La grande scoperta che
il 22° FEFF ha offerto ai suoi spettatori, con quattro film, è il
geniale Watanabe Hirobumi. Nato a Otawara (prefettura di Tochigi)
nel 1982, ha fondato col fratello Yuji, compositore di musica per
film, la casa di produzione Foolish Piggies Films nel 2013. Va detto
subito che Yuji oltre che co-produttore è autore della colonna
sonora di questi film: dire delle musiche sarebbe giusto ma
riduttivo, poiché tutti i film dei fratelli Watanabe hanno un
accuratissimo montaggio del suono.
Nella cittadina
agricola di Otawara sono sempre ambientati i film di Watanabe, e
questo senso filmico del genius loci è il primo elemento che
contribuisce a creare – potremmo – il Watanabeverse. Da
film a film ritornano i luoghi (cito
solo una strada di campagna, teatro nei suoi film di interminabili
camminate); le inquadrature filmate; e naturalmente i volti. Watanabe
ama usare lo stesso gruppo di non professionisti, suoi
amici e collaboratori, a volte col loro nome autentico, a volte no.
Fra di essi, la nonna centenaria Hirayama
Misao (scomparsa di recente a 102 anni) e la bambina
Hisatsugu Riko, che assurge a protagonista dell'ultimo film, I'm
Really Good (2020). E naturalmente c'è il regista, che
interpreta i propri film come una sorta di se stesso visto in uno
specchio un po' deformante.
Per dare un’idea a
chi non ha visto questi film: pensate a Jim Jarmusch incrociato col
David Lynch di Una storia vera – ma il regista dichiara
anche altri numi tutelari, da Wenders ad Allen a Kaurismäki. In una
parola, Watanabe Hirobumi è un poeta del quotidiano.
Parlando in generale,
un film ha di solito uno sviluppo drammatico, ossia contempla un
avvenimento “diverso” (comico o tragico che sia) che irrompe
nella vita quotidiana e lo spinge lungo un nuovo percorso che desta
la nostra meraviglia: peripezia.
Watanabe invece trova
la meraviglia nella vita di ogni giorno. C'è
qualcosa di arcano nel modo in cui i suoi film riescono a rendere
appassionante la quotidianità più immediata e uneventful.
I suoi piccoli avvenimenti ordinari (guardati
attraverso la lente di una splendida fotografia in bianco e nero,
firmata da Bang Woo-hyun) assumono un senso nuovo, una quieta
emozione, una pregnanza: il calmo fluire della realtà si
trasforma in cosa mirabile. Nella grande divisione del cinema fra una
linea Lumière e una linea Méliès, i fratelli Watanabe (fratelli
come i Lumière) si situano nella prima. Non fotografano
semplicemente la realtà – non sono documentaristi – ma trovano
nello svolgersi della realtà, non nella peripezia che la rompe, la
meraviglia e la poesia.
I
film di Watanabe si fondano quindi su un'estetica della ripetizione;
dentro il film, ma anche da film a film. Perché la ripetizione è la
base della nostra vita – ma il cinema è nato per eliderla; e
invece Watanabe la porta in primo piano. Si direbbe che lui sì
riesca a concretizzare il vacuo programma del rumoroso Zavattini.
Certo, c'è dietro un accorto lavoro di preparazione: i film di
Watanabe sono piccoli gioielli accuratamente sfaccettati. Dove
l'attenzione al mondo naturale (per esempio le ricorrenti
inquadrature delle nuvole) non offusca il fatto che il grande
elemento di esplorazione alla base di tutto il suo cinema è l'uomo.
La voce over della
radio accompagna vari film come una colonna sonora laterale. In
Poolside Man (2016) attenta alla sanità mentale del
protagonista con le notizie ossessive di un mondo sconvolto da guerre
e terrorismo. In Party 'Round the Globe (2018) mantiene questo
aspetto inquietante ma incrociandolo con l'evento felice della visita
di Paul McCartney in Giappone. In I'm Really Good consente –
come vedremo – una specie di allusione politica.
La cosa più
importante: sono, questi film, attraversati da un bizzarro senso
dell'umorismo, che raggiunge il suo vertice nelle folli tirate
polemiche di Watanabe (la vita, la politica, il rock, gli anime, il
cinema) in auto, seduto vicino a uno stoico guidatore che ascolta
impassibile e perpetuamente muto (Poolside Man, Party
'Round the Globe, Life Finds a Way [2018]). Ciò non
impedisce che in Poolside Man, dopo uno dei suoi monologhi, il
personaggio di Watanabe lo elogi dicendo che è uno con cui si può
discutere.
Andiamo ora a vedere
brevemente i quattro film di Watanabe presentati dal FEFF. Il
bellissimo Party 'Round the
Globe (dove
il globe
è un mappamondo che compare più volte e il party è quello per i
cento anni della nonna che conclude il film) si potrebbe definire:
vita quotidiana di due bizzarri fan dei Beatles. Si apre con i
disegni a colori di un libro per bambini (per inciso, l'autore è il
padre del protagonista Imamura Gaku). Come in Poolside
Man,
e con lo stesso protagonista, Imamura, il film racconta la routine
quotidiana di un personaggio tampinato da un collega irruento
(Watanabe). In questo caso, il collega è un appassionato dei Beatles
e i due finiscono al concerto di Paul McCartney a Tokyo.
Fra
l'altro il film trova modo di rispondere a una domanda che ci siamo
sempre posti: sognano i cani? Qui il cane del protagonista Honda
(Imamura), che appropriatamente si chiama Ringo, sogna in flashback
una passeggiata in campagna con lui, e una donna e una bambina (che
sono la piccola Riko, regular
watanabiana,
e sua madre). Ma qual è il rapporto fra Honda e le due? Sembra
davvero una famiglia – ma lui nel film vive una vita solitaria col
cane. Cos'è successo? Non lo sapremo mai – e questo introduce una
sottile drammaticità.
Life
Finds a Way invece è l'Otto
e mezzo di Watanabe. Lui,
pienamente nel ruolo di se stesso, sta preparando un film ma è in
crisi creativa – e così non risponde alle telefonate, dorme,
guarda i Mondiali, pesca gamberi con la piccola Riko, si fa ammonire
invano dalla dottoressa che vorrebbe metterlo a dieta, fa una
spudorata scena di paura dalla dentista, si fa cazziare in biblioteca
perché è rumoroso, e naturalmente fa polemici e lamentosi monologhi
in auto con lo stoico aiutante Kurosaki, altra “spalla”
impassibile e divertentissima.
Il
film è superbo nel suo sense of humour. La lettera di una
non-ammiratrice (quale progressio ad infinitum in questo
attaccone!); l'incontro del regista col sindaco di Otawara, cui
chiede un finanziamento di due milioni di yen; la preghiera al Dio
della Montagna al tempio, con la richiesta di non dare idee ai suoi
rivali – sono pagine assolutamente esilaranti.
A
un certo punto, verso la fine del film, Watanabe si avvicina a Godard
(nella sezione intitolata Interview), e forse la seconda metà
di questa sezione (Interview Part II) mostra un'ombra di
eccessiva consapevolezza – ma temperata dalla simpatia personale e
dall'umorismo del regista.
Cry
si distacca alquanto dagli ultimi film della Foolish Piggies,
riprendendo come concetto il vecchio 7 Days:
là si trattava di un allevamento di mucche, qui di maiali. Girato in
uno stupendo b/n contrastato, è un film privo di dialoghi, ma con un
grande lavoro sul suono. Cry
è scandito da cartelli che annunciano i giorni della settimana ed è
una tranche de vie –
che nel ripetersi delle azioni ritorna continuamente su se stessa –
di un personaggio anonimo (chiamiamolo X) cui dà volto Watanabe.
X
dunque lavora in un allevamento di maiali. In una ossessiva
ripetizione di immagini vediamo i maiali che si accalcano nei
recinti, X che li nutre e dà loro da bere oppure pulisce i corridoi
tra i recinti, X che cammina inquadrato di schiena lungo una strada o
un viottolo erboso. Tutto questo è intervallato da scene in cui X
mangia in silenzio, in un triste panorama con sul fondo una fila di
tralicci, col rumore dei teli di plastica sbattuti dal vento; e la
sera cena con la nonna, ripresi in un'inquadratura sempre identica
“all'altezza del tatami”
alla Ozu; poi lava i piatti e la dentiera della nonna, poi aspetta di
addormentarsi.
Le
azioni si svolgono in brani di tempo reale – e, come sappiamo, è
una caratteristica del cinema che il tempo reale si trasformi
automaticamente in un tempo sospeso e dilatato. In questa
quotidianità malinconica, sempre uguale a se stessa, X ci appare
prigioniero quanto i maiali nei loro recinti. Anzi, si potrebbe
osservare che questi maiali luridi nei recinti sovrappopolati portano
nel film un elemento di individualità e di movimento (le loro
azioni, il loro nervosismo, la stessa differenza di età, dagli
adulti ai lattonzoli) che è assente nella ripetizione congelata
delle azioni di X. A un certo punto la loro cacofonia di grugniti
sembra elevarsi a un canto suino.
E'
vero che in una delle giornate vediamo X cambiare luogo e andare al
cinema. Ma il film cui assiste nella sala vuota è – grande tocco
di umorismo – uno di quelli di Watanabe (per la precisione I'm
Really Good), e nel contesto
sembra contenere lo stesso senso di astrazione della vita quotidiana
di Cry. Ad ogni buon
conto, X si addormenta. Il giorno seguente riprende il moto perpetuo
sempre uguale.
Cry
non è documentaristico. Il documentario cerca di presentare un “qui
ed ora” e sottintende una sorta di spiegazione. Qui abbiamo una
ripetizione di atti identici che implica di per sé una sorta di cupa
astrazione – e sembra postulare una coazione a ripetere che fa
pensare a una rassegnazione
davanti alla grande macchina della vita.
I'm
Really Good è il più recente
film di Watanabe, che ha voluto presentarlo al FEFF in prima
mondiale. E' dedicato alla bambina Riko. Sempre girato
in uno splendido b/n (ma il regista stesso ha sostituito Bang
Woo-hyun alla mdp), si apre con un prologo a colori girato con lo
smartphone, su di lei – una forza della natura – che buffoneggia
(“Come state tutti? Io sto benissimo!”).
Poi
I'm Really Good racconta
in un'ora di durata una semplice giornata della bambina. E' piccola
vita quotidiana: Riko dorme, si sveglia, si lava, va a scuola con la
sua migliore amica Nanaka e il fratello Keita; i tre giocano a un
gioco di parole (è la scena che il protagonista guardava al cinema
in Cry); vediamo la
scuola, i giochi in cortile, i compiti a casa, vicino al fratello e a
un memorabile gatto bianco. Siccome per sbaglio ha il quaderno di
Nanaka, Riko fa la lunga camminata fino a casa sua, non la trova,
torna indietro (in inquadrature identiche); a casa sente che Nanaka è
passata, così ritorna da lei; gioca con lei in casa e fuori; poi a
cena in casa con la madre, mentre il padre poliziotto è al lavoro,
Riko ride delle buffonerie di Keita, cerca di convincere la madre a
non farle finire il piatto, si lava i denti, va a dormire. L'unico
evento non quotidiano del film è la visita in entrambe le case di un
venditore ambulante di libri scolastici piuttosto losco (interpretato
da Watanabe) che trovandole da sole cerca di spennarle, ma se la fila
quando sente che Riko è figlia di un poliziotto, e idem quando se la
ritrova in casa di Nanaka.
Nel
corso del film sentiamo da una radio o tv fuori campo un polemico
dibattito con il primo ministro giapponese Abe Shinzo sulle pensioni;
e ciò volutamente non può non farci a pensare a quale sarà il
lontano futuro di questi bambini. Questo modo pacato e indiretto di
introdurre il tema politico è ammirevole.
Mi
sono dilungato sulla trama per dare un'idea della mancanza assoluta
di sviluppo drammatico – i bambini sono impersonati da loro stessi,
al pari della madre – che potrebbe dare l'idea di un film vuoto;
mentre invece è vivace, intenso, pervaso di un calmo fluire della
realtà che crea – tocca ripeterrsi – un autentico effetto di
quieta emozione. Anche queste lunghe camminate sono belle e
significative quanto le inquadrature vuote di Ozu. Si può dire che
questo film illustra al massimo grado il concetto giapponese di wabi
(sobrietà).