Tim Burton
Lo splendido “Dark Shadows” è come una sontuosa torta di compleanno che Tim Burton ha preparato per se stesso: farcita con tutte le sue tematiche e le sue ossessioni, guarnita con tutti i suoi stilemi figurativi - e (slurp!) tutta per lui. Certo, in America la serie televisiva degli anni '70 “Dark Shadows”, definita una soap opera horror, è tutt'altro che sconosciuta (non come in Italia, dove la serie originale non fu trasmessa, il suo tardo remake con Barbara Steele durò poco - come del resto negli States - e i due film uscirono come opere isolate). In America “Dark Shadows” è quasi un cult. Ciò nonostante, resta l'impressione che Tim Burton abbia costruito tutto il film non solo come omaggio a una passione adolescenziale (sua e del suo alter ego Johnny Depp) ma come monumento a se stesso. Non c'è niente in ciò di egoistico o sconveniente. Non diceva forse Orson Welles che Hollywood è il più bel trenino giocattolo che un bambino possa desiderare?
C'è un tocco di sublime manierismo in “Dark Shadows”. Tutto l'universo del regista si dà appuntamento per questo retelling della saga di Barnabas Collins, vampiro che nel 1972 viene liberato da una prigionia nella bara durata duecento anni, e si adopera (facendosi passare per un improbabile parente inglese) per rialzare le sorti della decaduta famiglia Collins - ma si ritrova in lotta contro la sua antica amante, la strega immortale Angelique (Eva Green). Non fa meraviglia che Barnabas Collins rientri al cento per cento nella famiglia dei mostri burtoniani: figure isolate, sognanti, timide, ma non innocue; sono feroci e vulnerabili insieme, come Sweeney Todd.
Barnabas si trova spiazzato fra due mondi: divenuto vampiro a causa della maledizione della strega, vive a mezza strada tra una condizione che odia, la cui sete di sangue gli fa compiere truculente stragi, e il piano dell'umanità, che gli detta la sua gentilezza innata e la sua timida incertezza nel corteggiamento della donna amata, Victoria. Ma Barnabas vive su un doppio piano anche sul livello temporale e culturale: un uomo del Settecento scaraventato nell'America degli anni '70. E' centrale nel cinema di Burton il concetto di trespassing: varco di un limite (fra l'alto e il basso, l'interno e l'esterno, la vita e la morte), rovesciamento e inversione delle dimensioni (vedi qui per esempio il fantasma della donna annegata che “affonda” graziosamente nel pavimento del salone, la cui decorazione richiama le onde marine).
“Dark Shadows” rovescia “Beetlejuice”: mentre là v'era un'alleanza fra la figlia ribelle e gli spettri contro la famiglia repressiva, qui troviamo l'alleanza della capofamiglia Elizabeth (Michelle Pfeiffer) col vampiro all'insaputa della figlia Carolyn; tuttavia anche costei, pur appena accennata, è la classica ribelle burtoniana. Come lo è la figura umbratile di Victoria; e le due sono accomunate da un'altra ossessione di Burton, il padre assente e/o malvagio. Peraltro anche la strega Angelique, villainess della storia, col suo amore respinto, disperato e incrudelito è una figura commovente. Molto spesso in Tim Burton il cattivo è un doppio del buono, partecipando della sua stessa qualità derelitta e fragile (pensiamo per fare un solo esempio a “Batman – Il ritorno”). E si materializza nel finale il mito burtoniano del giocattolo vivente, quando Angelique va in pezzi trasformandosi appunto in una bambola viva, un guscio vuoto di porcellana incrinato (con dentro un cuore - ma dura poco).
Johnny Depp nel ruolo del vampiro fa dimenticare il deludente Cappellaio Matto di “Alice in Wonderland”. Facendo riferimento, più che a Christopher Lee (il quale compare in un cameo), a Bela Lugosi e al Nosferatu di Murnau, Depp dà corpo a un'altra delle figure incantate e lunari di cui lui e Burton si dilettano insieme in un vero rapporto di simbiosi. C'è poi da rilevare un'innovazione. Mentre di solito i personaggi del regista sono casti, Barnabas è un personaggio sessuato: la scena in cui fa sesso con la strega (una sorta di rimpatriata di cui poi si pente), volando e distruggendo la stanza, oltre che in sé gustosa ha un sapore di novità.
“Dark Shadows” nasconde il suo melodramma sotto una coltre di risate. Perché è un film pervaso da un forte flusso di umorismo, ora gentile (il vampiro legge “Love Story” e lo cita solennemente come “meraviglioso romanzo”), ora tenebroso humour noir (l'episodio di Barnabas con gli hippies). Il linguaggio arcaico del vampiro (al servo: “Tu mi tergerai, malcreato”) è una delizia particolare. A tal proposito, proprio perché chi scrive è un avversario della pratica del doppiaggio, è in obbligo di segnalare che il doppiaggio del film è davvero eccellente, sia come testo sia come interpretazione. Del pari divertentissime sono le incomprensioni del vampiro settecentesco scaraventato nella realtà di due secoli dopo: “Mio dio – una donna dottore!” - ma la migliore di tutte è quando si meraviglia che la quindicenne Carolyn non abbia ancora marito. Per Tim Burton il concetto di spiazzamento è costitutivo.
Il cinema di Burton parte sempre da un'idea grafica, da una figura. Non solo le creature più o meno mostruose; anche gli spazi. Qui il grandioso palazzo di Collinswood, ricco e decadente, è una delle più belle dimore gotiche mai viste al cinema, ma l'immagine generatrice del film è la scogliera a picco sul mare, su cui “Dark Shadows” si apre e chiude, figura ultra-romantica dell'orrore e dell'attrazione del precipizio e della morte: e quindi un'altra delle porte fra i mondi alle quali il nostro sognatore americano ci ha guidato. Oserò dirlo? Ma sì: “Dark Shadows” è meglio – perché più dégagé e meno programmatico – di “Big Fish”.
mercoledì 23 maggio 2012
sabato 19 maggio 2012
American Pie: ancora insieme
John Hurwitz e Hayden Schlossberg
“Quant'è bella giovinezza / che si fugge tuttavia”. Rivedendosi per la riunione della classe del '99, nel gustoso “American Pie: ancora insieme” (scritto e diretto da John Hurwitz e Hayden Schlossberg sulla base dell'indimenticabile set di personaggi di Adam Herz), Jim, Michelle, Kevin, Oz, Finch e Stifler ripiombano, chi per scelta chi per errore chi per equivoco, nelle malefatte adolescenzial-sessuali del passato. Solo che non sono più adolescenti, e lo sanno.
Facciamo un po' di conti. Il primo “American Pie” è del 1999, il secondo del 2001, “American Pie – Il matrimonio” è del 2003. Vero, ora i protagonisti sono ultra-trentenni, il che per fortuna non vuol dire essere vecchi; e tuttavia sono invecchiati, in due sensi. Il primo è oggettivo, legato al passare del tempo e al mutare della condizione. Jim (Jason Biggs) e Michelle (Alyson Hannigan), apprendiamo dal film, hanno smesso di fare sesso dopo la nascita del loro bambino (brutta storia per due che ancora al loro matrimonio, nel terzo film, si autodefinivano una ninfomane e un perverso). Lavoro e famiglia, fallimenti e divorzi hanno segnato un cambiamento esistenziale per tutta la banda. Perfino Stifler (Seann William Scott), il pazzo pericoloso del gruppo, in un momento di sincerità ammette: “Sì, il liceo è stato fichissimo - poi però...”.
Il secondo motivo è legato al tipo di sessualità su cui tutta questa notevole serie è costruita. Una sessualità demenziale, legata alla voracità sessuale assatanata e pasticciona del periodo della high school - donde l'enfasi sui fluidi, corporei e non, sulla frustrazione e lo sputtanamento (Jim è ancora famoso su You Tube per il suo famigerato filmato), l'esagerazione, il trucco, l'imbroglio e il salvataggio in extremis. Una sessualità scomposta e gasata, segreta e ridicola.
Di questo iato fra il passato e il presente il film, nell'intelligente sceneggiatura di Hurwitz e Schlossberg, è pienamente consapevole, anzi, è costruito su di esso. Per questo in “American Pie: ancora insieme” serpeggia sotto il divertimento una vena di malinconia che sfiora la tristezza - e non è semplicemente quel che di malinconico che si ritrova nelle ultime puntate di ogni serie, perché sottoposta al passare del tempo. “Eravamo dei bambini”, dicono, ammirando le loro foto di allora alla riunione – e a Stifler: “Quando capirai che le cose non saranno mai più come un tempo?” Divertentissima in questo senso, profondamente rivelatrice, la loro osservazione alla festa delle Cascate che le ragazze di oggi sono più “zozzette” che ai loro tempi! Scambiano per mutamento dei tempi il loro mutamento soggettivo.
Si parva licet componere magnis, “American Pie: ancora insieme” si fonda su un preciso movimento dialettico. Dove il momento positivo iniziale è costituito dalla nostra memoria dell'intera serie con la sua enfasi sulla sessualità scatenata; il momento negativo è dato dal tentativo frustrato di ritornare a quei momenti da parte di chi non ne ha più l'età (ciò sia sul piano del reale, incarnato da Stifler, sia su quello dell'equivoco, incarnato da Jim); infine la negazione della negazione, che si costruisce lentamente per esplodere nella bella sequenza della festa, si risolve nell'accettazione di una nuova dimensione della sessualità, che possiamo assimilare alla condizione adulta. Va ricordato che un tema comico importante, sebbene laterale, della serie “American Pie” era la scoperta scandalizzata della sessualità dei genitori; ma adesso Jim e Michelle sono diventati genitori loro.
Naturalmente quel che importa sul piano cinematografico è che questo sviluppo sia delineato con intelligente piacevolezza. Molto consapevole, giova ripeterlo, il film si destreggia con veloce abilità fra le tradizionali gag adolescenziali della serie e il cambiamento esistenziale (non sempre accettato) dei personaggi. Nella notevole sequenza finale - la festa della riunione - diventa addirittura commovente; e certamente quel vivo senso del tempo che passa gli dà una dimensione a suo modo elegiaca.
“Quant'è bella giovinezza / che si fugge tuttavia”. Rivedendosi per la riunione della classe del '99, nel gustoso “American Pie: ancora insieme” (scritto e diretto da John Hurwitz e Hayden Schlossberg sulla base dell'indimenticabile set di personaggi di Adam Herz), Jim, Michelle, Kevin, Oz, Finch e Stifler ripiombano, chi per scelta chi per errore chi per equivoco, nelle malefatte adolescenzial-sessuali del passato. Solo che non sono più adolescenti, e lo sanno.
Facciamo un po' di conti. Il primo “American Pie” è del 1999, il secondo del 2001, “American Pie – Il matrimonio” è del 2003. Vero, ora i protagonisti sono ultra-trentenni, il che per fortuna non vuol dire essere vecchi; e tuttavia sono invecchiati, in due sensi. Il primo è oggettivo, legato al passare del tempo e al mutare della condizione. Jim (Jason Biggs) e Michelle (Alyson Hannigan), apprendiamo dal film, hanno smesso di fare sesso dopo la nascita del loro bambino (brutta storia per due che ancora al loro matrimonio, nel terzo film, si autodefinivano una ninfomane e un perverso). Lavoro e famiglia, fallimenti e divorzi hanno segnato un cambiamento esistenziale per tutta la banda. Perfino Stifler (Seann William Scott), il pazzo pericoloso del gruppo, in un momento di sincerità ammette: “Sì, il liceo è stato fichissimo - poi però...”.
Il secondo motivo è legato al tipo di sessualità su cui tutta questa notevole serie è costruita. Una sessualità demenziale, legata alla voracità sessuale assatanata e pasticciona del periodo della high school - donde l'enfasi sui fluidi, corporei e non, sulla frustrazione e lo sputtanamento (Jim è ancora famoso su You Tube per il suo famigerato filmato), l'esagerazione, il trucco, l'imbroglio e il salvataggio in extremis. Una sessualità scomposta e gasata, segreta e ridicola.
Di questo iato fra il passato e il presente il film, nell'intelligente sceneggiatura di Hurwitz e Schlossberg, è pienamente consapevole, anzi, è costruito su di esso. Per questo in “American Pie: ancora insieme” serpeggia sotto il divertimento una vena di malinconia che sfiora la tristezza - e non è semplicemente quel che di malinconico che si ritrova nelle ultime puntate di ogni serie, perché sottoposta al passare del tempo. “Eravamo dei bambini”, dicono, ammirando le loro foto di allora alla riunione – e a Stifler: “Quando capirai che le cose non saranno mai più come un tempo?” Divertentissima in questo senso, profondamente rivelatrice, la loro osservazione alla festa delle Cascate che le ragazze di oggi sono più “zozzette” che ai loro tempi! Scambiano per mutamento dei tempi il loro mutamento soggettivo.
Si parva licet componere magnis, “American Pie: ancora insieme” si fonda su un preciso movimento dialettico. Dove il momento positivo iniziale è costituito dalla nostra memoria dell'intera serie con la sua enfasi sulla sessualità scatenata; il momento negativo è dato dal tentativo frustrato di ritornare a quei momenti da parte di chi non ne ha più l'età (ciò sia sul piano del reale, incarnato da Stifler, sia su quello dell'equivoco, incarnato da Jim); infine la negazione della negazione, che si costruisce lentamente per esplodere nella bella sequenza della festa, si risolve nell'accettazione di una nuova dimensione della sessualità, che possiamo assimilare alla condizione adulta. Va ricordato che un tema comico importante, sebbene laterale, della serie “American Pie” era la scoperta scandalizzata della sessualità dei genitori; ma adesso Jim e Michelle sono diventati genitori loro.
Naturalmente quel che importa sul piano cinematografico è che questo sviluppo sia delineato con intelligente piacevolezza. Molto consapevole, giova ripeterlo, il film si destreggia con veloce abilità fra le tradizionali gag adolescenziali della serie e il cambiamento esistenziale (non sempre accettato) dei personaggi. Nella notevole sequenza finale - la festa della riunione - diventa addirittura commovente; e certamente quel vivo senso del tempo che passa gli dà una dimensione a suo modo elegiaca.
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domenica 13 maggio 2012
Far East Film Festival 2012
Finita l'impegnativa e appassionante maratona, ecco qualche nota sul Far East Film Festival 2012 di Udine – che è sempre un magnifico appuntamento e un momento fondamentale della vita culturale e cinematografica italiana. Bisogna dire che l'annata 2011/12 in Asia (si direbbe per quanto si può capire dall'attività per le selezioni, sfociata nel Festival stesso) è stata meno ricca del solito per il cinema di genere; questo spiega la mancanza al festival del tradizionale appuntamento coi film horror; è stata ricca, semmai, in quella categoria che non è proprio arthouse duro e puro ma si potrebbe definire “d'essai di massa”.
Ma andiamo a vedere più da vicino i film del festival (con l'ovvia precisazione che non sono riuscito ancora a vederli tutti). Se i premi del pubblico hanno incoronato la Corea (primo premio a “Silenced” di Hwang Dong-hyeuk, terzo a “The Front Line” di Jang Hun, con in mezzo il cinese continentale “One Mile Above” di Du Jiayi), a mio parere il Giappone si è confermato come la cinematografica asiatica leader sul piano dei risultati artistici.
Il film che più ha divertito il pubblico - e si parla di una distribuzione italiana - è “Thermae Romae” di Takeuchi Hideki (il manga da cui è tratto esce anche nel nostro paese). Intelligente e molto buffo il suo svolgimento stile “Un americano alla corte di re Artù”, con un architetto dell'antica Roma che involontariamente viaggia a più riprese nel tempo e dalle terme romane si ritrova nei bagni pubblici giapponesi senza capirne niente, traendo dagli oggetti che vede conclusioni folli: questo effetto di straniamento degli oggetti di vita quotidiana rare volte è stato realizzato così bene. Tornando indietro, lui adatta le sue scoperte alla vita romana, e qui il film ha una ricchezza e una carica di fantasia memorabili. In seguito lo sviluppo si amplia fino a coinvolgere i destini dell'Impero. I dettagli storici, sebbene deformati, non sono campati in aria (penso all'autenticità della storia di Adriano e Antinoo). C'è persino l'uso del latino autentico (non correttissimo) in alcune parti di dialogo e nelle didascalie di tempo. Deliziosa la score composta di arie d'opera italiane, fra l'altro scelte molto bene, e accompagnate dalla gag ricorrente del cantante (che sulla Marcia Trionfale dell'Aida si riposa seduto di spalle, perché tanto non c'è ruolo solista...)
Il capolavoro del festival però è “River” del grande Hiroki Ryuichi, già noto al pubblico di Udine per “Your Friend”: splendido film drammatico, contemplativo e quasi metafisico, che incrocia la tragedia di Akihabara a Tokyo (dove un pazzo fece una strage) con quella di Fukushima. Aperto da un meraviglioso lunghissimo piano sequenza (molti passanti guardano in macchina: sono riprese “rubate”, come nella Nouvelle Vague), è un'elegia del dolore, dove ritornano con altezza poetica i temi del ricordo che non vuole passare e dell'umanità nella catastrofe.
Accanto a “River”, e al commovente corto di tre minuti “The Future for the Children of Fukushima”, Hiroki presentava altresì il gangster drama “The Egoists”: un film giovanil-poliziesco e un melodramma estremo: la coppia di giovani amanti del film, quando esso si conclude sul registro eroico/mélo, mi ricorda addirittura i film noir di Anthony Mann. Ma il film è anche debitore agli eroi neri di un cinema giapponese che il Far East Film ha già esplorato (Shintoho, Nikkatsu). Hiroki Ryuichi è, ripetiamo, un regista contemplativo. Anche qui, l'azione si distende in momenti di sguardo lento, come meditabondo, sull'immediato. Da segnalare la bellezza assoluta di certe ellissi che chiudono le scene: raramente se ne sono viste di così belle (e nota anche il modo in cui entra alla fine il nero dei titoli, brusco e definitivo, in contrasto stridente con la dimensione trascinata e masochista che è tipica del mélo). Se c'è un elemento di consapevolezza forse eccessiva nell'uso dell'opera lirica (il riferimento esplicito è alla Signora delle camelie e alla Traviata), comunque questo rientra nella logica dell'eccesso che è consentito al melodramma.
Un altro film di singolare bellezza è “Rent-a-Cat” (significa “Gattonoleggio”), scritto e diretto da Ogigami Naoko, che deve molto alla grazia naturale dei gatti ma che, saggiamente, li inserisce nel racconto anziché usarli come attrazioni – l'esatto contrario di quello che avrebbero fatto gli americani. Alla sua base (è la storia di una ragazza solitaria che noleggia i suoi gatti come terapia per le persone tristi) sta il concetto di hole to fill, ritornante con vari astuti adattamenti dal concreto (p.es. il formicaio, il buco delle ciambelle, il buco nei calzini) all'astratto della metafora base (il buco nel cuore). Zeppo di invenzioni gustose... cito solo la vecchia matta, interpretata da un uomo... è dolce e intelligente, lento e quieto. Quel che è più rilevante sul piano del linguaggio è la sua struttura circolare con continui ritorni di episodi e battute di dialogo, che gli dà un'intelaiatura forte e ricca di fascino.
“Sukiyaki” di Maeda Tetsu è il miglior film giapponese sul cibo che io abbia visto dopo l’indimenticabile “Tampopo” di ltami Juzo. Il film, largamente giocato sui flashback, usa i discorsi sul cibo di cinque carcerati affamati come chiave per un’autentica analisi psicologica, e quasi una psicoterapia. E' notevolissimo l'equilibrio fra astrazione e messa in scena realistica, tramite il quale il film riesce a conciliare perfettamente l’ambiente chiuso della cella con quello dei flashback nella sua bella costruzione a tasselli.
Possiamo aggiungere a questa splendida costellazione “The Woodsman and the Rain” di Okita Shuichi (vedi scheda sotto) e la deliziosa commedia “Mitsuko Delivers” di Ishii Yuya, davvero un Kaurismäki in salsa nipponica.
Questi “magnifici sette” rappresentano proprio un ricco bottino per il Far East Film. Assai minori, ma non spiacevoli, “Love Strikes!” di One Hitoshi e “Afro Tanaka” di Matsui Daigo, due commedie su quella figura archetipica della cultura giapponese che è il vergine compulsivo: un nerd (antipaticissimo) nel primo caso e un pazzo dalla capigliatura afro nel secondo. Circa quest'ultimo, l'aspetto migliore è la bella interpretazione comica del protagonista Matsuda Shota che pare una specie di Sacha Baron Cohen giovane: realizza una figura grottesca, a partire dal visuale, e fa girare tutto il film intorno a sé. La cosa più divertente è la sua incongrua recitazione stile film di samurai per mimica ed espressione vocale.
Salgono le quotazioni di Hong Kong. Al centro del festival, accanto all'imprescindibile Johnnie To, stava la figura di Pang Ho-cheung. “Love in the Buff” riprende i personaggi del notevole “Love in a Puff” (2010) trasportandoli con abilità e competenza a Pechino. Siamo sempre nel campo della commedia sentimentale che è il trend di base del cinema cinese continentale, condito di orgoglio nazionale del tipo “guardate-come-siamo-diventati-ricchi”. Ma val la pena notare che questo tipo di “commedia danarosa” funziona specialmente quando a dirigerla sono registi hongkonghesi in trasferta (Pang, Johnnie To, Tsui Hark, Barbara Wong), mentre i registi cinesi anche importanti deludono (Chen Daming, Teng Huatao; meglio Eva Jin; mentre Feng Xiaogang alterna riuscite a fallimenti com'è suo solito).
Ancora migliore un piccolo film a basso budget che sempre Pang Ho-cheung presentava quest'anno, lo strepitoso “Vulgaria”. Comico omaggio al cinema hongkonghese di serie Z, attraverso il suo personaggio di produttore poverty row interpretato da Chapman To, ha una freschezza d'invenzione e una sfacciataggine da far vergognare tutto il baraccone del cinema italiano. Fosse solo per questo, bisognerebbe distribuirlo!
“Romancing in Thin Air”, la nuova opera del maestro Johnnie To, è uno dei film simbolisti di To, come “Running on Karma”; uno strano film, certo uno dei suoi minori, ma affascinante: parte francamente piuttosto male, ma poi si eleva ad altezze impreviste, a una bizzarra grandezza, con la sua forte carica metafisica concretizzata nell'immagine della foresta che rappresenta la morte e la perdita. Una perla barocca.
“The Bounty” di Fung Chih Chiang è quintessenzialmente hongkonghese nel suo trascorrere da un inizio slapstick a uno sviluppo che, pur restando nel registro della commedia (grande il cameo finale di Michael Hui!), amplia coraggiosamente il suo range di emozioni.
Non mancava il film erotico, con “The 33D Invader” di Cash Chin, pornoparodia fantascientifica indubbiamente piacevole alla visione – non solo per l'aspetto erotico, supportato dalla nudità di splendide attrici giapponesi o taiwanesi (le hongkonghesi non si spogliano volentieri per lo schermo). Di Cash Chin era più bello “The Forbidden Legend – Sex & Chopsticks” (il primo dei due) - ma avercene di questi film, che riportano in auge i fasti appannati della “Categoria III”! Specialmente quanto si pensa a un film opposto non solo per castità ma per valori produttivi (è ricchissimo): il vero turkey (bidone) venuto da HK a fine festival: “The Viral Factor” dell'imbolsito Dante Lam. Sfiora la perversione, spendere un transatlantico di dollari per realizzare un film d'azione così noioso.
La Corea ha aperto alla grande il festival con “Sunny” di Kang Hyun-chul, bellissima commedia sentimentale nostalgica su sette donne, giocata fra presente e passato: scorre su un doppio registro temporale, l'oggi delle donne cresciute e i tempi del liceo per le stesse da adolescenti, avvalendosi quindi di una doppia schiera di bravissime attrici, scivolando dal presente ai flashback con superba fluidità.
Non ho ancora visto il premiato “Silenced” di Hwang Dong-hyeuk. Fra gli altri film, il bellico “The Front Line” di Jang Hun è molto buono, sebbene a volte la sceneggiatura miri all'effettistico; mette in scena un episodio alla fine della guerra di Corea in un reparto di soldati psicologicamente distrutti.
Buono il thriller “Blind” di Ahn Sang-hoon. su una ex poliziotta cieca in lotta contro un serial killer: nel climax, lei fa saltare l'impianto luci in modo che possano lottare “ad armi pari”. Il film rende assai bene l'aspetto materiale, fisico, vorrei dire “quotidiano” della condizione della ragazza, la continua lotta della cecità contro le cose; ma soprattutto (l'aspetto più importante) si pone il problema di rendere la cecità “dall'interno”, nelle scene di lotta, inventandosi notevoli scambi fra il sonoro e il visuale. Non sono cose rivoluzionarie, ma certamente è un bel passo avanti rispetto alla semplice soluzione di mettere in scena un attore/attrice che mima il fatto di non vedere.
“Unbowed” di Chung Ji-young è un courtroom drama non privo di difetti, ma che nella seconda parte riesce ad avvincere lo spettatore. Soffre dei problemi di una sceneggiatura alquanto mediocre (di Han Hyun-keun e del regista Chung Ji-young). Non solo l'episodio iniziale, su cui si costruisce tutto il dibattito, è narrato confusamente, ma il film non riesce a film costruire un'empatia sui personaggi, e spesso li risolve nella banalità, come la figura dell'avvocato alcoolizzato (ombra di Paul Newman!).
“Punch” di Lee Hin, popolato di figure divertenti, ha molte idee carine (in particolare le preghiere del protagonista a Dio per far morire il prossimo), però bisogna dire che non decolla mai. Invece “Dangerously Excited” di Koo Ja-hong è una graziosa commedia, centrata su un protagonista ben delineato, che esplora il rapporto fra la sicurezza dell'abitudine e l'insicurezza dell'arte – qui la musica rock. Discreta anche la commedia di Park Hun-soo “My Secret Partner”, fanaticamente basata su una serie di rispecchiamenti e geometrie (ma attenzione, siamo comunque lontani da certi capolavori di Johnnie To e Wai Ka-fai) e impreziosita da una serie di scene erotiche finalmente audaci.
Trascurabili invece il laborioso thriller “Moby Dick” di Park In-jae e la modesta commedia sentimentale “Penny Pinchers” di Kim Jeong-hwan. Non si può non menzionare però, parlando della Corea, la meravigliosa rassegna sul cinema coreano degli anni '70 messa insieme dall'esperto Darcy Paquet con una serie di capolavori - cito solo lo sconvolgente “Flame” di Yu Hyun-mok, bello quasi come un Mizoguchi e violento come un Kurosawa.
Poi c'è la Cina continentale (ma non ho ancora visto “One Mile Above”). “The Song of Silence” di Chen Zhuo, un film tutto giocato sulla lentezza e l'immediatezza, mette in scena due storie di donne contrapposte, una sordomuta e una cantante. Sicuramente mostra che l'autore ha molto talento. Ha altresì un difetto proprio delle opere prime: un certo eccesso di consapevolezza - appare a volte insistito, conscio di se stesso, indirizzato troppo visibilmente allo scopo. Vedi per esempio la danza dell'amante/zio sulle note di “Parigi o cara”, tanto più quando viene replicato in stile “falso visibile” felliniano nella sequenza del sogno. Ma non dimentichiamo gli aspetti positivi. La definizione delle due donne (ben interpretate) è umana e sensibile. Il regime del suono, così diverso fra le due storie, è eccellente (nella parte sulla sordomuta i rumori sembrano precipitare e ripercuotersi nel silenzio). La fotografia ha anche soluzioni assai belle: ottimo l'impiego di un campo molto lungo in senso drammatico (la fuga di Jing inseguita dal padre, il finale). Il montaggio fra le due vite alternate è veloce e secco, ma elegante: utile a un film dalla narrazione aerea, allusiva, ellittica. Un film fatto tutto di brevi movimenti che creano un collage di sensazioni.
“The Cockfighters” dell'esordiente Jin Rui è pieno di difetti, ma ha l'interesse di presentare una descrizione agghiacciante della Cina rurale come un inferno dove la brutalità e la prepotenza dei pezzi grossi che dominano protetti dal Partito fanno pensare più al Sud America degli anni peggiori che al paese della retorica rivoluzionaria ufficiale.
“My Own Swordsman” di Shang Jing invece è molto divertente, e sembra un Mel Brooks cinese ambientato nel periodo Ming, con un'iniezione di satira sulla speculazione immobilare.
Se Taiwan delude (il verboso “You Are the Apple of My Eye” di Giddens), magnifiche sorprese arrivano da cinematografie più laterali. Indonesia: Aria Kusumadewa, che l'altr'anno ci aveva conquistati con”Identitas”, ha realizzato una bella commedia acida con “Kentut”. Concetto base: una candidata politica alla vigilia del ballottaggio viene ferita in un attentato, viene ricoverata in ospedale e sarà esclusa dalle elezioni se non riuscirà a scorreggiare, segno che si è perfettamente ristabilita. In attesa di questo fausto evento l'ospedale si riempe di religiosi che pregano e di bancarelle – sembra “The Big Carnival” di Billy Wilder. Kusumadewa se la prende con le campagne politiche, la religione, i rapporti uomo-donna, con tutta la società indonesiana, con uno sguardo che sembra quello di un marziano divertito e perplesso (ma non privo, mi pare, di una certa distaccata simpatia per questi terrestri pazzi). Nota in margine: gli italiani, che conoscono bene il Cetto Laqualunque di Antonio Albanese, riconosceranno qualcosa nella campagna elettorale del film.
Dalla Malaysia arriva “Songlap” di Effendee Mazlam e Fariza Azlina Isahak, una sorta di gangster drama molto bello, fortemente umano e allo stesso tempo estremamente netto, senza ombra di sbavature, senza mai sprechi di tempo, con una notevolissima capacità di racconto (l'uso delle ellissi e del non detto - come l'identità del padre del neonato - è eccezionale). Il dialogo è davvero ben scritto (un sito Internet che ho visto citava Scorsese: è esagerato, ma nella direzione giusta) e ben interpretato. Il film ha delle inquadrature eleganti senza essere leccate; che perfino un car chasing nelle strade di Kuala Lumpur sia fotografato con intelligente originalità è il massimo!
La Thailandia era rappresentata quest'anno da un solo film, ma di valore. “It Gets Better”, del/la regista trans Tanwarin Sukkhapisit, incrocia tre storie sulla transessualità con buona capacità narrativa, fantasia ed eleganza. Se l'apertura è puro Almodovar, il film si sviluppa in seguito su vari registri, ben servito da un montaggio di notevole fluidità.
Ho lasciato per ultime le Filippine perché da questo paese vengono due film fra i più interessanti del Festival. “Six Degrees of Separation from Lilia Cuntapay” di Antoinette Jadaone è un eccellente mockumentary che porta sullo schermo nella parte di se stessa (con un bel gioco di specchi e scarti fra la realtà e la figura filmica) Lilia Cuntapay, microcaratterista di film horror. La figura della settantaseienne Cuntapay, presente al festival e commossa fino alle lacrime per gli applausi dopo il film, resterà per sempre nei nostri cuori.
“The Woman in the Septic Tank” di Marlon Rivera (scritto da Chris Martinez) è un piccolo capolavoro di acuto umorismo metacinematografico. E' una riflessione (in toni di commedia) sui vari modi possibili di girare un film drammatico sulla miseria assoluta degli slum di Manila, dove una donna povera vende suo figlio a un pedofilo. Si articola su due linee: è una satira perfino crudele del cinema indie sulla miseria (e ciò nonostante getta anche uno sguardo lucido su di essa); è una dimostrazione semiseria, che davvero andrebbe studiata nelle scuole di cinema, su come la diversità di approccio implichi una diversità di linguaggio.
Sì, perché il divertente non è tanto che vediamo la stessa storia realizzata a ripetizione come dramma realistico, come musical, come filmone star-oriented: è che ognuno di questi modi implica una diversità linguistica (per esempio, nel terzo caso, un'illuminazione più forte, perché si veda bene la star, e un uso più marcato del primo piano). La protagonista, la grandissima attrice comica Eugene Domingo, è sublime più che mai, sia come interprete in più di una versione, sia come interprete di se stessa in forma autoparodistica: la superdiva in una villa lussuosissima che dà ai cineasti (e al pubblico) una meravigliosa lezione, anch'essa semiseria naturalmente, sui vari stili di recitazione.
Considerando che questo è stato il vero film di chiusura del festival (benché seguisse l'insipido “The Viral Factor”), ripensare a questo gioiellino contribuisce a fissare nel nostro spirito un caldo ricordo del quattordicesimo Far East Film.
Ma andiamo a vedere più da vicino i film del festival (con l'ovvia precisazione che non sono riuscito ancora a vederli tutti). Se i premi del pubblico hanno incoronato la Corea (primo premio a “Silenced” di Hwang Dong-hyeuk, terzo a “The Front Line” di Jang Hun, con in mezzo il cinese continentale “One Mile Above” di Du Jiayi), a mio parere il Giappone si è confermato come la cinematografica asiatica leader sul piano dei risultati artistici.
Il film che più ha divertito il pubblico - e si parla di una distribuzione italiana - è “Thermae Romae” di Takeuchi Hideki (il manga da cui è tratto esce anche nel nostro paese). Intelligente e molto buffo il suo svolgimento stile “Un americano alla corte di re Artù”, con un architetto dell'antica Roma che involontariamente viaggia a più riprese nel tempo e dalle terme romane si ritrova nei bagni pubblici giapponesi senza capirne niente, traendo dagli oggetti che vede conclusioni folli: questo effetto di straniamento degli oggetti di vita quotidiana rare volte è stato realizzato così bene. Tornando indietro, lui adatta le sue scoperte alla vita romana, e qui il film ha una ricchezza e una carica di fantasia memorabili. In seguito lo sviluppo si amplia fino a coinvolgere i destini dell'Impero. I dettagli storici, sebbene deformati, non sono campati in aria (penso all'autenticità della storia di Adriano e Antinoo). C'è persino l'uso del latino autentico (non correttissimo) in alcune parti di dialogo e nelle didascalie di tempo. Deliziosa la score composta di arie d'opera italiane, fra l'altro scelte molto bene, e accompagnate dalla gag ricorrente del cantante (che sulla Marcia Trionfale dell'Aida si riposa seduto di spalle, perché tanto non c'è ruolo solista...)
Il capolavoro del festival però è “River” del grande Hiroki Ryuichi, già noto al pubblico di Udine per “Your Friend”: splendido film drammatico, contemplativo e quasi metafisico, che incrocia la tragedia di Akihabara a Tokyo (dove un pazzo fece una strage) con quella di Fukushima. Aperto da un meraviglioso lunghissimo piano sequenza (molti passanti guardano in macchina: sono riprese “rubate”, come nella Nouvelle Vague), è un'elegia del dolore, dove ritornano con altezza poetica i temi del ricordo che non vuole passare e dell'umanità nella catastrofe.
Accanto a “River”, e al commovente corto di tre minuti “The Future for the Children of Fukushima”, Hiroki presentava altresì il gangster drama “The Egoists”: un film giovanil-poliziesco e un melodramma estremo: la coppia di giovani amanti del film, quando esso si conclude sul registro eroico/mélo, mi ricorda addirittura i film noir di Anthony Mann. Ma il film è anche debitore agli eroi neri di un cinema giapponese che il Far East Film ha già esplorato (Shintoho, Nikkatsu). Hiroki Ryuichi è, ripetiamo, un regista contemplativo. Anche qui, l'azione si distende in momenti di sguardo lento, come meditabondo, sull'immediato. Da segnalare la bellezza assoluta di certe ellissi che chiudono le scene: raramente se ne sono viste di così belle (e nota anche il modo in cui entra alla fine il nero dei titoli, brusco e definitivo, in contrasto stridente con la dimensione trascinata e masochista che è tipica del mélo). Se c'è un elemento di consapevolezza forse eccessiva nell'uso dell'opera lirica (il riferimento esplicito è alla Signora delle camelie e alla Traviata), comunque questo rientra nella logica dell'eccesso che è consentito al melodramma.
Un altro film di singolare bellezza è “Rent-a-Cat” (significa “Gattonoleggio”), scritto e diretto da Ogigami Naoko, che deve molto alla grazia naturale dei gatti ma che, saggiamente, li inserisce nel racconto anziché usarli come attrazioni – l'esatto contrario di quello che avrebbero fatto gli americani. Alla sua base (è la storia di una ragazza solitaria che noleggia i suoi gatti come terapia per le persone tristi) sta il concetto di hole to fill, ritornante con vari astuti adattamenti dal concreto (p.es. il formicaio, il buco delle ciambelle, il buco nei calzini) all'astratto della metafora base (il buco nel cuore). Zeppo di invenzioni gustose... cito solo la vecchia matta, interpretata da un uomo... è dolce e intelligente, lento e quieto. Quel che è più rilevante sul piano del linguaggio è la sua struttura circolare con continui ritorni di episodi e battute di dialogo, che gli dà un'intelaiatura forte e ricca di fascino.
“Sukiyaki” di Maeda Tetsu è il miglior film giapponese sul cibo che io abbia visto dopo l’indimenticabile “Tampopo” di ltami Juzo. Il film, largamente giocato sui flashback, usa i discorsi sul cibo di cinque carcerati affamati come chiave per un’autentica analisi psicologica, e quasi una psicoterapia. E' notevolissimo l'equilibrio fra astrazione e messa in scena realistica, tramite il quale il film riesce a conciliare perfettamente l’ambiente chiuso della cella con quello dei flashback nella sua bella costruzione a tasselli.
Possiamo aggiungere a questa splendida costellazione “The Woodsman and the Rain” di Okita Shuichi (vedi scheda sotto) e la deliziosa commedia “Mitsuko Delivers” di Ishii Yuya, davvero un Kaurismäki in salsa nipponica.
Questi “magnifici sette” rappresentano proprio un ricco bottino per il Far East Film. Assai minori, ma non spiacevoli, “Love Strikes!” di One Hitoshi e “Afro Tanaka” di Matsui Daigo, due commedie su quella figura archetipica della cultura giapponese che è il vergine compulsivo: un nerd (antipaticissimo) nel primo caso e un pazzo dalla capigliatura afro nel secondo. Circa quest'ultimo, l'aspetto migliore è la bella interpretazione comica del protagonista Matsuda Shota che pare una specie di Sacha Baron Cohen giovane: realizza una figura grottesca, a partire dal visuale, e fa girare tutto il film intorno a sé. La cosa più divertente è la sua incongrua recitazione stile film di samurai per mimica ed espressione vocale.
Salgono le quotazioni di Hong Kong. Al centro del festival, accanto all'imprescindibile Johnnie To, stava la figura di Pang Ho-cheung. “Love in the Buff” riprende i personaggi del notevole “Love in a Puff” (2010) trasportandoli con abilità e competenza a Pechino. Siamo sempre nel campo della commedia sentimentale che è il trend di base del cinema cinese continentale, condito di orgoglio nazionale del tipo “guardate-come-siamo-diventati-ricchi”. Ma val la pena notare che questo tipo di “commedia danarosa” funziona specialmente quando a dirigerla sono registi hongkonghesi in trasferta (Pang, Johnnie To, Tsui Hark, Barbara Wong), mentre i registi cinesi anche importanti deludono (Chen Daming, Teng Huatao; meglio Eva Jin; mentre Feng Xiaogang alterna riuscite a fallimenti com'è suo solito).
Ancora migliore un piccolo film a basso budget che sempre Pang Ho-cheung presentava quest'anno, lo strepitoso “Vulgaria”. Comico omaggio al cinema hongkonghese di serie Z, attraverso il suo personaggio di produttore poverty row interpretato da Chapman To, ha una freschezza d'invenzione e una sfacciataggine da far vergognare tutto il baraccone del cinema italiano. Fosse solo per questo, bisognerebbe distribuirlo!
“Romancing in Thin Air”, la nuova opera del maestro Johnnie To, è uno dei film simbolisti di To, come “Running on Karma”; uno strano film, certo uno dei suoi minori, ma affascinante: parte francamente piuttosto male, ma poi si eleva ad altezze impreviste, a una bizzarra grandezza, con la sua forte carica metafisica concretizzata nell'immagine della foresta che rappresenta la morte e la perdita. Una perla barocca.
“The Bounty” di Fung Chih Chiang è quintessenzialmente hongkonghese nel suo trascorrere da un inizio slapstick a uno sviluppo che, pur restando nel registro della commedia (grande il cameo finale di Michael Hui!), amplia coraggiosamente il suo range di emozioni.
Non mancava il film erotico, con “The 33D Invader” di Cash Chin, pornoparodia fantascientifica indubbiamente piacevole alla visione – non solo per l'aspetto erotico, supportato dalla nudità di splendide attrici giapponesi o taiwanesi (le hongkonghesi non si spogliano volentieri per lo schermo). Di Cash Chin era più bello “The Forbidden Legend – Sex & Chopsticks” (il primo dei due) - ma avercene di questi film, che riportano in auge i fasti appannati della “Categoria III”! Specialmente quanto si pensa a un film opposto non solo per castità ma per valori produttivi (è ricchissimo): il vero turkey (bidone) venuto da HK a fine festival: “The Viral Factor” dell'imbolsito Dante Lam. Sfiora la perversione, spendere un transatlantico di dollari per realizzare un film d'azione così noioso.
La Corea ha aperto alla grande il festival con “Sunny” di Kang Hyun-chul, bellissima commedia sentimentale nostalgica su sette donne, giocata fra presente e passato: scorre su un doppio registro temporale, l'oggi delle donne cresciute e i tempi del liceo per le stesse da adolescenti, avvalendosi quindi di una doppia schiera di bravissime attrici, scivolando dal presente ai flashback con superba fluidità.
Non ho ancora visto il premiato “Silenced” di Hwang Dong-hyeuk. Fra gli altri film, il bellico “The Front Line” di Jang Hun è molto buono, sebbene a volte la sceneggiatura miri all'effettistico; mette in scena un episodio alla fine della guerra di Corea in un reparto di soldati psicologicamente distrutti.
Buono il thriller “Blind” di Ahn Sang-hoon. su una ex poliziotta cieca in lotta contro un serial killer: nel climax, lei fa saltare l'impianto luci in modo che possano lottare “ad armi pari”. Il film rende assai bene l'aspetto materiale, fisico, vorrei dire “quotidiano” della condizione della ragazza, la continua lotta della cecità contro le cose; ma soprattutto (l'aspetto più importante) si pone il problema di rendere la cecità “dall'interno”, nelle scene di lotta, inventandosi notevoli scambi fra il sonoro e il visuale. Non sono cose rivoluzionarie, ma certamente è un bel passo avanti rispetto alla semplice soluzione di mettere in scena un attore/attrice che mima il fatto di non vedere.
“Unbowed” di Chung Ji-young è un courtroom drama non privo di difetti, ma che nella seconda parte riesce ad avvincere lo spettatore. Soffre dei problemi di una sceneggiatura alquanto mediocre (di Han Hyun-keun e del regista Chung Ji-young). Non solo l'episodio iniziale, su cui si costruisce tutto il dibattito, è narrato confusamente, ma il film non riesce a film costruire un'empatia sui personaggi, e spesso li risolve nella banalità, come la figura dell'avvocato alcoolizzato (ombra di Paul Newman!).
“Punch” di Lee Hin, popolato di figure divertenti, ha molte idee carine (in particolare le preghiere del protagonista a Dio per far morire il prossimo), però bisogna dire che non decolla mai. Invece “Dangerously Excited” di Koo Ja-hong è una graziosa commedia, centrata su un protagonista ben delineato, che esplora il rapporto fra la sicurezza dell'abitudine e l'insicurezza dell'arte – qui la musica rock. Discreta anche la commedia di Park Hun-soo “My Secret Partner”, fanaticamente basata su una serie di rispecchiamenti e geometrie (ma attenzione, siamo comunque lontani da certi capolavori di Johnnie To e Wai Ka-fai) e impreziosita da una serie di scene erotiche finalmente audaci.
Trascurabili invece il laborioso thriller “Moby Dick” di Park In-jae e la modesta commedia sentimentale “Penny Pinchers” di Kim Jeong-hwan. Non si può non menzionare però, parlando della Corea, la meravigliosa rassegna sul cinema coreano degli anni '70 messa insieme dall'esperto Darcy Paquet con una serie di capolavori - cito solo lo sconvolgente “Flame” di Yu Hyun-mok, bello quasi come un Mizoguchi e violento come un Kurosawa.
Poi c'è la Cina continentale (ma non ho ancora visto “One Mile Above”). “The Song of Silence” di Chen Zhuo, un film tutto giocato sulla lentezza e l'immediatezza, mette in scena due storie di donne contrapposte, una sordomuta e una cantante. Sicuramente mostra che l'autore ha molto talento. Ha altresì un difetto proprio delle opere prime: un certo eccesso di consapevolezza - appare a volte insistito, conscio di se stesso, indirizzato troppo visibilmente allo scopo. Vedi per esempio la danza dell'amante/zio sulle note di “Parigi o cara”, tanto più quando viene replicato in stile “falso visibile” felliniano nella sequenza del sogno. Ma non dimentichiamo gli aspetti positivi. La definizione delle due donne (ben interpretate) è umana e sensibile. Il regime del suono, così diverso fra le due storie, è eccellente (nella parte sulla sordomuta i rumori sembrano precipitare e ripercuotersi nel silenzio). La fotografia ha anche soluzioni assai belle: ottimo l'impiego di un campo molto lungo in senso drammatico (la fuga di Jing inseguita dal padre, il finale). Il montaggio fra le due vite alternate è veloce e secco, ma elegante: utile a un film dalla narrazione aerea, allusiva, ellittica. Un film fatto tutto di brevi movimenti che creano un collage di sensazioni.
“The Cockfighters” dell'esordiente Jin Rui è pieno di difetti, ma ha l'interesse di presentare una descrizione agghiacciante della Cina rurale come un inferno dove la brutalità e la prepotenza dei pezzi grossi che dominano protetti dal Partito fanno pensare più al Sud America degli anni peggiori che al paese della retorica rivoluzionaria ufficiale.
“My Own Swordsman” di Shang Jing invece è molto divertente, e sembra un Mel Brooks cinese ambientato nel periodo Ming, con un'iniezione di satira sulla speculazione immobilare.
Se Taiwan delude (il verboso “You Are the Apple of My Eye” di Giddens), magnifiche sorprese arrivano da cinematografie più laterali. Indonesia: Aria Kusumadewa, che l'altr'anno ci aveva conquistati con”Identitas”, ha realizzato una bella commedia acida con “Kentut”. Concetto base: una candidata politica alla vigilia del ballottaggio viene ferita in un attentato, viene ricoverata in ospedale e sarà esclusa dalle elezioni se non riuscirà a scorreggiare, segno che si è perfettamente ristabilita. In attesa di questo fausto evento l'ospedale si riempe di religiosi che pregano e di bancarelle – sembra “The Big Carnival” di Billy Wilder. Kusumadewa se la prende con le campagne politiche, la religione, i rapporti uomo-donna, con tutta la società indonesiana, con uno sguardo che sembra quello di un marziano divertito e perplesso (ma non privo, mi pare, di una certa distaccata simpatia per questi terrestri pazzi). Nota in margine: gli italiani, che conoscono bene il Cetto Laqualunque di Antonio Albanese, riconosceranno qualcosa nella campagna elettorale del film.
Dalla Malaysia arriva “Songlap” di Effendee Mazlam e Fariza Azlina Isahak, una sorta di gangster drama molto bello, fortemente umano e allo stesso tempo estremamente netto, senza ombra di sbavature, senza mai sprechi di tempo, con una notevolissima capacità di racconto (l'uso delle ellissi e del non detto - come l'identità del padre del neonato - è eccezionale). Il dialogo è davvero ben scritto (un sito Internet che ho visto citava Scorsese: è esagerato, ma nella direzione giusta) e ben interpretato. Il film ha delle inquadrature eleganti senza essere leccate; che perfino un car chasing nelle strade di Kuala Lumpur sia fotografato con intelligente originalità è il massimo!
La Thailandia era rappresentata quest'anno da un solo film, ma di valore. “It Gets Better”, del/la regista trans Tanwarin Sukkhapisit, incrocia tre storie sulla transessualità con buona capacità narrativa, fantasia ed eleganza. Se l'apertura è puro Almodovar, il film si sviluppa in seguito su vari registri, ben servito da un montaggio di notevole fluidità.
Ho lasciato per ultime le Filippine perché da questo paese vengono due film fra i più interessanti del Festival. “Six Degrees of Separation from Lilia Cuntapay” di Antoinette Jadaone è un eccellente mockumentary che porta sullo schermo nella parte di se stessa (con un bel gioco di specchi e scarti fra la realtà e la figura filmica) Lilia Cuntapay, microcaratterista di film horror. La figura della settantaseienne Cuntapay, presente al festival e commossa fino alle lacrime per gli applausi dopo il film, resterà per sempre nei nostri cuori.
“The Woman in the Septic Tank” di Marlon Rivera (scritto da Chris Martinez) è un piccolo capolavoro di acuto umorismo metacinematografico. E' una riflessione (in toni di commedia) sui vari modi possibili di girare un film drammatico sulla miseria assoluta degli slum di Manila, dove una donna povera vende suo figlio a un pedofilo. Si articola su due linee: è una satira perfino crudele del cinema indie sulla miseria (e ciò nonostante getta anche uno sguardo lucido su di essa); è una dimostrazione semiseria, che davvero andrebbe studiata nelle scuole di cinema, su come la diversità di approccio implichi una diversità di linguaggio.
Sì, perché il divertente non è tanto che vediamo la stessa storia realizzata a ripetizione come dramma realistico, come musical, come filmone star-oriented: è che ognuno di questi modi implica una diversità linguistica (per esempio, nel terzo caso, un'illuminazione più forte, perché si veda bene la star, e un uso più marcato del primo piano). La protagonista, la grandissima attrice comica Eugene Domingo, è sublime più che mai, sia come interprete in più di una versione, sia come interprete di se stessa in forma autoparodistica: la superdiva in una villa lussuosissima che dà ai cineasti (e al pubblico) una meravigliosa lezione, anch'essa semiseria naturalmente, sui vari stili di recitazione.
Considerando che questo è stato il vero film di chiusura del festival (benché seguisse l'insipido “The Viral Factor”), ripensare a questo gioiellino contribuisce a fissare nel nostro spirito un caldo ricordo del quattordicesimo Far East Film.
The Woodsman and the Rain
Okita Shuichi
Siamo in una zona ultra-periferica del Giappone. Un vecchio boscaiolo malinconico (Yakusho Koji), che ha rotto con il figlio, viene tirato dentro la produzione di un film di zombi a basso budget che stanno girando in quei luoghi. Prima molto perplesso, finisce per appassionarcisi, coinvolgendo nella realizzazione l'intero villaggio. Questo accade nella bella commedia drammatica “The Woodsman and the Rain” di Okita Shuichi, presentata con successo al Far East Film 2012.
In generale i film di zombi posseggono un'alta qualità metaforica, come ha mostrato in primo luogo George A. Romero. Nel presente film, gli zombi sono collegati al concetto del figlio perduto (uno sviluppo della metafora assai interessante). Ciò avviene a due livelli. All'interno del film-nel-film, il valore simbolico della perdita (vedi anche la battuta finale) implica una riflessione critica sulla società giapponese che spreca i suoi figli; e contiene la nostalgia di un'epoca precedente. Basta guardare gli eroi della lotta contro gli zombi, sempre nel film-nel-film: un vecchio che ricorda volutamente il vecchio maestro dei film di samurai, un esercito di donne armate di bambù che derivano direttamente da quelli.
Il “racconto primo”, quello che contiene il film-nel-film, a sua volta lo rispecchia: racconta la perdita del figlio del protagonista, allontanatosi da casa, e la conseguente nascita di un rapporto padre/figlio sostitutivo fra il taglialegna e il regista. Anche su questo livello narrativo si vede il rimpianto per un Giappone antico (e certamente irraggiungibile). Lo si vede chiaramente nell'estraneità del protagonista alla cultura pop metropolitana giapponese: non sa nemmeno cosa siano gli zombi e proprio per questo può appassionarsi e piangere alla lettura del copione di un film di serie B neanche stesse leggendo il Genji Monogatari.
Anzi, l'idea di usare come base per tutto l'impianto non un film qualunque ma un film di pura routine, non solo cinema di genere puro ma serie B al suo massimo, è forse la più brillante di “The Woodsman and the Rain”; e favorisce una serie di notazioni acute e divertenti (la migliore: nella bellissima scena dell'arrivo dei parenti, si può trovare un'analogia fra la zombizzazione del mondo intero nei film del genere e la passione del cinema che investe tutto il villaggio, e trasforma tutti in zombi come trucco di scena).
Nonostante l'umorismo che lo attraversa, il film di Okita ha alcuni difetti. Soffre di una certa lentezza iniziale (ma poi prende ala); inoltre non tratta in modo convincente la figura del giovane regista: francamente siamo un po' stanchi del gioco a due, visto in troppi film, fra il vecchio burbero/saggio e il giovane insicuro che sembra un pirla anche se poi non lo è. L'interpretazione piuttosto fiacca di Oguri Shun nella parte del giovane regista non aiuta. Tuttavia “The Woodsman and the Rain” è un film che cresce nel ricordo, per la sceneggiatura assai intelligente e per molti notevoli dettagli sparsi qua e là, oltre che, inutile dirlo, per l'interpretazione magistrale di Yakusho Koji nel ruolo del protagonista. Alla quale va accostata una folgorante parte minore per il “nostro” Yamazaki Tsutomu, indimenticabile capo dell'agenzia di nokanshi in “Departures”.
Siamo in una zona ultra-periferica del Giappone. Un vecchio boscaiolo malinconico (Yakusho Koji), che ha rotto con il figlio, viene tirato dentro la produzione di un film di zombi a basso budget che stanno girando in quei luoghi. Prima molto perplesso, finisce per appassionarcisi, coinvolgendo nella realizzazione l'intero villaggio. Questo accade nella bella commedia drammatica “The Woodsman and the Rain” di Okita Shuichi, presentata con successo al Far East Film 2012.
In generale i film di zombi posseggono un'alta qualità metaforica, come ha mostrato in primo luogo George A. Romero. Nel presente film, gli zombi sono collegati al concetto del figlio perduto (uno sviluppo della metafora assai interessante). Ciò avviene a due livelli. All'interno del film-nel-film, il valore simbolico della perdita (vedi anche la battuta finale) implica una riflessione critica sulla società giapponese che spreca i suoi figli; e contiene la nostalgia di un'epoca precedente. Basta guardare gli eroi della lotta contro gli zombi, sempre nel film-nel-film: un vecchio che ricorda volutamente il vecchio maestro dei film di samurai, un esercito di donne armate di bambù che derivano direttamente da quelli.
Il “racconto primo”, quello che contiene il film-nel-film, a sua volta lo rispecchia: racconta la perdita del figlio del protagonista, allontanatosi da casa, e la conseguente nascita di un rapporto padre/figlio sostitutivo fra il taglialegna e il regista. Anche su questo livello narrativo si vede il rimpianto per un Giappone antico (e certamente irraggiungibile). Lo si vede chiaramente nell'estraneità del protagonista alla cultura pop metropolitana giapponese: non sa nemmeno cosa siano gli zombi e proprio per questo può appassionarsi e piangere alla lettura del copione di un film di serie B neanche stesse leggendo il Genji Monogatari.
Anzi, l'idea di usare come base per tutto l'impianto non un film qualunque ma un film di pura routine, non solo cinema di genere puro ma serie B al suo massimo, è forse la più brillante di “The Woodsman and the Rain”; e favorisce una serie di notazioni acute e divertenti (la migliore: nella bellissima scena dell'arrivo dei parenti, si può trovare un'analogia fra la zombizzazione del mondo intero nei film del genere e la passione del cinema che investe tutto il villaggio, e trasforma tutti in zombi come trucco di scena).
Nonostante l'umorismo che lo attraversa, il film di Okita ha alcuni difetti. Soffre di una certa lentezza iniziale (ma poi prende ala); inoltre non tratta in modo convincente la figura del giovane regista: francamente siamo un po' stanchi del gioco a due, visto in troppi film, fra il vecchio burbero/saggio e il giovane insicuro che sembra un pirla anche se poi non lo è. L'interpretazione piuttosto fiacca di Oguri Shun nella parte del giovane regista non aiuta. Tuttavia “The Woodsman and the Rain” è un film che cresce nel ricordo, per la sceneggiatura assai intelligente e per molti notevoli dettagli sparsi qua e là, oltre che, inutile dirlo, per l'interpretazione magistrale di Yakusho Koji nel ruolo del protagonista. Alla quale va accostata una folgorante parte minore per il “nostro” Yamazaki Tsutomu, indimenticabile capo dell'agenzia di nokanshi in “Departures”.
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sabato 5 maggio 2012
To Rome with Love
Woody Allen
Ahimè, stavolta hanno ragione. Accade spesso che la critica sia più severa con un film di quanto dovrebbe; anche quando è un film di tipo, per così dire, “turistico” e alimentare, come quelli che Woody Allen va girando per le varie capitali europee con un occhio ai finanziamenti locali. Un occhio? tutti e due! tutti gli occhi di Argo! Eppure ciò non gli ha impedito di fare film buoni (“Incontrerai un uomo alto e bruno”, “Midnight in Paris”) o anche ottimi (il sottovalutatissimo “Vicky Cristina Barcelona”). Ma ecco che approdando a Roma con “To Rome with Love” Allen realizza un tonfo - il film più brutto della sua carriera (no: emendamento per noi alleniani furiosi: l'unico film irrimediabilmente brutto della sua carriera).
Il problema non sono i luoghi comuni. Tutti i film “europei” di Allen ne sono - legittimamente - pieni; basta guardare per esempio la bella bouquiniste di “Midnight in Paris”. E' che quelli di “Rome” sono luoghi comuni vacui e defunti. A questo punto sarà bene partire da una constatazione generale: se vogliamo trovare un indicatore della nostra decadenza, basta vedere che un film fatto per celebrare Roma e intitolato “A Roma con amore” è uscito in Italia col titolo inglese “To Rome with Love”: è la conferma che l'Italia è un paese morto. Ora, esiste uno strano paradosso: in un paese vivo e vivace anche i luoghi comuni turistici, queste falsificazioni autocelebrative, risultano amabili nella loro falsità; nel caso opposto, suonano come trite patacche, perché sono falsificazioni di una realtà che di per sé è falsa, sciolta, putrefatta (potremmo chiamarli falsificazione di secondo grado).
Ma nel presente film la loro piattezza vale anche sul piano soggettivo. Allen conosce l'Italia, non è piovuto ieri dallo Iowa; se “To Rome with Love” si apre con quel terribile pizzardone romano (da non credere ai nostri occhi e alle nostre orecchie!) e continua su questa falsariga da sceneggiato Rai di second'ordine, vuol dire che sul problema generale s'innesta una sordità artistica, o per gentilezza diciamo un drammatico calo d'ispirazione, dell'autore. Allen inserisce un'evidente excusatio quando il giovanotto dice all'architetto famoso che ora fa centri commerciali (Alec Baldwin) “Ti sei venduto” e quello risponde con placidità “Come disse una volta un saggio, le cose succedono”. Tuttavia, vendere se stessi può ancora essere onesto, a patto che il prodotto sia buono (non per nulla la escort interpretata da Penelope Cruz è il personaggio più simpatico del film). Diventa disonorevole quando, come qui, il concetto è - per usare il titolo di un Allen d'annata - “Prendi i soldi e scappa”. In realtà Allen ne è tanto consapevole che nasconde alla fine un'altra excusatio non petita dandosi addirittura del minus habens - ma non ci inganna.
Il film, che in origine doveva chiamarsi “Bop Decameron”, ha una struttura a episodi interlineati. Generalmente mal recitato da italiani gesticolanti (il migliore è Alessandro Tiberi) e da americani spiazzati, montato in modo addirittura dilettantesco, è una silloge di storie fiacche, spompate, faticose. Malamente copiata da “Lo sceicco bianco” è quella di Antonio e Milly: lei si perde per Roma e quasi finisce a letto con l'attore Antonio Albanese (vedendo la sequenza uno si chiede: dov'è finito l'autore de “La rosa purpurea del Cairo”?); lui è costretto a far passare la bellissima ma evidente escort Penelope Cruz per sua moglie davanti ai parenti bacchettoni. Altra storia: un giovane si innamora di una seduttrice (Ellen Page, brava) nonostante i consigli del grillo parlante semi-fantasmatico Alec Baldwin; la presenza di quest'ultimo che vede e commenta tutto, a metà fra concreto e astratto, è la cosa più interessante del film - ma è vecchio Allen riciclato. Roberto Benigni è un signor nessuno che si ritrova famoso per un giorno, in un episodio un po' stiracchiato ma almeno sensato. Woody Allen in persona appare nell'episodio in cui cerca di lanciare nella carriera artistica un becchino che canta benissimo, ma solo sotto la doccia. Questa è una barzelletta tristemente prolungata, anche se qui Allen si riserva un paio di battute passabili; finisce di rovinarla l'insopportabile Flavio Parenti nei panni di un giovanotto di sinistra che sarebbe caricaturale se qui ci fosse ombra di umorismo o caricatura.
Così in questo film la cosa migliore da fare è guardare la bellezza femminile che viene castamente ma costantemente esibita. Guardare le comparse in hot pants che Allen fa sfilare nella folla di turisti. Guardare la bella segretaria pronta a concedersi a Benigni divenuto famoso, e la modella di intimo supersexy che gli strizza l'occhio durante la sfilata di moda. Soprattutto, guardare Penelope Cruz. L'inquadratura in cui si rimette le mutandine dopo aver fatto sesso con Tiberi nel giardino è l'unica immagine da ricordare di questo disastro cinematografico.
Morale. C'è un film del 1994 che Allen probabilmente ha visto, ma di sicuro ha dimenticato, e dovrebbe proprio rivedere. Si tratta di “Pallottole su Broadway”, di Woody Allen: un film che è una superba riflessione sulla moralità dell'arte e sul rapporto fra autenticità artistica e autenticità umana.
Ahimè, stavolta hanno ragione. Accade spesso che la critica sia più severa con un film di quanto dovrebbe; anche quando è un film di tipo, per così dire, “turistico” e alimentare, come quelli che Woody Allen va girando per le varie capitali europee con un occhio ai finanziamenti locali. Un occhio? tutti e due! tutti gli occhi di Argo! Eppure ciò non gli ha impedito di fare film buoni (“Incontrerai un uomo alto e bruno”, “Midnight in Paris”) o anche ottimi (il sottovalutatissimo “Vicky Cristina Barcelona”). Ma ecco che approdando a Roma con “To Rome with Love” Allen realizza un tonfo - il film più brutto della sua carriera (no: emendamento per noi alleniani furiosi: l'unico film irrimediabilmente brutto della sua carriera).
Il problema non sono i luoghi comuni. Tutti i film “europei” di Allen ne sono - legittimamente - pieni; basta guardare per esempio la bella bouquiniste di “Midnight in Paris”. E' che quelli di “Rome” sono luoghi comuni vacui e defunti. A questo punto sarà bene partire da una constatazione generale: se vogliamo trovare un indicatore della nostra decadenza, basta vedere che un film fatto per celebrare Roma e intitolato “A Roma con amore” è uscito in Italia col titolo inglese “To Rome with Love”: è la conferma che l'Italia è un paese morto. Ora, esiste uno strano paradosso: in un paese vivo e vivace anche i luoghi comuni turistici, queste falsificazioni autocelebrative, risultano amabili nella loro falsità; nel caso opposto, suonano come trite patacche, perché sono falsificazioni di una realtà che di per sé è falsa, sciolta, putrefatta (potremmo chiamarli falsificazione di secondo grado).
Ma nel presente film la loro piattezza vale anche sul piano soggettivo. Allen conosce l'Italia, non è piovuto ieri dallo Iowa; se “To Rome with Love” si apre con quel terribile pizzardone romano (da non credere ai nostri occhi e alle nostre orecchie!) e continua su questa falsariga da sceneggiato Rai di second'ordine, vuol dire che sul problema generale s'innesta una sordità artistica, o per gentilezza diciamo un drammatico calo d'ispirazione, dell'autore. Allen inserisce un'evidente excusatio quando il giovanotto dice all'architetto famoso che ora fa centri commerciali (Alec Baldwin) “Ti sei venduto” e quello risponde con placidità “Come disse una volta un saggio, le cose succedono”. Tuttavia, vendere se stessi può ancora essere onesto, a patto che il prodotto sia buono (non per nulla la escort interpretata da Penelope Cruz è il personaggio più simpatico del film). Diventa disonorevole quando, come qui, il concetto è - per usare il titolo di un Allen d'annata - “Prendi i soldi e scappa”. In realtà Allen ne è tanto consapevole che nasconde alla fine un'altra excusatio non petita dandosi addirittura del minus habens - ma non ci inganna.
Il film, che in origine doveva chiamarsi “Bop Decameron”, ha una struttura a episodi interlineati. Generalmente mal recitato da italiani gesticolanti (il migliore è Alessandro Tiberi) e da americani spiazzati, montato in modo addirittura dilettantesco, è una silloge di storie fiacche, spompate, faticose. Malamente copiata da “Lo sceicco bianco” è quella di Antonio e Milly: lei si perde per Roma e quasi finisce a letto con l'attore Antonio Albanese (vedendo la sequenza uno si chiede: dov'è finito l'autore de “La rosa purpurea del Cairo”?); lui è costretto a far passare la bellissima ma evidente escort Penelope Cruz per sua moglie davanti ai parenti bacchettoni. Altra storia: un giovane si innamora di una seduttrice (Ellen Page, brava) nonostante i consigli del grillo parlante semi-fantasmatico Alec Baldwin; la presenza di quest'ultimo che vede e commenta tutto, a metà fra concreto e astratto, è la cosa più interessante del film - ma è vecchio Allen riciclato. Roberto Benigni è un signor nessuno che si ritrova famoso per un giorno, in un episodio un po' stiracchiato ma almeno sensato. Woody Allen in persona appare nell'episodio in cui cerca di lanciare nella carriera artistica un becchino che canta benissimo, ma solo sotto la doccia. Questa è una barzelletta tristemente prolungata, anche se qui Allen si riserva un paio di battute passabili; finisce di rovinarla l'insopportabile Flavio Parenti nei panni di un giovanotto di sinistra che sarebbe caricaturale se qui ci fosse ombra di umorismo o caricatura.
Così in questo film la cosa migliore da fare è guardare la bellezza femminile che viene castamente ma costantemente esibita. Guardare le comparse in hot pants che Allen fa sfilare nella folla di turisti. Guardare la bella segretaria pronta a concedersi a Benigni divenuto famoso, e la modella di intimo supersexy che gli strizza l'occhio durante la sfilata di moda. Soprattutto, guardare Penelope Cruz. L'inquadratura in cui si rimette le mutandine dopo aver fatto sesso con Tiberi nel giardino è l'unica immagine da ricordare di questo disastro cinematografico.
Morale. C'è un film del 1994 che Allen probabilmente ha visto, ma di sicuro ha dimenticato, e dovrebbe proprio rivedere. Si tratta di “Pallottole su Broadway”, di Woody Allen: un film che è una superba riflessione sulla moralità dell'arte e sul rapporto fra autenticità artistica e autenticità umana.
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