mercoledì 22 dicembre 2021

Diabolik

Marco e Antonio Manetti

Più audace dei colpi di Diabolik è il film Diabolik dei fratelli Marco e Antonio Manetti. Lo ha già detto la critica più avveduta (cito solo un'eccellente recensione di Gianni Canova su welovecinema.it): portando sullo schermo un fumetto degli anni '60, e traendolo principalmente dal numero 3, L'arresto di Diabolik (nota per inciso che la discussione su Diabolik all'inizio del film è ispirata a quella del primo episodio del fumetto, che a sua volta si ispirava a quella che apre il primo romanzo di Fantômas), i Manetti hanno avuto il sangue freddo di confezionare, non solo un film ambientato nei '60, ma proprio (un fumetto e) “un film popolare degli anni '60”. E vicino (a parte la differenza di mezzi), più che al Diabolik pop di Mario Bava, a Kriminal di Umberto Lenzi e Il marchio di Kriminal di Fernando Cerchio.
Vale la pena di annotare alcuni dei tratti che lo caratterizzano come tale. I colori piuttosto spenti. La grafica delle scritte, dall'inizio alla fine (anzi, alla “Fine”, che compare al centro dell'immagine del mare in campo lunghissimo). L'improntitudine con cui nella città francese di Ghenf – una pseudo Costa Azzurra che è Trieste – c'è scritto “Acqua di Ghenf” sui tombini, in italiano come il “Polizia di Clerville” che vediamo sulle auto. L'assurdità di location riconoscibilissime (Trieste, Milano), o l'architettura di epoca fascista in cui ha sede il Ministero della Giustizia di Clerville. Anche – un dettaglio che tutti gli uomini avranno notato – la veloce esposizione della nudità di Eva Kant quando entra nel bagno: il taglio dell'inquadratura è esattamente quello che avremmo visto in un film del 1963. Pure l'uso quasi oppressivo dello split screen nella scena del colpo nella banca rientra perfettamente nella logica dei '60 come apprendimento di massa delle avanguardie, all'incirca come nel godardismo popolarizzato di Col cuore in gola di Tinto Brass.
Certo, i fratelli Manetti non mancano di inserire tocchi del loro spirito surreale: vedi un'esecuzione con la ghigliottina tenuta davanti al Palazzo di Giustizia, ove al posto del tradizionale tamburo c'è un flic che batte colpi di grancassa. Però anche questo si attaglia bene all'atmosfera surreale del cinema popolare italiano di quegli anni. E circa i mirabolanti passaggi segreti di Diabolik, con pezzi di paesaggio che si sollevano ad aprire gallerie, è stato menzionato il primo James Bond, ma è più esatto dire che ricordano i simil-Bond italiani del decennio. Non agente 007 (Sean Connery) ma agente 077 (Ken Clark) e compagnia.
Diabolik è un true fake, realizzato con una decisione e una sfacciataggine che sono stupefacenti in un film dagli intenti apertamente commerciali. Alle quali il pubblico ha risposto, pare, con discreto successo, anche se ovvio che non si deve tanto all'operazione metafilmica quanto alla trama gialla robusta (del tutto irreale ma robusta), che poi è quella tipica degli albi delle sorelle Giussani.
Questa qualità di falso cosciente è una specie di licenza per i realizzatori, che permette di far entrare nel film senza che strida un direttore delle carceri dall'accento napoletano – per forza, è il grande Antonino Iuorio – o un commissario della polizia locale più emiliano di Gianni Morandi.
Bisogna ricordare che nei primi fumetti di Diabolik alle trame irreali ma abbastanza compatte delle sorelle Giussani si contrapponeva un disegno “di servizio”, notevolmente povero, con noiosi retini. Niente a che vedere con i bianco/neri pieni di ombre, “espressionisti”, di Magnus e prosecutori nella serie concorrente di Kriminal (nota che i film citati di Lenzi e Cerchio non fanno il minimo tentativo di replicarli). I tre interpreti principali del film (Luca Marinelli/Diabolik, Miriam Leone/Eva Kant, Valerio Mastandrea/Ginko) riportano senza la minima preoccupazione l'esteriorità algida e la natura monodimensionale dei personaggi del fumetto. Solo Miriam Leone, che è la migliore in campo, la sviluppa con intelligenza senza mai uscire dal suo compito.
Stabilito che il film è molto divertente, resta da osservare che è come una specie di object trouvé, che porta con sé una sensazione di irrepetibilità eroica. In questo senso, potremmo paragonarlo al diamante rosa che Eva getta in mare alla fine del racconto. Sono in lavorazione due sequel, ma è difficile pensare a una serie di film anni '60 come questo – anche se è vero che oggi i sequel si inseriscono in una logica seriale a formare una sorta di mega-film a puntate. Ma è più facile prevedere che in futuro i film di Diabolik debbano aprire a un movimento in direzione dell'ordine narrativo contemporaneo.
Ma per il gusto di un'ipotesi oziosa, quale potrebbe essere il futuro di una trascrizione cinematografica di Diabolik? A parte la folle cavalcata pop (forse anch'essa difficilmente continuabile!) di Mario Bava? Diabolik (il fumetto) mostra nei primi numeri come caratteristica evidentissima la filiazione diretta dal Fantômas (in Italia senza accento circonflesso) di Allain e Souvestre, e non parlo semplicemente della calzamaglia nera. Il gusto di Diabolik per le stragi (il panfilo di Terrore sul mare, il treno de Il treno della morte) viene dritto dalla ferocia fredda e totale, surrealista senza volerlo (e infatti ai surrealisti quei romanzi piacevano molto) di Fantômas. Alcune trovate – la morte dell'uomo legato al battacchio della campana, i guanti con i polpastrelli di un cadavere – vengono pure da Allain e Souvestre. Anche il rapporto fra Ginko e il suo amico Gustavo è quello dei romanzi tra Juve e Fandor. E' possibile che questa filiazione, tutt'altro che estranea al gusto dei Manetti, indichi una strada per il futuro?

 

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