Marco e Antonio Manetti
Più
audace dei colpi di Diabolik è il film Diabolik
dei fratelli Marco e Antonio Manetti. Lo ha già detto la critica più
avveduta (cito solo un'eccellente recensione di Gianni Canova su
welovecinema.it): portando sullo schermo un fumetto degli anni '60, e
traendolo principalmente dal numero 3, L'arresto di
Diabolik (nota per inciso che la
discussione su Diabolik all'inizio del film è ispirata a quella del
primo episodio del fumetto, che a sua volta si ispirava a quella che
apre il primo romanzo di Fantômas),
i Manetti hanno avuto il sangue freddo di confezionare, non solo un
film ambientato nei '60, ma proprio (un fumetto e) “un film
popolare degli anni '60”. E vicino (a parte la differenza di
mezzi), più che al Diabolik
pop di Mario Bava, a Kriminal
di Umberto Lenzi e Il marchio di Kriminal
di Fernando Cerchio.
Vale la pena di
annotare alcuni dei tratti che lo caratterizzano come tale. I colori
piuttosto spenti. La grafica delle scritte, dall'inizio alla fine
(anzi, alla “Fine”, che compare al centro dell'immagine del mare
in campo lunghissimo). L'improntitudine con cui nella città francese
di Ghenf – una pseudo Costa Azzurra che è Trieste – c'è scritto
“Acqua di Ghenf” sui tombini, in italiano come il “Polizia di
Clerville” che vediamo sulle auto. L'assurdità di location
riconoscibilissime (Trieste, Milano), o l'architettura di epoca
fascista in cui ha sede il Ministero della Giustizia di Clerville. Anche
– un dettaglio che tutti gli uomini avranno notato – la veloce
esposizione della nudità di Eva Kant quando entra nel bagno: il
taglio dell'inquadratura è esattamente quello che avremmo visto in
un film del 1963. Pure l'uso quasi oppressivo dello split screen
nella scena del colpo nella banca rientra perfettamente nella logica
dei '60 come apprendimento di massa delle avanguardie, all'incirca
come nel godardismo popolarizzato di Col cuore in gola
di Tinto Brass.
Certo, i fratelli
Manetti non mancano di inserire tocchi del loro spirito surreale:
vedi un'esecuzione con la ghigliottina tenuta davanti al Palazzo di
Giustizia, ove al posto del tradizionale tamburo c'è un flic che
batte colpi di grancassa. Però anche questo si attaglia bene
all'atmosfera surreale del cinema popolare italiano di quegli anni. E
circa i mirabolanti passaggi segreti di Diabolik, con pezzi di
paesaggio che si sollevano ad aprire gallerie, è stato menzionato il
primo James Bond, ma è più esatto dire che ricordano i simil-Bond
italiani del decennio. Non agente 007 (Sean Connery) ma agente 077
(Ken Clark) e compagnia.
Diabolik
è un true fake,
realizzato con una decisione e una sfacciataggine che sono
stupefacenti in un film dagli intenti apertamente commerciali. Alle
quali il pubblico ha risposto, pare, con discreto successo, anche se
ovvio che non si deve tanto all'operazione metafilmica quanto alla
trama gialla robusta (del tutto irreale ma robusta), che poi è
quella tipica degli albi delle sorelle Giussani.
Questa
qualità di falso cosciente è una specie di licenza per i
realizzatori, che permette di far entrare nel film senza che strida
un direttore delle carceri dall'accento napoletano – per forza, è
il grande Antonino Iuorio – o un commissario della polizia locale
più emiliano di Gianni Morandi.
Bisogna ricordare che
nei primi fumetti di Diabolik alle trame irreali ma abbastanza
compatte delle sorelle Giussani si contrapponeva un disegno “di
servizio”, notevolmente povero, con noiosi retini. Niente a che
vedere con i bianco/neri pieni di ombre, “espressionisti”, di
Magnus e prosecutori nella serie concorrente di Kriminal (nota che i
film citati di Lenzi e Cerchio non fanno il minimo tentativo di
replicarli). I tre interpreti principali del film (Luca
Marinelli/Diabolik, Miriam Leone/Eva Kant, Valerio Mastandrea/Ginko)
riportano senza la minima preoccupazione l'esteriorità algida e la
natura monodimensionale dei personaggi del fumetto. Solo Miriam
Leone, che è la migliore in campo, la sviluppa con intelligenza
senza mai uscire dal suo compito.
Stabilito che il film è
molto divertente, resta da osservare che è come una specie di object
trouvé, che porta con sé una sensazione di irrepetibilità
eroica. In questo senso, potremmo paragonarlo al diamante rosa che
Eva getta in mare alla fine del racconto. Sono in lavorazione due
sequel, ma è difficile pensare a una serie di film anni '60 come
questo – anche se è vero che oggi i sequel si inseriscono in una
logica seriale a formare una sorta di mega-film a puntate. Ma è più
facile prevedere che in futuro i film di Diabolik debbano aprire a un
movimento in direzione dell'ordine narrativo contemporaneo.
Ma per il gusto di
un'ipotesi oziosa, quale potrebbe essere il futuro di una
trascrizione cinematografica di Diabolik? A parte la folle cavalcata
pop (forse anch'essa difficilmente continuabile!) di Mario Bava?
Diabolik (il fumetto) mostra nei primi numeri come
caratteristica evidentissima la filiazione diretta dal Fantômas
(in Italia senza accento circonflesso) di Allain e Souvestre, e
non parlo semplicemente della calzamaglia nera. Il gusto di Diabolik
per le stragi (il panfilo di Terrore sul mare, il treno de Il
treno della morte) viene dritto dalla ferocia fredda e totale,
surrealista senza volerlo (e infatti ai surrealisti quei romanzi
piacevano molto) di Fantômas. Alcune trovate – la morte dell'uomo
legato al battacchio della campana, i guanti con i polpastrelli di un
cadavere – vengono pure da Allain e Souvestre. Anche il rapporto
fra Ginko e il suo amico Gustavo è quello dei romanzi tra Juve e
Fandor. E' possibile che questa filiazione, tutt'altro che estranea
al gusto dei Manetti, indichi una strada per il futuro?
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