domenica 25 aprile 2010

Departures

Takita Yojiro

Questa è la storia di un violoncellista disoccupato che, tornato nella cittadina natale, risponde a un'offerta di lavoro credendo di trovare impiego in un'agenzia di viaggi - ma invece è un'agenzia dell'ultimo viaggio: Daigo diventa un nokanshi, colui che lava e prepara i cadaveri per il funerale sotto gli occhi dei parenti; e scopre anche di esserci portato. Però la moglie Mika (una figura splendidamente delineata in punta di penna), pur essendo una campionessa di tolleranza, non accetterebbe mai questa professione socialmente imbarazzante, e “impura”. Quindi, semplicemente, Daigo glielo tiene nascosto.
L'umorismo che attraversa il bellissimo “Departures” di Takita Yojiro non è humour noir, come ci si potrebbe aspettare dall'argomento, ma deriva da uno sguardo gentile sull'esistenza. E' questo che consente al film di fondere in maniera così fluida i suoi vari fili narrativi: la riflessione sulla morte (in relazione ai vivi), lo sviluppo mélo relativo al fatto che il padre di Daigo ha abbandonato la moglie e lui bambino, e infine i rapporti fra i due sposi in un matrimonio dove il marito fa sempre di testa sua. Due volte sentiamo lo stesso dialogo (“Potevi anche dirmelo” - “Sapevo che ti saresti opposta”): prima come amabile rimprovero su una grossa spesa, poi come scontro a muso duro quando Mika scopre il segreto di Daigo - e decide di non poterne più.
La caratteristica di “Departures” è l'abile incrocio fra elemento drammatico di rapporti ed elemento comico di situazione: la moglie apprende il lavoro di Daigo da una videocassetta pubblicitaria dell'agenzia con lui come “defunto”, il che provvede il momento più esilarante di tutto il film. Ma il miglior esempio di questo humour è - nell'apertura del film, che inizia in medias res per poi tornare indietro - la gag, ineffabilmente triste e comica insieme, del giovane nokanshi che lavando una ragazza morta suicida si accorge che in realtà è un ragazzo (i parenti lì davanti si sono guardati bene dal dirglielo) e si rivolge rispettosamente al suo boss e maestro: “la salma ha il coso”.
Ciò potrebbe dar adito a un'esplosione di comicità demenziale e scomposta, ma per l'appunto Takita - che aveva già incrociato la morte con i rapporti familiari nel bel “Secret” - lo sviluppa in forma assai sensibile e commovente. Da questa scena toccante, stacco violento all'ultimo concerto di Daigo. Non è un caso che il film usi qui l'Inno alla Gioia della Nona di Beethoven, per il suo valore di contrasto alla mestizia. Ma forse è possibile trovarvi un riferimento ancora più stretto (o forse lo pone solo la potenza divina del caso): non dimentichiamo che l'ode di Schiller inizia con le parole “O Freunde, nicht diese Töne”. Ebbene, esattamente queste parole potrebbero esser messe in epigrafe al film.
Esse rinchiudono in sé il senso dell'opera dei nokanshi come lo vediamo in “Departures”. Non è per i morti che lavora il nokanshi ma per i vivi. Al potere corrosivo della morte sui rapporti familiari (il dolore fa uscir fuori rancori e alterchi) corrisponde il potere risanante del rito della pulitura, della vestizione e del trucco del cadavere davanti ai familiari inginocchiati. Il film evidenzia meravigliosamente la “densità dello sguardo” degli astanti - il che comporta un alto livello interpretativo/espressivo non solo dei protagonisti ma anche dei caratteristi e persino delle comparse.
In una scena, un vedovo dapprima ostile si scusa per la sua aggressività e dice: “Voi oggi avete reso mia moglie bella com'era da viva... per questo grazie infinite di cuore”. L'arte del nokanshi (ormai perduta nella dimensione metropolitana) è di “trasformare” i morti: non solo comporli e rivestirli ma togliere dal loro viso, attraverso una sorta di massaggio, la rigidità e il dolore. Vibra qui quell'idea di bellezza transeunte che i giapponesi associano ai fiori di ciliegio. Rivederla nel morto rende più facile dirgli addio; e questo è il primo indispensabile mattone dell'elaborazione del lutto. In questo senso, l'invenzione del doppiaggio italiano che trasforma nokanshi in “tanatoesteta” è una buona traduzione e tuttavia non ricopre l'interezza del concetto originale quale lo vediamo in “Departures” (mentre si riferirebbe benissimo all'equivalente nella tradizione americana già satireggiata da Evelyn Waugh ne “Il caro estinto” ).
Dunque il ruolo del nokanshi nel film non è quello di psicopompo: non prepara il morto in quanto tale per il viaggio nell'aldilà; “Departures” è un film alieno da preoccupazioni metafisiche. Ma vi ritorna la concezione di un continuo fluire delle cose: la simboleggiano il volo delle gru bianche, i salmoni che risalgono il fiume, lo stesso fiume che scorre sotto un ponte molto presente nel film. Il tempo della vita è limitato, perché nulla resiste nell'eterno fluire (il buddhismo ha un termine per questo concetto: impermanenza). Già all'inizio, l'episodietto minimo della piovra introduce sia il tema della morte sia quella pietas che lo accompagna nel film.
Al centro di “Departures” giace (come è centrale nella cultura giapponese in assoluto) la dimensione del gesto. Il formalismo degli inchini si allarga al formalismo dei gesti dei due nokanshi, codificati e trattenuti, intrecciati di una lentezza e serietà che li rende preziosi. Il primo requisito è il pudore: “La pelle del defunto non dev'essere vista dai familiari, al fine di preservare la dignità del defunto”: si lava il corpo e gli si mette il kimono lavorando sotto il drappo funebre. Le parole chiave sono amorevolezza e rispetto.
Il film mantiene un pudore non dissimile a livello discorsivo. Assume lo stesso atteggiamento quieto e controllato dei suoi nokanshi nel raccontarci il loro lavoro: dalle molte inquadrature strette e frontali nelle scene della preparazione dei corpi, quasi fosse una soggettiva dei parenti (ciò che non è), all'assenza di innalzamenti retorici, se escludiamo alcune soluzioni di montaggio: gli stacchi sull'ambiente naturale e sul violoncellista che vi suona. Questa discrezione viene espressa magnificamente in una particolare scena. Quando la moglie morta è stata truccata, e gli astanti la possono guardare (con una crisi di pianto della figlia), l'enunciazione del viso di lei è ritardata: quando si avvicina il marito che piange, è per riserbo - non solo per abile costruzione narrativa - che non vediamo immediatamente il viso della morta fino a un nuovo cambio d'inquadratura. La distesa solennità di “Departures” si riflette nell'eccellente score musicale, che unisce musica classica alle belle musiche originali di Hisaishi Joe. Fare del personaggio di Daigo un musicista, che ama suonare il violoncello nei vasti spazi aperti, serve anche a questo scopo.
Sorregge il film l'apporto di una schiera di interpreti eccezionali; in primo luogo Motoki Masahiro (Daigo) e Hirosue Ryoko (Mika), ma anche Yamazaki Tsutomu (l'umanissimo boss dell'agenzia) e Yo Kimiko (la segretaria). Anche questi ultimi hanno una storia; poiché la narrazione in “Departures” si allarga e si squaderna aprendo sempre nuove visioni di scorcio, nuovi spiragli. Pure nella serie di preparazioni funebri che scorre nel film vediamo tutte le sfaccettature delle possibile reazioni (anche quelle della meschinità e della rabbia): e tutte queste descrizioni “orizzontali” implicano la dimensione verticale di una storia non detta, che tuttavia traspare sottilmente. Così ciò che in ultima analisi emerge ai nostri occhi sotto l'avventura di Daigo è la grandezza e il profumo della vita.

giovedì 8 aprile 2010

Daybreakers - L'ultimo vampiro

Michael & Peter Spierig

Dalla copertina di una rivista di moda occhieggia la foto di una top model vampira. Quest'immagine, che compare durante i titoli di testa, rende bene l'intrico di bizzarria e normalità su cui è costruito “Daybreakers – L'ultimo vampiro”, scritto e diretto dai fratelli Spierig.
Siamo nel 2019. Un'epidemia ha trasformato in vampiri il 95% della popolazione, e il mondo è diventato loro; il restante 5% umano si nasconde per non venire dissanguato. E' solo ovvio che il mondo vampiro stia affrontando una paurosa crisi alimentare, data la carenza di sangue umano; infatti quando i vampiri non riescono a nutrirsi (o si nutrono del sangue di altri vampiri o per disperazione del proprio) diventano assassini (in scene reminiscenti di George A. Romero) e si trasformano in mostri chiamati subsiders.
Mentre l'industria cerca di creare un sangue sintetico, i militari si occupano della faccenda a modo loro. Il massacro dei subsiders catturati – incatenati a un veicolo e trascinati fuori sotto il sole che li brucia – rappresenta la scena memorabile del film. Potrebbe benissimo appartenere a una versione cinematografica seria (idest, non la recente porcata con Will Smith) di “I Am Legend” di Richard Matheson - e non a caso, visto che quello è il testo che ha ispirato il presente film, sia pur rovesciandone il punto di vista.
Un racconto realistico (sia pure il realismo caricaturale di James Bond) possiede un suo universo “già dato”: il nostro. Invece una storia fantasy richiede un universo diegetico apposito, completo della sua storia - o, come ha detto qualcuno in modo più semplice, un “paesaggio-situazione”. Di fronte alla domanda “Come sarebbe un'America popolata di vampiri anziché di umani?”, i fratelli Spierig si sono sbizzarriti, con logica ammirevole. Fra un grattacielo e l'altro si stendono gallerie di passaggio per evitare la luce del sole. Per lo stesso motivo le automobili hanno dei pannelli automatici che di giorno si chiudono, e per guidare si usa un teleschermo. I classici chioschi della metropolitana, che nel nostro mondo vendono caffè e cappuccino in bicchieri di cartone, vendono le stesse bevande - ma corrette al sangue.
Il racconto s'incentra sul vampiro riluttante Edward, che non è felice di essere stato trasformato, e lavora alla ricerca del prodotto sintetico per l'industria del sangue (le cupe immagini di piramidi di esseri umani nudi legati e dissanguati lentamente ricordano il primo “Matrix”). Dopo un incontro con la resistenza umana clandestina, che gli fa conoscere un ex vampiro imprevedibilmente guarito e tornato umano, si convince che la soluzione non è il sangue sintetico ma la “devampirizzazione” dell'umanità. Il suo boss però non è d'accordo: si guadagnerebbe di meno...
Sebbene il film assuma tutto il folklore vampirico (v'è nella parte iniziale un'inquadratura inquietante quando in uno specchio si riflettono i vestiti del protagonista ma non il suo corpo), “Daybreakers” è molto più vicino al political thriller che all'horror. Il suo sforzo di “tradurre” l'America attuale nell'America vampiresca sottolinea più le analogie che le differenze. Edward è aiutato da un senatore nero progressista che fa pensare a un Obama vampiro; ai disordini nella metropolitana dà inizio il più tipico degli americani medi (solo che protesta perché nel suo caffè non c'è abbastanza sangue); i discorsi dei cittadini impauriti dai subsiders sono modellati su quelli autentici relativi ad altre minacce.
Il problema del film è appunto che il contesto, l'universo diegetico inventato, finisce per risultare più interessante della storia – che narra l'inizio della fine di questo universo. Non è colpa dei fratelli Spierig; ovviamente un film dev'essere una peripezia dinamica, non una descrizione statica. Ma forse “Daybreakers” sarebbe venuto meglio come miniserie televisiva: perché in più ore sarebbe stato possibile sviluppare ancor più il disegno di questa VampAmerica così gustosamente descritta che quasi ci dispiace che Edward trovi la cura.

(Il Nuovo FVG)