevo che a
Hong Kong anche la nostalgia è un atto politico; vale anche per il
piccolo
e grazioso Hotel
Soul Good,
commedia di fantasmi piena di volti familiari del cinema hongkonghese
come Richard Ng, pervasa di una nostalgia che gli fa rievocare ogni
cosa della vecchia Hong Kong di un tempo, compresi gli aerei che
atterravano nel mezzo della città quando c'era il vecchio aeroporto.
Idem
per il nuovo film dell'enfant
terrible Pang Ho-cheung,
Missbehavior.
Un film disuguale, ma quello che lo salva è – oltre che il
risultato complessivo come commedia di riappacificazione, che al
finale lascia effettivamente soddisfatti – il coraggio dell'eccesso
e della volgarità: che non è certo una novità per l'autore. Pang
Ho-cheung si potrebbe veramente definire un Nando Cicero patinato
(devo spiegare che questo lo intendo in senso assolutamente
positivo). Tutto il film s'incentra sulla ricerca di una bottiglia di
breast milk (latte umano): la terribile boss la conservava nel
frigo dell'ufficio per allattare il suo bambino e una giovane
impiegata l'ha usato per sbaglio per un cappuccino. Per salvarla, si
mobilita il suo gruppo di amiche, che una serie di litigi ed equivoci
avevano spaccato. La ricerca frenetica dà luogo a una serie di gag
esilaranti e anche molto fisiche, che non risparmiano nulla (la scena
del gabinetto dell'asilo, anche Nando Cicero avrebbe esitato a
girarla!).
Un
caso a parte, infine, è Three Husbands,
del grande Fruit Chan, già menzionato come produttore di Still
Human. C'è
un bellissimo film fra thriller e fiabesco di Curtis Harrington,
Night
Tide,
in cui un marinaio incontra una donna che (forse) è una sirena che
uccide i suoi amanti. Lo può ricordare il complesso e affascinante
Three
Husbands,
la cui protagonista Mui – una stupefacente interpretazione di Chloe
Maayan – è una prostituta ninfomane che lavora su un barcone, ha
tre mariti, fra cui suo padre, ed è (probabilmente) una lussuriosa
sirena del mare, della stirpe delle misteriose creature marine Lu
Ting. E' una fiaba contorta ed erotica nella linea del cinema
d'avanguardia ironico e delirante di Fruit Chan (più vicino quindi a
Public
Toilet
che a Made
in Hong Kong).
Non potrebbe la stessa Mui, che tutti vogliono e che da tutti si
lascia possedere, essere una metafora - o più precisamente
un'allegoria - della città di Hong Kong? E', questo, un film
profondamente satirico rispetto alle politiche di
integrazione/appropriazione della Cina continentale verso l'ex
colonia dopo la sciagura dell'Handover.
Da
Taiwan
menziono solo – va da sé, lo dico qui e vale per tutte le nazioni,
non sono riuscito a vedere tutti i film del vastissimo programma! –
un buon horror di David Chuang, The
Devil Fish.
E' il terzo episodio della serie Tag-Along ma (a
differenza del secondo) regge bene da solo, anche perché come storia
non è un seguito degli altri due; solo alla fine un paio di scene
inserite nei titoli di coda realizzano un collegamento con il primo.
Niente spirito mosien stavolta ma un “arcidemone” che si è
liberato; è una storia di possessioni ben realizzata. L'inevitabile
côté familiare e commovente non è invasivo e si lega con
intelligenza alla storia principale. Va detto che è abbastanza
evidente il ricordo di Stranger Things nella pericolosa idea
di un paio di ragazzini di prendere un pesce di provenienza demoniaca
e allevarlo – tuttavia il film non va oltre, e resta saldamente
fondato nella cultura magica cinese.
E siamo alla Cina
continentale, che ha rappresentato uno dei punti forti del festival
con due film eccellenti. Il “coeniano” A Cool Fish
di Rao Xiaozhi è una commedia nera, dove vediamo due storie
interlineate (due balordi, Big Head e Bra, fanno una rapina e si
rifugiano presso una giovane donna paralizzata; un ex poliziotto, Ma
Xianyong, finisce nei guai nei suoi tentativi di rientrare nelle
forze ausiliarie) e poi i fili narrativi cominciano a unirsi; man
mano che il film va avanti vediamo delinearsi tutta una serie di
connessioni fra i vari personaggi, come una ragnatela, finché ci
accorgiamo che stiamo vedendo un'unica grande storia che praticamente
è il mondo.
La prima parte è
follemente buffa, si ride appunto come in una commedia dei fratelli
Coen; ampliandosi, il film dipinge – senza perdere in levità –
il quadro del dramma personale della donna paralizzata (che si scopre
essere la sorella di Ma) e, ancor più in generale, del dolore della
vita: tutti i personaggi mostrano sotto la loro buffoneria la loro
essenza umana. La bellezza delle interpretazioni (in particolare Ren Suxi, la donna paralizzata) è tale che da sola varrebbe il film.
Non meno importante
è Lost, Found di Lü
Yue. Feng Xiaogang è produttore esecutivo, e si vede. Formalmente è
un thriller su un caso di kidnapping, ma questa è solo la
forma narrativa attraverso la quale viene messo in scena un dramma su
due donne di classi sociali opposte: la madre della bambina, una
ricca avvocatessa, e la bambinaia, una donna povera con una storia di
sciagure, che è la rapitrice. Com'è ovvio questo getta anche una
luce sulla condizione della donna in Cina. Un racconto teso, con una
doppia interpretazione eccellente (Yao Chen è la ricca, Ma Yili è
la povera) e una fotografia elegantemente impositiva di Cheng
Mazhiyuan. Man mano che emerge la triste vita della bambinaia, il
film – senza perdere il suo elemento di suspense – aggiunge un
elemento commovente di totale disperazione: la corsa a piedi verso
l'ospedale sotto la pioggia con un'altra bambina morente è una
pagina di melodramma dickensiano, perfino troppo dolorosa per lo
spettatore.
A un livello un po'
inferiore a questi due splendidi film, When Love Blossoms
di Ye Tian è una storia, forse un po' esile ma assai graziosa, di
timido amore (il finale resta aperto, ma probabilmente è amaro) fra
un delivery boy e una aspirante donna in carriera – dove,
cosa interessante, il perdente nel feroce sistema di classe cinese è
lei. L'aspetto maggiormente degno di nota è però il rapporto fra il
testo e il teatro: nel film, la storia (la diegesi) ruota intorno
alla messa in scena di un dramma (autentico, opera di di Zou Jingzhi)
a teatro, dalle prove fino alla sera della prima. Il film e il dramma
hanno lo stesso titolo, e si crea per il protagonista maschile una
sorta di rispecchiamento fra la storia messa in scena e la propria.
Ottimo l'interprete Liu Di, un viso particolarissimo che ricorda il
giovane Sam Lee.
E' coinvolgente e
ben narrato The Rib di Zhang Wei, in cui un giovane
vuole operarsi per diventare donna. Suo padre dà di matto ma alla
fine comprenderà. La vicenda è inserita in un ambiente religioso: è
una famiglia di cristiani. The Rib (naturalmente è la costola
di Adamo) è un film apertamente educational, per intenderci
di quelli che si proiettano nelle scuole (non credo in Cina, però,
anche se si conclude con una didascalia che vanta la politica
liberale del governo cinese rispetto al cambio di sesso). Ma il buon
livello della realizzazione riesce a far superare l'impressione di
didatticismo. Il film è girato in b/n – bella la fotografia di
Lutz Reitmeier – con un'unica macchia di colore, rosso, il vestito
da donna che simboleggia il desiderio del protagonista (come aveva
fatto Spielberg in Schindler's List).
Da menzionare infine
Dying to Survive di Wen Muye, molto piaciuto al
pubblico, che trova una forte nota di verità nella descrizione delle
sofferenze dei malati di cancro che non possono permettersi una
costosissima medicina – per cui il protagonista importa
clandestinamente un medicinale analogo dall'India.
Uno sguardo
particolare va sempre riservato al magnifico cinema del Giappone.
Un film di altissimo livello, forse il migliore di tutto il festival,
è Lying to Mom di Nojiri Katsumi. E'
proprio della commedia il concetto di un inganno sfacciato che viene
continuamente sfidato dalla realtà e così deve diventare sempre più
grande... pensate a Good
Bye, Lenin! Questo
succede in Lying
to Mom a
livello familiare.
Un hikikomori
(recluso volontario) si suicida e la madre trovandolo batte la testa
ed entra in coma. Al risveglio dopo 49 giorni ha dimenticato tutto.
Così i familiari la ingannano facendole credere che nel frattempo il
figlio è uscito dalla sua stanza ed è andato in Argentina. La madre
è felice ma la finzione (con cartoline e regali) è difficile da
mantenere; soprattutto gli altri familiari devono compiere di
nascosto l'elaborazione del lutto – il grande tema del film.
Splendidamente interpretato, è un film intenso, pieno di dolore,
anche se la conclusione procede in modo fluido verso la leggerezza.
Con un ossimoro lo si potrebbe definire una commedia dove si piange
invece di ridere. Ricorda Kore-eda (e che il regista e sceneggiatore
tenga presente Kore-eda si vede bene dall'apparizione del pipistrello
alla fine). Nojiri ha una mano sicura e un perfetto senso narrativo;
c'è qualcosa di inesorabile nel suo procedere; la conclusione, però,
rappresenta un superamento.
C'è
una moralità senza moralismo e un'adesione al vero – intendo il
vero profondo della vita – che trovo ammirevoli.
Un
altro film di eccellenza è un debutto, e ha vinto il premio della
giuria per le opere prime: Melancholic di
Tanaka
Seiji (che
sul palco del FEFF ha gridato “Voglio vivere a Udine!”).
Sono
Pazzi Questi Giapponesi, direbbe Obelix e avranno detto gli
spettatori di quest'intelligente, acuta commedia nera dell'assurdo,
una sorta di
coming of age
nel sangue. Al
cuore Melancholic
ha qualcosa di profondamente nipponico, nella sua freddezza
dell'espressione dei sentimenti, che
sono da non esprimersi, salvo inevitabili scoppi emotivi. I
suoi due inservienti di un bagno pubblico di giorno e killer e/o
smaltitori di cadaveri di notte, i magnifici attori Minagawa Yoji e
Isozaki Yoshitomo, sono una coppia di figure lunari che sarebbero
piaciute ad Angelo Maria Ripellino. In
particolare, Minagawa Yoji offre un'interpretazione magistrale nel
ruolo dello sfigato: vedi come parla con la ragazza che gli piace,
tutto orientato da un lato, sfuggente, con un lavoro attoriale sul
corpo ammirevole nella sua naturalezza. L'umorismo freddo e balzano
del film diventa vorticoso man mano che va avanti, mantenendo
tuttavia un sottile, e quasi perverso legame con la realtà.
Oltre
all'adorabile Fly Me to the
Saitama
di
Takeuchi Hideki (vedi scheda
sotto),
molto apprezzato HARD-CORE
di
Yamashita Nobuhiro. Yamashita è sempre stato un
regista di personaggi: di piccole figure bizzarre che si muovono nel
mondo come stupefatte, trasognate e quasi (per fare un complimento
troppo grosso) beckettiane; e ne dà conto con un cinema della
lentezza pieno di sospensioni, come stupefatto anch'esso. Va detto
che quel suo tempo sospeso nasconde spesso dei limiti narrativi; ma
HARD-CORE
è certamente fra i suoi film migliori. E' tratto da
un manga e i personaggi sono la quintessenza della bizzarria: non
solo i protagonisti, due ultra-sfigati e il loro compagno robot che
sembra costruito in cucina con la cassetta degli attrezzi di casa, ma
anche le deliranti figure di contorno: il vecchio leader
dell'organizzazione di estrema destra, il suo vice che sembra un
Kitano perverso, e la figlia ninfomane di quest'ultimo. Per il
piacere delle signore (che resterebbe amaramente frustrato se dovesse
contentarsi dei due protagonisti) c'è anche un noto idol nel
ruolo del fratello opportunista.
Mi spiace di aver
perduto, causa un impegno, l'apprezzatissimo Every Day a Good Day
di Omori Tatsushi. Se diamo uno sguardo ai film minori (rispetto ai
precedenti, intendo, ma tutti rispettabili), ecco Sabu che torna al
festival con Jam, un film rappresentativo dei suoi
pregi e dei suo difetti. Fulminanti tocchi di originalità e
tratti di eccessivo autocompiacimento. Sono tre storie interlineate,
di cui quella del cantante enka Hiroshi e della sua “fan
numero uno” Masako è di gran lunga la più interessante (vedi
l'ottima scena del dibattito all'inizio), solo che risulta un plagio
quasi spudorato di Misery non deve morire – sorretto però
da due ottime interpretazioni. Quella dell'invincibile picchiatore
Tetsuo (il nome è, credo, uno spiritoso tocco ironico) è graziosa
per l'esagerazione degli scontri. La terza, quella del “benefattore”,
serve solo alla connessione narrativa.
Dare to Stop
Us di Shiraishi Kazuya è un'accurata rievocazione dei tempi
e dell'ambiente del famoso regista ribelle Wakamatsu Koji. Il suo
grave limite è di concentrarsi tutto sull'aspetto politico anziché
sull'erotismo rivoluzionario e crudele di Wakamatsu; col che rischia
di darne un'immagine un po' falsata. Only the Cat Knows
di Kobayasi Syoutarou (a.k.a. Kobayashi Shotaro), autore dell'ottimo
Hamon: Yakuza Boogie, tratto da un manga, narra la storia di
una crisi coniugale fra due anziani coniugi. Il ritmo è lento e si
può sospettare un certo autocompiacimento in questa lentezza.
Kobayashi è dotato, ma non è un Hiroki Ryuichi: nella sua
descrizione dell'immediatezza del quotidiano c'è grazia, ma non
grandezza.
Parlando della
Corea, vorrei iniziare con
Default di Choi
Kook-hee, la storia autentica del fallimento della Corea nel 1997,
con i politici che scelgono di affidarsi per un bailout
al Fondo Monetario Internazionale, capeggiato da uno spietato Vincent
Cassel (l'arrivo dei delegati FMI inquadrati di schiena è puro
gangster thriller). Il costo sarà carissimo.
Molto abilmente narrato e sorretto da un ottimo montaggio di Shin Min-gyeong, il film riporta la storia del default coreano esattamente nelle forme narrative del disaster movie, compreso il frazionamento in storie interlineate; e l'equivalente del classico personaggio della Cassandra ignorata e vilipesa tocca a una dirigente coreana in un'eccellente interpretazione di Kim Hye-soo, attrice molto versatile oltre che molto bella, ben nota al pubblico del FEFF. C'è un discorso agli investitori di un giovane squalo della finanza (col volto familiare di Yoo Ah-in) che è una vera lezione di economia in pillole. Ecco un film che (anche per la sua insistenza sui costi umani) andrebbe non solo visto ma studiato.
Molto abilmente narrato e sorretto da un ottimo montaggio di Shin Min-gyeong, il film riporta la storia del default coreano esattamente nelle forme narrative del disaster movie, compreso il frazionamento in storie interlineate; e l'equivalente del classico personaggio della Cassandra ignorata e vilipesa tocca a una dirigente coreana in un'eccellente interpretazione di Kim Hye-soo, attrice molto versatile oltre che molto bella, ben nota al pubblico del FEFF. C'è un discorso agli investitori di un giovane squalo della finanza (col volto familiare di Yoo Ah-in) che è una vera lezione di economia in pillole. Ecco un film che (anche per la sua insistenza sui costi umani) andrebbe non solo visto ma studiato.
Gli
zombie partono all'attacco della Corea in due film. La Corea
medievale dell'epoca Joseon in Rampant
di Kim Sung-hoon (vedi scheda
sotto);
la Corea contemporanea in The
Odd Family: Zombie on Sale
di Lee Min-jae, una commedia horror molto divertente e (nella prima
parte) originale. Una famiglia di sfigati che gestiscono un
distributore in declino s'imbatte in uno zombie fuggito da un centro
ricerche. Questo zombie morde il capofamiglia; dopo il classico
periodo di incubazione il padre non diventa zombie ma ringiovanisce!
Così tutti i vecchietti del paese vogliono farsi mordere, la
famiglia lo trasforma in un business tipo catena di montaggio e fanno
i soldi. Nel frattempo, la figlia si innamora di questo giovane
zombie, stile Warm
Bodies,
mentre l'ambizioso figlio minore vuole rapirlo e portarlo a Seoul
come esemplare da studiare per l'industria del Viagra. Se
la prima parte è più commedia coreana di tipi, la seconda svolta in
pura commedia horror, con un'invasione di zombie mostruosi come i
loro omologhi degli horror “seri”. Gli appassionati di zombismo
cinematografico apprezzeranno le citazioni, da La
notte dei morti viventi
(il distributore) a La
terra dei morti viventi
(i fuochi artificiali) a Train
to Busan
(la galleria, nonché l'intelligente uso di un clip all'inizio).
Le
atmosfere “storiche” di Rampant
si ritrovano (qualche secolo prima) nel fragoroso e appassionante The
Great Battle
di Kim Kwang-sik. Come potrebbe mancare al FEFF la magia delle epopee
in costume? Mixando storia e ricostruzione di fantasia, il coreano
The
Great Battle è
una super-epica spettacolare che dipinge con grande senso del ritmo
un assedio (storicamente avvenuto) in cui pochi coreani difesero una
fortezza contro centinaia di migliaia di invasori cinesi. Una
sarabanda movimentatissima di astuzie ossidionali, contro-astuzie
difensive e combattimenti da sgranare gli occhi.
Abbiamo
menzionato di passaggio Train
to Busan:
grazie alla sua parte in quel film, Ma Deong-seok è diventato una
star. Lo ritroviamo in Unstoppable
di Kim Min-ho. Interpreta un simpatico tontolone, ex gangster
redento, noto in passato per la potenza dei suoi pugni come Toro
Scatenato, che è il titolo coreano del film. Quando sua moglie viene
rapita da una gang che ruba donne per la prostituzione (un tratto
bizzarro è che risarcisce i parenti: e sentiamo che di solito padri
e mariti accettano i soldi!), il protagonista – assieme al suo
socio e a un comico investigatore privato – rintraccia la banda e
fa giustizia. E' una specie di violento thriller avventuroso, molto
piacevole, con Ma
Deong-seok che mena botte da far impallidire Bud
Spencer e con più di un tocco di originalità (assai divertente
quando s'introducono sotto mentite spoglie nella stazione di
polizia).
Ancor più
divertente è Extreme Job di Lee Byoung-heon
(strepitoso successo in patria), in cui un gruppo di poliziotti
pasticcioni affitta un negozio di pollo fritto fallito per
sorvegliare il covo di gangster dirimpetto. Tanto non ha mai
clienti... Ma, come in Criminali da strapazzo di Woody Allen,
la copertura culinaria salta perché inaspettatamente si rivelano
troppo bravi. Di qui un'epopea di sfiga e di botte, molto gustosa,
anche se la seconda parte è un'orgia di action che va bene in
sé ma non quaglia molto col resto del film.
Menziono di
passaggio un paio di thriller riusciti (Believer di Lee
Hae-young) o meno (Doorlock di Lee Kwon); meno interessante il
drammatico Birthday di Lee Jong-un (anche se è impossibile
non commuoversi con un film che è un fiume di lacrime su una
tragedia reale); la commedia Intimate Strangers di Lee
Jae-gyu, uno dei mille remake di Perfetti sconosciuti
che spuntano nel mondo: la recitazione è corretta e il cibo coreano
a cena porta una nota attraente.
Quello però che ha
inevitabilmente messo in ombra la selezione coreana, e non solo, è
la stupenda retrospettiva intitolata “I Choose Evil” –
Lawbreakers Under the Military Dictatorship, curata da Darcy
Paquet (al quale deve andare un grande ringraziamento).
Si tratta di otto film incentrati su personaggi che violano la legge
in varie forme, girati durante i trent'anni di dittatura militare in
Corea (1961-1993): otto film veramente eccezionali, opera di registi
già noti al pubblico del FEFF (Lee Man-hee, Im Kwon-taek, Kim
Ki-young) o no (Jo Keung-ha, Lee Doo-yong, Jang Sun-woo), ma tutti
affascinanti, da non dimenticare per le future esplorazioni. La
rassegna è accompagnata da un bel volume a cura di Darcy Paquet.
Dalle
Filippine
arriva la deliziosa commedia sentimentale di Dan Villegas Heaven's
Waiting.
Non è casuale la connessione del titolo con Heaven
Can Wait
di Lubitsch. Mette in scena un aldilà burocratico, che ha l'aspetto
di un albergo decaduto gestito da premurosi “guardiani”, dove i
morti aspettano di andare in paradiso – come nel magnifico After
Life
di Kore-eda Horozaku. Qui si rincontrano gli anziani Manolo e Lisang
(Eddie Garcia e Gina Pareño). Erano stati amanti in gioventù, poi
si erano lasciati, sposando altri – ma senza ammetterlo sono ancora
innamorati tra loro. Il film mette a nudo le verità della loro
storia passata e descrive il loro riavvicinamento; così,
l'invenzione divertentissima di questo aldilà con tutte le sue
regole si rivela essere lo sfondo per una descrizione elegiaca
dell'amore da vecchi. Dal tono di comedy
iniziale si passa, in modo ben calibrato, a una commedia drammatica
sentimentale – con una conclusione commovente quanto Ghost.
I due interpreti sono fenomenali. Eddie Garcia è Eddie Garcia, e non
si discute; ma forse ancor di più colpisce Gina Pareño: la sua
interpretazione, tutta nuances
psicologiche rese attraverso la mimica del volto, è indimenticabile.
Mikhail
Red con Eerie
ci offre un bell'horror di ambientazione cattolica
(vedi scheda sotto).
Chito S. Roño, un regular
del FEFF, ritorna con il notevole Signal
Rock,
che forse ha all'inizio uno sviluppo un po' indeciso ma in seguito
cresce molto. E' la storia di Intoy, un ragazzo servizievole (“amico
di tutti e nemico di nessuno”) di famiglia poverissima, in un
villaggio. Bisogna fingere che la sorella Vicky, che ha mollato il
convivente manesco in Finlandia, sia ricca – altrimenti rischia di
perdere l'affidamento della sua bambina. Così Intoy organizza una
grande cospirazione coinvolgendo tutto il paese.
Il
tema generale del film è la povertà che fa sì che le ragazze
vadano via dal villaggio nella speranza di sistemarsi, abbandonando i
giovani locali. La sequenza del rincontro di Intoy con Rachel, la sua
ex fidanzata che ha dovuto andare a Manila, e il loro triste addio
davanti alla corriera, è un pezzo di grande cinema. L'imbroglio avrà
successo; ma la conclusione, a differenza di quanto avverrebbe nel
cinema americano, è una sorpresa che chiude il film su una nota
triste senza essere tragica.
Miss
Granny di
Joyce Bernal, remake di un grande successo coreano, è più modesto
rispetto alle sue esplosive commedie come Mr.
Suave e Kimmy
Dora – ma là c'era l'elemento
demenziale, mentre qui la logica del remake impone quello
sentimentale. Brava Sarah Geronimo, attrice e cantante in questo film
che è quasi un musical.
La
Thailandia
era presente con due buoni horror. Krasue:
Inhuman Kiss di Sittisiri
Mongkolsiri (sceneggiato da Chookiat Sakveerakul, non ignoto al FEFF)
mette in scena la krasue –
che, come tutti sanno, di giorno è una donna normale, mentre di
notte la sua testa e le sue viscere si staccano dal corpo e volano
via in cerca di preda. Il film è però anche una storia d'amore;
possiamo definiarlo un melodramma horror. Con la storia di Sai (che
senza sua colpa è una krasue)
e dei suoi due innamorati, è un film di star-crossed
lovers, attraversato da un senso di
destino spietato e invincibile come The
Curse of the Werewolf (L'implacabile
condanna) di Terence Fisher. Tanto
l'aspetto melodrammatico quanto quello orrorifico sono gestiti con
competenza.
In
Reside
di Wisit Sasanatieng (The
Unseeable)
torna il classico concetto del gruppo assediato in un
luogo claustrofobico: possono essere gli arabi ribelli attorno a Fort
Zinderneuf nei vecchi film sulla Legione, l'assassino misterioso
sull'isola in Dieci piccoli indiani, gli zombi attorno alla
vecchia casa ne La notte dei morti viventi, o gli spiriti
pronti a possederti che si aggirano in una villa come nel presente
film; in ogni caso, questo assedio, questa costrizione in un luogo
chiuso, ha la possibilità di far uscir fuori le psicologie e la
backstory. Come in una gigantesca dissolvenza incrociata,
sotto l'attacco degli spiriti in cerca di un corpo si delinea la
complessa rete di rapporti, di verità nascoste, e anche di colpe,
che lega i personaggi. Va da sé che ciò porta in scena un concetto
che giace sotto la maggior parte degli horror , cioè che più che i
fantasmi fanno paura la malvagità e il dolore umano. Reside
è bello; si sente abbastanza chiaramente l'influsso di Sam Raimi ma
comunque è mantenuta l'autonomia del racconto.
Passiamo
alla Malaysia con
tre buoni film. Siamo ancora in zona horror con Two
Sisters
di James Lee. La Kuman (la casa produttrice) si chiama così in onore
di Roger Corman, il che la rende subito simpatica. Two
Sisters non
corrisponde alla nostra solita idea di film malaysiano ed è
piuttosto un film cinese: è parlato in mandarino e interamente
interpretato da attori di questa lingua, perfino quando le due
sorelle che vivono in una villa di campagna devono chiamare un fabbro
per forzare una doppia serratura. Questa potrebbe essere una
soluzione per vendere meglio il film nei territori come Hong Kong o
Taiwan, ma anche dà l'idea di una comunità molto separata. E' un
piccolo, elegante film di fantasmi e paranoia, la cui soluzione
(attenzione, spoiler!) lo accomuna a tutta una serie di film come
Allucinazione
perversa
di Adrian Lyne o Shadow
di Federico Zampaglione.
In
Fly by Night
di
Zahir Omar, una famiglia compie piccole estorsioni
(p.es. riscatti per finti rapimenti) approfittando del loro lavoro di
tassisti. Il fratello minore e il suo amico – una delle coppie di
scemi nati più sciagurati del cinema (tanto che è un piacere
vederli prendere un sacco di botte nel film) – combinano un tale
guaio da portare la famiglia al disastro. Si
capisce che gli autori si sono guardati bene il cinema di Michael
Mann, anche se ovviamente sono lontani dal raggiungerlo. Non è un
capolavoro, ma un thriller piacevole, fluido, che non annoia mai. Bei
visi, ritmo veloce, la giusta dose di violenza, e perfino un certo
interesse per i destini di questa famiglia e anche per
l'investigazione del poliziotto Kamal (una spiritosa interpretazione
di un bravo attore noto al FEFF, Bront Palarae).
In
Motif
di Nadiah Hamzah, una donna ispettore di
polizia, Dewi, viene mandata dalla città a investigare sulla
scomparsa della figlia di un pezzo grosso nella
campagna malaysiana, e naturalmente non trova grande appoggio nella
polizia locale. Ma essendo una dura va avanti nonostante le
intimidazioni.
Diretto
da una donna, il film è molto attento al difficile ruolo femminile
nella società maschilista islamica. In particolare tocca la barbara
usanza che consente ai soli maschi di avere più mogli; e ciò, tanto
nella descrizione della vita personale di Dewi, che è in questa
situazione (lo sentiamo nelle sue conversazioni telefoniche) quanto –
a sorpresa – nella soluzione del mistero.
Ora
alcuni “pezzi unici” da paesi che quest'anno hanno partecipato
con un solo film. L'Indonesia con 212 Warrior
(pronuncia two-one-two): un fantasy storico di arti marziali
deliziosamente silly. L'eroe Wiro Sableng (Wiro il Pazzo,
protagonista di una serie di romanzi in patria) ha un atteggiamento
esilarante, mezzo gay mezzo svitato, e abbondano le citazioni
tongue-in-cheek, da Conan il barbaro al quadro del
Viandante davanti a un mare di nebbia di David Caspar
Friedrich, da una sfera di energia che sembra uscita da Dragon
Ball a un uomo-maiale che occhieggia al Viaggio in Occidente
(un testo classico cinese che sta alla base di innumerevoli film).
Da
Singapore arriva il sottovalutato Konpaku di
Remi M Sali. Pur avendo un paio di momenti di paura (e concludendosi
con un esorcismo musulmano), non è un horror nel senso più
immediato, di genere, dell'espressione. Per fare un paragone con un
film di livello ovviamente molto più alto, è come L'esorcista
di Friedkin: parte da una base horror per mirare a una riflessione
più generale, “filosofica”, sui rapporti umani. Konpaku
in giapponese significa anima.
Il
trentenne disoccupato Haqim, un musulmano Malay, vive con la madre e
passa le giornate con un gruppo di amici (la descrizione di questi
autentici vitelloni Malay è simpatica). Corteggia una ragazza
giapponese, Midori (la brava attrice Lizzie V), anche intrigato dalla
sua franchezza in opposizione alla repressione sessuale del suo
ambiente. Il guaio è che Midori non è umana, è una specie di
demone succubo, e ne nasce una autentica possessione che si sviluppa
– questo è originale – attraverso un rapporto tramite
smartphone. Nota in margine: posso benissimo comprendere Haqim,
perché questa Midori è, come si dice, una bellezza spaziale.
Infine,
dal Vietnam arriva Furie di Le Van Kiet. Nei
film di mazzate, è sempre una variazione piacevole quando lo
spaccaossa della situazione è una donna. Qui Phuon (Veronica Ngo),
ex malavitosa, si è ritirata in campagna per allevare sua figlia.
Quando la bambina viene rapita da trafficanti d'organi, li segue a
Saigon e scatena il finimondo. Furie è un film molto agile
(no pun intended) che nella sua semplicità riesce a tenere in
tensione lo spettatore per tutta la sua ora e mezza. Il merito è di
un buon montaggio e soprattutto di Veronica Ngo, che non solo
trasmette con una buona interpretazione sentimenti ovvii ma veraci ma
se la cava molto bene nelle scene di combattimento. Non per niente
nel dialogo viene paragonata a una tigre cui sono stati rapiti i
cuccioli. Grande lo zoom finale sul suo volto – che incarna quella
ferocia senza la quale non esiste giustizia.
Della
retrospettiva principale abbiamo parlato. Non sono poi mancati due
bei restauri, i documentari, la rassegna Ten Years (il futuro
dieci anni a questa parte in tre film a episodi di tre paesi) e una
mini-rassegna, che mi spiace d'aver perso, sulle commedie
indipendenti coreane. Davvero la Corea ha fatto la parte del leone
quest'anno! Ed è giusto, perché festeggia i 100 anni dal suo primo
film.
Ma in chiusura vorrei menzionare un'idea eccellente, a cura di Roger Garcia, che spero si replicherà: The Odd Couples, in cui vengono proiettati insieme un film orientale e uno occidentale legati da un rapporto di remake o comunque di ispirazione. Così abbiamo rivisto su grande schermo – con vero godimento – City on Fire di Ringo Lam e Le iene di Quentin Tarantino, nonché Il mondo di Suzie Wong e il rarissimo My Name Ain't Suzie (1985) di Angie Chen che è la “risposta” hongkonghese al film di Richard Quine. My Name Ain't Suzie è è un grande quadro di trent'anni della vita di una prostituta, coraggiosa e volitiva, a partire dal 1958; ed ha, nel suo svolgimento misto di storia e melodramma, somiglianze non indifferenti con le epiche storiche di Francis Ford Coppola. Vederlo è stato un privilegio.
Ma in chiusura vorrei menzionare un'idea eccellente, a cura di Roger Garcia, che spero si replicherà: The Odd Couples, in cui vengono proiettati insieme un film orientale e uno occidentale legati da un rapporto di remake o comunque di ispirazione. Così abbiamo rivisto su grande schermo – con vero godimento – City on Fire di Ringo Lam e Le iene di Quentin Tarantino, nonché Il mondo di Suzie Wong e il rarissimo My Name Ain't Suzie (1985) di Angie Chen che è la “risposta” hongkonghese al film di Richard Quine. My Name Ain't Suzie è è un grande quadro di trent'anni della vita di una prostituta, coraggiosa e volitiva, a partire dal 1958; ed ha, nel suo svolgimento misto di storia e melodramma, somiglianze non indifferenti con le epiche storiche di Francis Ford Coppola. Vederlo è stato un privilegio.
Così,
su Hong Kong si è aperto questo lungo articolo e su Hong Kong si
chiude.