mercoledì 23 febbraio 2011

Another Year

Mike Leigh

Costruire un film sullo svolgimento delle stagioni vuol dire mettere a confronto due temporalità differenti – la salda continuità del tempo cronologico e della natura contro la mutevole, isterica esistenza umana. “Another Year” dell'ottimo Mike Leigh si divide in quattro episodi: Primavera, Estate, Autunno, Inverno. A proposito di questi è stato giustamente fatto il nome di Cechov – non minimalismo ma un senso tragico quieto e trattenuto. Non cui sono scene madri (di morte o di separazione o all'opposto di innamoramento), bensì i loro riflessi: vige quella che potremmo chiamare una drammaturgia del giorno dopo - che si concretizza attraverso una recitazione sommessa, di mirabile realismo, e una regia di assoluta precisione. Mike Leigh è un maestro del primissimo piano; le sue inquadrature bloccate sul volto, che lo esplorano con uno sguardo di radiografia psicologica, silenziosamente aggiungono al realismo della situazione una risonanza fatta di dolorosa intensità.
Il film narra quattro weekend nella casa di un'anziana coppia, Tom e Gerry (proprio così: hanno dovuto imparare a conviverci, dicono), visitata da amici o parenti. I possibili legami simbolici fra le stagioni e il racconto, se pure si possono individuare senza cadere nella soggettività, sono estremamente tenui – coll'eccezione dell'inverno, che è la stagione della morte, della riflessione e del pentimento, e proprio a questi temi l'episodio è dedicato.
“Another Year” è un film sul dolore, un film su cui aleggia un senso di sconfitta. Le lente, pesanti dissolvenze in nero che concludono ogni episodio hanno qualcosa di netto e definitivo: non in relazione alla stagione (perché il tempo è per natura continuo, ciò ch'è simboleggiato nell'orto di Tom e Gerry) ma alla sequenza, come un rintocco finale. Esse rafforzano quindi la tensione implicita fra l'elemento della continuità (la natura, il calendario, l'esistenza, la “storia” in svolgimento) e il carattere netto e staccato degli episodi stessi; è proprio questo carattere scandito a potenziarne il carattere drammatico e a modo loro emblematico.
Un tema quasi ossessivo è quello dell'invecchiamento. Tom e Gerry (Jim Broadbent e Ruth Sheen), sorta di Filemone e Bauci della piccola borghesia inglese, hanno abbastanza saggezza e moderazione da vivere felicemente, ma non a tutti è dato di raggiungere questo: o perché i loro desideri sono confusi e immoderati, come per la loro amica Mary, o semplicemente perché “Non sempre la vita è generosa” (Tom a Mary parlando dell'amico ubriacone Ken). Invero Tom e Gerry potrebbero essere la stessa coppia di “High Hopes” (1988) molti anni dopo – e guarda caso l'attrice è la stessa, Ruth Sheen. Mike Leigh pare sempre a un passo dal far traboccare il suo sguardo simpatetico verso la coppia nel territorio del politically correct – ma la sua bravura è di non varcare mai quel confine. Così i due sono esseri umani, con difetti, non due poster didattici. Tom talvolta mostra un filo di malignità, Gerry, psicologa, ha un fondo un po' severo; possono essere, sebbene amabilmente, due rompipalle.
Mai quanto altri, comunque! L'amica Mary (Lesley Manville: in un film pieno di interpretazioni monumentali, fra cui ricordiamo Imelda Staunton, la sua è la migliore di tutte) è un magnifico quadro, pietosamente credibile, di donna sconfitta, disperata per essere solitaria e al contempo piena di velleità (l'automobile che si compra come sogno di evasione - “Mi sento come Thelma e Louise” - diventa un vero personaggio del film). Nella triste scena di dialogo in cui si pongono le basi di una rottura di Mary coi vecchi amici, man mano che l'ostilità e l'imbarazzo aumentano, compaiono primissimi piani sempre più forti, e opprimenti al massimo, giacché vi si riflette il contesto. E' una rottura che, nell'ultimo episodio, forse verrà recuperata, e forse no -
sublime il lento, drammatico movimento di macchina che gira attorno al tavolo rivelando a uno a uno i commensali e solo alla fine Mary, sulla cui presenza eravamo incerti. E forse nascerà una storia, accennata solo in un paio di sguardi e nel fantasma di un sorriso, col fratello vedovo di Tom, e forse no. Non per nulla il film finisce con una lunga inquadratura fissa su Mary, muta, prima della dissolvenza finale. Col che arriviamo a capire che Mary è diventata vera protagonista del film, mentre Gerry e Tom provvedono lo sfondo; e infatti, di tutte le vite che si concentrano in questa casa accanto alla coppia, è l'unico personaggio ritornante in tutti i quattro episodi. Et pour cause. Sebbene si realizzi qui (con scorno di Mary!) un fidanzamento, sebbene Tom e Gerry vivano bene la loro vita per quant'è umanamente possibile, tuttavia è il dolore di vivere che stende la sua ragnatela su tutte le stagioni.

domenica 13 febbraio 2011

Il Discorso del Re

Tom Hooper

Un re poteva essere balbuziente finché non c'era la radio (non fu la balbuzie di Carlo I a indurre i traditori puritani a decapitarlo), ma da quando i mezzi di comunicazione di massa hanno imposto il loro impero sul mondo saper dominare il microfono (e poi “bucare lo schermo” in tv) è diventato fondamentale. A questo il bel film inglese “Il Discorso del Re” di Tom Hooper dedica qualche riflessione, affidata alla burbera saggezza di Giorgio V (Michael Gambon): “Siamo diventati attori”. Ma basicamente l'ottima sceneggiatura di David Seidler si concentra sull'aspetto soggettivo della questione. Albert Frederick Arthur George, duca di York e poi Re Giorgio VI (in seguito all'abdicazione del fratello Edoardo VIII a causa del suo legame con la divorziata americana Wallis Simpson), è afflitto da una pesante balbuzie; sarebbe già un problema grave per il secondo in linea di successione, in una Gran Bretagna sotto la minaccia di Hitler e di Stalin, ma diventa tragico man mano che gli eventi portano lui verso una corona non desiderata e il suo Paese verso la guerra.
Albert Frederick eccetera (Colin Firth) è chiamato dagli intimi Bertie – proprio come (pensiero irriverente ma inevitabile) il Bertie Wooster dei racconti e romanzi di Wodehouse, costretto dall'educazione aristocratica a mantenere uno stiff upper lip contro tutte le debolezze e gli smarrimenti che lo obbligano a ricorrere di continuo al suo deus ex machina Jeeves. Naturalmente il dramma umano e storico del duca di York, che sarà un grande Re, non ha a che fare con la farsa wodehousiana; ma qualcosa in comune c'è. Alla base dell'insicurezza del principe sta un'infanzia che non augureremmo al nostro peggior nemico: i tormenti di una tata ostile, la costrizione di “stecche di metallo” per raddrizzare le gambe, il fatto di essere stato costretto, lui mancino, a usare la destra (si dice che lo stesso sia accaduto a Lewis Carroll, anche lui balbuziente) – nonché il peso della severa presenza del padre. Il film mostra la dolcezza di Bertie verso le figlie bambine (in futuro la Regina Elisabetta II e la principessa Margaret); tornando a casa in frac fa il pinguino per loro; ciò si pone in evidente opposizione all'austerità del suo ruolo pubblico, ma anche rispetto al padre: non ci immaginiamo Re Giorgio V che imita un pinguino per i figli. L'amore “moderno” per le figlie è il modo di Bertie di protestare contro l'infanzia che ha vissuto.
Su suggerimento della moglie, la duchessa di York (Helena Bonham Carter), lo scoraggiato Bertie ricorre alle cure di un logopedista australiano assai poco ortodosso, Lionel Logue (Geoffrey Rush), aspirante attore shakespeariano mancato, che come si scoprirà più tardi non è neppure medico - ma è un genio. I suoi metodi sono all'opposto di quelli classicheggianti (i sassolini di Demostene) dei dottori paludati. Accanto agli esercizi fisici costringe Bertie a cantare quello che non riesce a dire (“Certo che non stavo farfugliando: cantavo!”) e a sparare parolacce per liberarsi. E' interessante come queste cure rappresentino una sorta di succedaneo dell'analisi: la cura della nevrosi attraverso la cura della parola, invece che il contrario. Tempestosa relazione, quella fra i due! Ma così il Re sarà in grado di assolvere attraverso la sua voce al suo ruolo di guida morale dell'Inghilterra in guerra.
Anche la preparazione del suo discorso più bello - “In this grave hour...” - sotto la cura di Logue è una specie di riassunto del suo insegnamento, con canto e parolacce (“In questa grave ora fottiti fottiti fottiti”). E' la storia vista dal buco della serratura, certo; ma a parte il fatto che ciò è sempre divertente, il film sviluppa il suo argomento con misura e amabilità, e uno spirito di simpatia, in senso etimologico, che lo eleva. E' un film molto umano; basta vedere come “stringe” sulle umiliazioni, mostra un uso pudico delle ellissi.
In questa complicata associazione fra il principe e il plebeo il dialogo assume toni deliziosi, inglesi fino al midollo. Prima visita della duchessa a Logue, in incognito: “A mio marito si richiede di parlare in pubblico” - “Forse dovrebbe cambiare lavoro” - “Non può” - “Un contratto da apprendista?” - “Sì, qualcosa del genere”. Lo stile cinematografico tradizionale, con la sua insistenza sul campo/controcampo nel dialogo, serve a questa dimensione di semi-commedia. Perché “Il Discorso del Re” non appartiene di per sé a tale categoria, ma col suo tono caldo e il dialogo brillante ne lascia l'impronta nello spirito. Non è bello come “The Queen” di Frears, ma è assai gradevole e splendidamente interpretato (Firth, Bonham Carter, Rush sono eccezionali). E' un film di attori, senza dubbio, di azione drammaturgica, possiamo anche dire un film teatrale; ma non è questa una specialità del cinema inglese? Dialogo vivido, piacevolissimo, personaggi ben stagliati, ben caratterizzati: non ci sarebbe da stupirsi se diventasse in futuro un play da portare sui palcoscenici di Londra.
Così il discorso del re cementerà l'unità nazionale, rappresentata solennemente nelle inquadrature finali degli ascoltatori alla radio (anche una nobildonna con intorno la servitù, tutti sullo stesso piano accanto all'apparecchio). Un miracolo – che non è mito ma è realtà storica. E allora anche “In questa grave ora fottiti fottiti fottiti” assume un senso provvidenziale.