venerdì 24 dicembre 2021

One Second

Zhang Yimou

Un livore diventa affetto, uno scontro diventa incontro, nel commovente film di Zhang Yimou One Second, uscito dopo aver avuto guai con la censura del regime (nel 2019 fu ritirato dal Festival di Berlino subito prima della proiezione ed è uscito in patria nel 2020).
Siamo negli anni bui della Rivoluzione Culturale (sulle sofferenze della quale ricordiamo del regista il bellissimo e poco menzionato Lettere di uno sconosciuto del 2014). Un uomo (Zhang Yi) – anonimo nel film, chiamato nei titoli di coda il Fuggitivo – è finito ai lavori forzati per avere colpito una Guardia Rossa durante una rissa, e per questo la moglie e la figlia bambina lo hanno abbandonato (o facilmente sono state costrette a farlo). L'uomo è fuggito dopo aver saputo che la figlia quattordicenne compare in un cinegiornale, per un solo secondo: vuole a tutti i costi rivedere il suo volto. Raggiunge un remoto villaggio dove quel cinegiornale verrà proiettato prima del film bellico in programmazione, Heroic Sons and Daughters (1964) di Wu Zhaodi, del quale Zhang Yimou ci mostra importanti squarci. Ma la pellicola del cinegiornale viene rubata da una ragazzina sbandata, Orfana Liu (Liu Haocun): vuole farne una lampada di plastica trasparente (apprendiamo che era un uso diffuso all'epoca) per il fratellino, che ne ha rotto una avuta in prestito e ora viene bullizzato.
L'inizio tutto inseguimenti e disavventure, senza essere farsesco, contiene un forte elemento di commedia; anche in seguito c'è un filo rosso di humour nel film, che si incarna in un dialogo gustoso e in uno sguardo vivace e cordiale sugli spettatori che si affollano per vedere Heroic Sons and Daughters ; quella massa che nel movimento compatto dei wuxiapian di Zhang è colore in movimento, qui è umanizzata in una pluralità di individui. Spicca con particolare vivezza la figura del proiezionista, maoista convinto e anche lui coi suoi problemi, chiamato da tutti Signor Cinema (Wei Fan). Come sempre in Zhang c'è un romanticismo e massimalismo del racconto; lungo tutto il film si mescolano strettamente la comicità e la commozione. C'è un nome per questo: Charlie Chaplin: e infatti One Second è un film molto chapliniano.

Una volta recuperato il cinegiornale, il protagonista convince Signor Cinema a proiettarlo in loop nella sala vuota per rivedere la figlia ancora e ancora. Ma una svolta imprevista cambia le carte in tavola. La bella invenzione del fotogramma, dove la figlia appare sorridente con un sacco di grano in spalla, consente al film di unire armoniosamente i suoi due elementi, che sono il racconto sentimentale e l'amore per il cinema. Circa il primo aspetto, va segnalato che il tema del rapporto padre-figlia, che attraversa il film, viene anche richiamato in modo simbolico attraverso delle raffinate allusioni. Inizialmente compare in forma burlesca con le reciproche bugie calunniose (si definiscono a vicenda una figlia ribelle e un pessimo padre) del Fuggitivo e di Liu parlando coll'autista del camion sul quale si trovano insieme. Grande l'espressione di Zhang Yi quando si trova surclassato sul piano della faccia tosta! Poi vediamo una scena di agnizione padre-figlia proprio in Heroic Sons and Daughters. E durante la proiezione in loop del cinegiornale, c'è un momento di scambio simbolico quando il Fuggitivo sta guardando commosso e Liu sale sulla panca davanti e lo apostrofa sovrapponendosi al quadro luminoso – per cui per un secondo la figlia perduta e e la figlia futura compaiono appaiate nella stessa inquadratura. Nel finale, col nuovo incontro tra l'ex Fuggitivo e Liu, lei che prima aveva una massa di capelli scomposti ora ha le trecce – come tanto la figlia di Heroic Sons and Daughters quanto la vera figlia del protagonista in quell'unico secondo del cinegiornale.
One Second è un caldo omaggio al cinema. Il cinema come sogno collettivo, che incanta la popolazione di questo villaggio sperduto nel deserto. Il cinema come riconoscimento identitario: bellissima la scena in cui gli spettatori cantano in coro la canzone patriottica del film che stanno guardando. Il cinema come custode della memoria (il fotogramma). Il cinema come dispositivo, e la sua natura delicata: molto più dei robusti corpi contadini che vediamo qui, la pellicola è una cosa fragile che può graffiarsi, sporcarsi, rompersi, andare a fuoco. Nelle scene in cui tutto il paese si mobilita per salvare la pellicola aggrovigliata e sporca (è stata trascinata in terra da un carro) Zhang vuole mostrarci non solo l'amore che circondava il cinema di una volta, quando le “pizze”, i contenitori dei film, venivano trasportati da un posto all'altro in motocicletta, ma anche ricordarci la sua fragilità. Un appello appassionato e cinefilo in favore del cinema in un'epoca di crescente oppressione. 


mercoledì 22 dicembre 2021

Diabolik

Marco e Antonio Manetti

Più audace dei colpi di Diabolik è il film Diabolik dei fratelli Marco e Antonio Manetti. Lo ha già detto la critica più avveduta (cito solo un'eccellente recensione di Gianni Canova su welovecinema.it): portando sullo schermo un fumetto degli anni '60, e traendolo principalmente dal numero 3, L'arresto di Diabolik (nota per inciso che la discussione su Diabolik all'inizio del film è ispirata a quella del primo episodio del fumetto, che a sua volta si ispirava a quella che apre il primo romanzo di Fantômas), i Manetti hanno avuto il sangue freddo di confezionare, non solo un film ambientato nei '60, ma proprio (un fumetto e) “un film popolare degli anni '60”. E vicino (a parte la differenza di mezzi), più che al Diabolik pop di Mario Bava, a Kriminal di Umberto Lenzi e Il marchio di Kriminal di Fernando Cerchio.
Vale la pena di annotare alcuni dei tratti che lo caratterizzano come tale. I colori piuttosto spenti. La grafica delle scritte, dall'inizio alla fine (anzi, alla “Fine”, che compare al centro dell'immagine del mare in campo lunghissimo). L'improntitudine con cui nella città francese di Ghenf – una pseudo Costa Azzurra che è Trieste – c'è scritto “Acqua di Ghenf” sui tombini, in italiano come il “Polizia di Clerville” che vediamo sulle auto. L'assurdità di location riconoscibilissime (Trieste, Milano), o l'architettura di epoca fascista in cui ha sede il Ministero della Giustizia di Clerville. Anche – un dettaglio che tutti gli uomini avranno notato – la veloce esposizione della nudità di Eva Kant quando entra nel bagno: il taglio dell'inquadratura è esattamente quello che avremmo visto in un film del 1963. Pure l'uso quasi oppressivo dello split screen nella scena del colpo nella banca rientra perfettamente nella logica dei '60 come apprendimento di massa delle avanguardie, all'incirca come nel godardismo popolarizzato di Col cuore in gola di Tinto Brass.
Certo, i fratelli Manetti non mancano di inserire tocchi del loro spirito surreale: vedi un'esecuzione con la ghigliottina tenuta davanti al Palazzo di Giustizia, ove al posto del tradizionale tamburo c'è un flic che batte colpi di grancassa. Però anche questo si attaglia bene all'atmosfera surreale del cinema popolare italiano di quegli anni. E circa i mirabolanti passaggi segreti di Diabolik, con pezzi di paesaggio che si sollevano ad aprire gallerie, è stato menzionato il primo James Bond, ma è più esatto dire che ricordano i simil-Bond italiani del decennio. Non agente 007 (Sean Connery) ma agente 077 (Ken Clark) e compagnia.
Diabolik è un true fake, realizzato con una decisione e una sfacciataggine che sono stupefacenti in un film dagli intenti apertamente commerciali. Alle quali il pubblico ha risposto, pare, con discreto successo, anche se ovvio che non si deve tanto all'operazione metafilmica quanto alla trama gialla robusta (del tutto irreale ma robusta), che poi è quella tipica degli albi delle sorelle Giussani.
Questa qualità di falso cosciente è una specie di licenza per i realizzatori, che permette di far entrare nel film senza che strida un direttore delle carceri dall'accento napoletano – per forza, è il grande Antonino Iuorio – o un commissario della polizia locale più emiliano di Gianni Morandi.
Bisogna ricordare che nei primi fumetti di Diabolik alle trame irreali ma abbastanza compatte delle sorelle Giussani si contrapponeva un disegno “di servizio”, notevolmente povero, con noiosi retini. Niente a che vedere con i bianco/neri pieni di ombre, “espressionisti”, di Magnus e prosecutori nella serie concorrente di Kriminal (nota che i film citati di Lenzi e Cerchio non fanno il minimo tentativo di replicarli). I tre interpreti principali del film (Luca Marinelli/Diabolik, Miriam Leone/Eva Kant, Valerio Mastandrea/Ginko) riportano senza la minima preoccupazione l'esteriorità algida e la natura monodimensionale dei personaggi del fumetto. Solo Miriam Leone, che è la migliore in campo, la sviluppa con intelligenza senza mai uscire dal suo compito.
Stabilito che il film è molto divertente, resta da osservare che è come una specie di object trouvé, che porta con sé una sensazione di irrepetibilità eroica. In questo senso, potremmo paragonarlo al diamante rosa che Eva getta in mare alla fine del racconto. Sono in lavorazione due sequel, ma è difficile pensare a una serie di film anni '60 come questo – anche se è vero che oggi i sequel si inseriscono in una logica seriale a formare una sorta di mega-film a puntate. Ma è più facile prevedere che in futuro i film di Diabolik debbano aprire a un movimento in direzione dell'ordine narrativo contemporaneo.
Ma per il gusto di un'ipotesi oziosa, quale potrebbe essere il futuro di una trascrizione cinematografica di Diabolik? A parte la folle cavalcata pop (forse anch'essa difficilmente continuabile!) di Mario Bava? Diabolik (il fumetto) mostra nei primi numeri come caratteristica evidentissima la filiazione diretta dal Fantômas (in Italia senza accento circonflesso) di Allain e Souvestre, e non parlo semplicemente della calzamaglia nera. Il gusto di Diabolik per le stragi (il panfilo di Terrore sul mare, il treno de Il treno della morte) viene dritto dalla ferocia fredda e totale, surrealista senza volerlo (e infatti ai surrealisti quei romanzi piacevano molto) di Fantômas. Alcune trovate – la morte dell'uomo legato al battacchio della campana, i guanti con i polpastrelli di un cadavere – vengono pure da Allain e Souvestre. Anche il rapporto fra Ginko e il suo amico Gustavo è quello dei romanzi tra Juve e Fandor. E' possibile che questa filiazione, tutt'altro che estranea al gusto dei Manetti, indichi una strada per il futuro?

 

martedì 14 dicembre 2021

Cry Macho - Ritorno a casa

Clint Eastwood

Non posso curare la vecchiaia”.
Elegiaco e malinconico, Cry Macho di Clint Eastwood è una confessione dolorosa e piena di dignità sulla vecchiaia. Un film trasparente come la pelle tesa sul viso di Eastwood novantenne che lo interpreta con una bellissima recitazione sobria, in accordo con la sua prima apparizione in controluce, piena di dettagli sottotraccia ma lampanti, come la sua espressione quando al suo personaggio, ex alcoolizzato, viene offerto da bere.
Due splendidi film di Eastwood sulla vecchiaia, The Mule e Cry Macho, formano una coppia di film-testamento; in entrambi ha gran parte il Messico, l'altra faccia dell'America rispetto agli States dei pionieri bianchi. Fra i due c'è, a parere di chi scrive, una differenza fondamentale, da cui conviene partire per intendere il secondo: The Mule è narrativa mentre Cry Macho sotto la superficie narrativa è poesia. Di qui la sovrana indifferenza con cui sorpassa in certi momenti la mera logica narrativa, e ricorda l'elegante astrazione del cinema muto.
Dopo titoli di testa in pura grafica western, vediamo Eastwood, il vecchio ex campione di rodeo Mike Milo, venire licenziato dal suo boss Howard Polk. Un anno dopo Howard si fa vivo da Mike e gli chiede di andare in Messico a recuperare per lui (che non può andarci) il figlio tredicenne Rafo, là trattenuto dalla madre, e abusato. Mike non stima Howard ma si sente in debito con lui che l'ha aiutato nei momenti bui. Così parte; in Messico la madre di Rafo (una ricca ninfomane alcoolizzata immersa in affari poco puliti) gli dice con disprezzo che il ragazzo l'ha abbandonata e ora vive da solo in un quartiere malfamato. Mike riesce a trovare Rafo (una buona interpretazione di Eduardo Minett che mostra la fragilità rabbiosa dell'adolescente), col suo gallo da combattimento Macho, e lo convince a venire con lui; ma la via del ritorno sarà molto più complicata di quanto si aspetti. E' un film di viaggio, di fuga, di litigi e di speranza, ingenua in Rafo, disincantata in Mike; come sempre Eastwood ci mostra la vita e il suo travaglio con la chiarezza dei classici. Per un certo tempo i due si nascondono presso la bella vedova Marta (interpretata dall'attrice messicana Natalia Traven, che ha negli occhi un bagliore alla Katy Jurado); fra lei e Mike nasce, pudicamente raccontato, un amore; ma arriverà il momento di andarsene.
Mike è stato ed è un grande domatore di cavalli – in Eastwood come in Hawks la competenza nel lavoro è un valore supremo – e i cavalli sono assieme al gallo gli animali-simbolo del film: lo sguardo che Mike lancia ai cavalli di Howard in apertura, la nostalgia sulle vecchie foto del rodeo, la bellissima inquadratura, durante il viaggio, del branco che galoppa nel corral facendo a gara con l'automobile sulla strada, ed altro ancora. Il film è semplice e diretto nel mostrare l'amore per gli animali, l'amore per i bambini (le nipoti di Marta, fra cui la piccola muta con cui Mike sa comunicare col linguaggio dei segni), e per le anime oneste come Marta, che nel suo coraggio decisionista e nella sua forza d'animo si caratterizza come il doppio di Mike.
L'eroe eastwoodiano ha due caratteristiche: l'indomabilità e la solitudine. Quest'ultima in Cry Macho è dovuta a una disgrazia invece che a un allontanamento come in The Mule e tanti altri film (la voce incrinata di Eastwood quando raccontando della morte di moglie e figlio dice “my boy”!). L'indomabilità è sempre presente, ma stanca, indebolita dalla vecchiaia. Minacciato e sbeffeggiato dalla ex moglie di Howard e dai suoi sgherri, che gli intimano di tornare negli USA, Mike non mostra paura, ma tuttavia non ha scelta, e se ne va (è infantile pensare – e pur sapendolo lo facciamo – “Adesso li prende a cazzotti”). Ma Rafo si è nascosto nella sua auto, e nasce una fuga a tre, perché il gallo Macho nel film ha dignità di personaggio. Il classico tema eastwoodiano della responsabilità qui viene declinato su una coppia di obblighi contrastanti. Mike diventa il vero padre adottivo del ragazzo (“Tu non bevi nessuna tequila!”) ma si sente impegnato moralmente col suo ex datore di lavoro. Howard è un mediocre ma ha pronunciato tre parole fondamentali per la morale eastwoodiana: “You owe me”. Così Mike arriva, se non a mentire a Rafo, perlomeno a nascondergli la natura del padre (da lui definito all'inizio del film “un uomo debole, meschino e senza palle”). Ovvia la reazione del ragazzo quando la verità, anche peggiore di quanto sapeva Mike, viene fuori.
C'è una moralità interiore nei personaggi eastwoodiani – anche un ladro professionista (Potere assoluto) o un corriere della droga puttaniere (The Mule) – ma qui il contrasto di obbligazioni la fa ritirare molto all'interno del personaggio (e così torniamo al discorso della solitudine). Ne risulta un ritratto di grandissima umanità. Ed ecco le parole, assolutamente western, nel finale aperto del film, quando Mike consegna il ragazzo al padre pagando il debito: “Sai dove trovarci – se hai bisogno di noi”. Quel rovesciamento finale che ne I professionisti di Richard Brooks, fondato su un dilemma simile, appariva forzato, qui è di limpida purezza.
Il plurale “noi” comprende il gallo Macho, che, vero macho, in precedenza ha tolto i protagonisti da una situazione disperata. E sul concetto di macho Eastwood compie in questo film una riflessione che è quasi una palinodia (ma non tanto quanto hanno voluto nella critica alcune lettura un po' ideologiche): “La storia del macho è sopravvalutata”. Si finisce sempre con un pugno di polvere. “E' come ogni cosa nella vita, pensi di conoscere le risposte, ma quando diventi vecchio non ne hai nessuna”.
Invero nella sua carriera Eastwood – anche attraverso film su machos puri, come Gunny – ha sempre posto il tema della virilità; ovvero si è sempre confrontato con la domanda: che cos'è un uomo? Ma già lo sappiamo, al centro di tutto il cinema di Eastwood c'è (depurato da qualsiasi decadentismo) il concetto della morte che vince sempre. Dell'essere uomo fa parte la consapevolezza che un giorno arriverà la morte (è un peccato che Clint Eastwood non abbia mai girato un western su Doc Holliday, che si direbbe l'eroe eastwoodiano per eccellenza). Così le parole pronunciate da Marta al momento della separazione – “Tu sei un buon uomo, lo sai? Spero che tu lo sappia” – sono quelle che tutti noi vorremmo scolpite, per così dire, sulla tomba – e che non tutti meritiamo. Si può ricordare per inciso che questa è la preoccupazione centrale dello spielberghiano, e quasi eastwoodiano, Salvate il soldato Ryan. Sono parole tanto più forti nella visione del mondo di Eastwood, per il suo concetto della responsabilità; per lui, in ultima analisi, un uomo vale per quello che si lascia dietro.
Il finale mostra Mike, ritornato, che balla di nuovo con Marta, un'immagine di romanticismo in una trascrizione del racconto, l'abbiamo detto, in poesia. 


sabato 11 dicembre 2021

Scompartimento N° 6

Juho Kuosmanen

Solo certi lati di noi toccheranno solo certi lati degli altri”. Per modo di dire, questa frase campeggia in esergo al notevole Scompartimento N° 6 di Juho Kuosmanen: in realtà la sentiamo all'inizio del film in una gara di citazioni di cui bisogna indovinare l'autore, e viene attribuita ad Anna Achmatova (in effetti, ci sta) – ma è Marilyn Monroe.
E' quello che succede nel lungo viaggio di Laura, una ragazza finlandese, in treno da Mosca a Murmansk, dove va per vedere dei petroglifi vecchi di 10.000 anni. Un tema ritornante del film è la necessità di conoscere il passato come via per capire il presente; non per nulla Laura studia archeologia; anche il furto della sua telecamera la sconvolge perché è un furto del passato che c'era dentro. Tanto più che Laura è in via di separazione dalla sua amante Irina, che doveva fare il viaggio con lei e poi ha rinunciato – di qui la sua angoscia trattenuta. E' molto interessante che i petroglifi, fortunosamente raggiunti, alla fine non siano enunciati.
Laura deve dividere lo scompartimento con Lëha, un operaio russo incolto e a prima vista insopportabile, amico della vodka, forse un ladro, che usa il mat', il linguaggio osceno dei bassifondi. Siamo nella Russia dei primi anni Ottanta, che tiene ancora molto (vedi la figura della capotreno) della vecchia URSS. In questo viaggio i due, splendidamente interpretati da Seidi Haarla e Jurij Borisov, sono come prigionieri assieme nel caotico mondo del treno (indimenticabili dettagli “d'epoca” come il rotolo di carte igienica da usare come kleenex o il bicchiere di cerchi di plastica che rientrano uno nell'altro); però le lunghe soste, che consentono evasioni in città, e alcune sorprese, permettono loro di scoprire (Monroe dixit) qualche lato in più. Nasce un rapporto molto particolare, e bene espresso, in bilico fra l'amicizia e l'amore.
Poiché il film è focalizzato su Laura, sappiamo più di lei che del suo compagno; ma molto è comunque sotteso, affidato all'impressionismo di una macchina da presa che la segue da vicino e “risucchia” le sue emozioni. C'è in questo film finlandese-russo una grande sicurezza narrativa e un attentissimo senso del particolare, con una splendida descrizione di atmosfere, comportamenti e oggetti, tanto da poterlo definire un piccolo saggio sulla Russia. Memorabile la figura della vecchia insegnante di statistica con la sua concezione delle donne!
E' un'avventura sentimentale intessuta di uno humour sottile; la conclusione aperta non ci dice se “dopo” ci sarà un amore fra Laura e Lëha o se la loro amicizia continuerà o se si saranno solo incrociati come navi nella notte. Ma siamo diventati così intimi con loro in questo viaggio che vorremmo augurar loro tutto il meglio possibile.

mercoledì 8 dicembre 2021

Il Maialino di Natale

J.K. Rowling

Quel tanto di animismo che è sempre vivo in noi ci fa umanizzare gli oggetti, dargli sentimenti e sembianze umane – e nota che le seconde derivano dai primi. Così su un oggetto smarrito non solo possiamo sentire una perdita affettiva ma ci capita di immaginare in lui sensi di abbandono e solitudine.
Con humour, tenerezza e partecipazione umana J.K. Rowling ne “Il Maialino di Natale” (Salani) racconta la ricerca di uno di questi oggetti – un maialino di pezza – da parte di un bambino, Jack, in un mondo fantastico di Cose umanizzate. Bisogna infatti sapere che qualsiasi cosa venga smarrita finisce nella Terra dei Perduti, dove regna un mostro, il Perdente, divoratore di cose smarrite. E' una triste landa dove sorgono tre città: Usa e Getta, Dove Sarà Mai e Città dei Rimpianti – differenti per ricchezza in base al valore dell'oggetto perduto. Alla ricerca del maialino di pezza, in compagnia di un maialino nuovo che è un rimpiazzo rifiutato, Jack fa un viaggio da una città all'altra fino a Città dei Rimpianti, dove regna Potere con Ambizione come consigliera. 
Il modello è evidentemente il “Pilgrim's Progress” – un caposaldo della cultura anglosassone – e questo è decisivo nello strutturarsi del romanzo, ma è anche un suo punto debole. Poiché vengono assimilati nella categoria delle Cose perdute umanizzate tanto oggetti reali e concreti quanto astrazioni (Felicità, Speranza, Ambizione, Bellezza, Potere....), l'allegoria pone un problema. Il paio di occhiali che fa da sceriffo a Usa e Getta è un'entità reale, perduta da Tizio o Caio; ed anche Ambizione, Potere, Speranza e così via raccontano di essere stati perduti da un loro dato proprietario. Ma... e il Potere perduto da qualcun altro? Impossibile che ci siano tanti Potere in giro per il paese come ci sono tanti temperini, giocattoli, e magari gioielli. Quest'ambiguità permane in tutto il libro, per esempio con Felicità che sembra essere piuttosto un'idea generale. Tuttavia è ineliminabile, vista l'importanza di personaggio che hanno tali astrazioni.
Non se ne preoccuperanno i bambini, e anche per gli adulti il romanzo (illustrato da Jim Field) rimane comunque una piacevolissima lettura. E non priva di commozione, non solo per il climax natalizio. J.K. Rowling non ha mai limitato l'aspetto doloroso della vita ai testi “adulti” (lo esplora splendidamente nel magnifico “Il seggio vacante” ed è un filo rosso della trama dei gialli firmati Galbraith): è sotteso alla saga di Harry Potter ampliandosi man mano che progredisce; ed è molto marcato qui, nella prima parte, cioè prima che il racconto si sviluppi nel fantastico. Rowling ci parla – dal punto di vista dei bambini – di divorzio, di crisi perché il genitore si risposa, di solitudine e ira e bullismo adolescenziale. I cuori dei bambini nella realtà come i cuori delle Cose nella finzione, in una visione delicata e serena del dolore in assoluto.

domenica 5 dicembre 2021

Encanto

Byron Howard, Jared Bush, Charise Castro Smith

Il nuovo cartoon Disney Encanto è diretto da Byron Howard e Jared Bush (co-regia di Charise Castro Smith), ossia due dei tre che ci avevano dato l'eccellente Zootropolis. Ritroviamo anche qui il messaggio di quel film (come di tutta la produzione Disney e Pixar): “Ce la puoi fare”. Con la protagonista Mirabel Madrigal si compie un passo ulteriore nella tendenza di allontanamento dalle antiche eroine Disney: non ha nulla di glamorous, è una ragazzina bassa, riccioluta, con occhiali enormi che le danno un'aria, più che da Harry Potter, da Woody Allen in erba. Ma niente Woody Allen nello spirito, che è quello indomabile delle sue consorelle.
Encanto è quasi un musical, con canzoni di Lin-Manuel Miranda, ambientato nel mondo latinoamericano. Come non ricordare lo splendido Coco della Pixar, che però si svolgeva nel Messico, mentre qui siamo in Colombia. Nella magica casa della famiglia Madrigal (una casa vivente che amplia il concetto disneyano degli oggetti umanizzati), ogni membro della famiglia possiede un talento (gift in originale): chi è superforte, chi può far spuntare fiori a volontà, chi può cambiare aspetto, chi domina il tempo atmosferico, chi parla con gli animali. Tutti si mettono al servizio della comunità sotto l'occhio attento dell'inflessibile Abuela (Nonna), custode della candela magica che le è stata data miracolosamente in gioventù al momento del sacrificio del marito, ucciso da uomini a cavallo (questo momento iniziale è l'unico in cui compare nel film il concetto di “nemico”). La candela dona il talento ai bambini Madrigal quando raggiungono una certa età (la cerimonia ricorda la Prima Comunione). Misteriosamente, solo Mirabel non ha ricevuto alcun talento, e ciò la fa sentire inferiore – non senza un certo contributo da parte dei parenti: nessun bambino vorrebbe sentirsi dire dalla nonna “Per alcuni il modo migliore di aiutare è di farsi da parte”.
Non è una novità per la Disney, ma qui è più marcata che mai: in Encanto l'opposizione da cui nasce il racconto non è esterna ma è interna, si situa tutta entro i confini dei rapporti familiari. Quando improvvisamente (qui si trasporta sul piano fiabesco l'esperienza dei terremoti) si formano delle crepe sui muri, Maribel corre ad avvertire gli altri ma non viene creduta, perché i muri sono già tornati intatti.
Il film quindi si costruisce narrativamente e visivamente sulla materializzazione di una metafora: le crepe che si formano nella casa equivalgono alle crepe nella vita familiare; con una simbologia un po' più astratta, ciò vale anche per la candela magica, che rischia di spegnersi. Così al cuore del film non sta la lotta contro un avversario ma il viluppo di tensioni aperte o sottaciute che coinvolgono tutti i Madrigal. In primis c'è la stanchezza di dover corrispondere sempre alle aspettative: l'erculea Luisa la esprime in una delle scene migliori, una canzone con contorno di asini ballerini. L'impiego dei talenti ha finito per diventare un magnete attorno al quale ruota tutta l'esistenza della famiglia.
Non troppo apprezzato dalla critica, indubbiamente Encanto è a tratti macchinoso nella sceneggiatura, ma resta un film vivo, colorato, divertente. Probabilmente ha troppi personaggi per dare spazio a ciascuno, ma funziona come commedia corale. Anche la parte in cui Maribel penetra nel rifugio segreto del cugino estraniato Bruno (il cui talento è inquietante e particolare), comprendente all'inizio un inatteso spostamento di buon ritmo sul piano avventuroso, è piacevole, e contiene alcuni buffi momenti coi topi (si può sempre contare sulla Disney per gli animali). Infine il dénouement, che esprime la morale della favola, ha una logicità che salda bene la metafora di base alla narrazione. Encanto non raggiunge il livello di Zootropolis ma è comunque una buona aggiunta alla filmografia disneyana.

venerdì 3 dicembre 2021

Per favore, non mordermi sul collo

Roman Polanski

Troviamo in tutto il cinema di Roman Polanski uno sguardo angoscioso verso la vecchiezza. Vecchi ambigui, pericolosi, ghignanti popolano i suoi film; il vetusto castello gelato di The Fearless Vampire Killers è una struttura divoratrice, risucchiante, centripeta. Fra comicità e momenti di vero terrore, il film di Polanski mette in scena l’attacco della morte alla vita. Dice con linguaggio para-religioso il conte vampiro von Krolock: “questa terra... attende il nostro avvento come l’autunno attende l’inverno”. La vita brulica nell’ambiente contadino dell’inizio, dove Polanski filtra l’impagabile descrizione bozzettistica attraverso la sua nostalgia - nello spazio e nel tempo - di esule ebreo polacco. Il rapimento-con-vampirizzazione della splendida Sarah (Sharon Tate) trascina al castello gli stralunati vampire killers Abronsius (Jack MacGowran) e Alfred (Polanski), timidamente innamorato della ragazza. Gli affascinanti bagliori azzurrini della fotografia au grand air di Douglas Slocombe si mutano nelle tinte cinerine e malinconiche del castello, che parlano di morte, di muffa, di immemorabile tirannia: a differenza del conte Dracula che (marxista senza saperlo) lascia la Transilvania per la Londra industriale in espansione, il conte von Krolock è legato a un feudalesimo arcaico. Il film è attraversato da una corrente di sessualità negata, frustrata e contorta, coerente col senso di attrazione/paura nei confronti della donna presente nel cinema di Polanski. I vampiri - come quello omosessuale della scena più famosa e più divertente del film - mimano una sessualità che non posseggono. I loro piaceri sono algidi e intellettuali: la lettura, la conversazione, gli scacchi, i formalismi sociali, come il gran ballo finale, assurda cerimonia meccanica, trionfo del grottesco polanskiano. E i cacciatori di vampiri soccombono: nello svagato intellettuale Abronsius, sosia di Einstein, Polanski mostra umoristicamente il fallimento della ragione positivista del Van Helsing di Dracula. E’ il trionfo della morte e del gelo sulla vita - facilmente collegabile alla concezione polanskiana di un fragile universo continuamente minacciato dall’assurdo e dalla malvagità.