Mike Leigh
Costruire un film sullo svolgimento delle stagioni vuol dire mettere a confronto due temporalità differenti – la salda continuità del tempo cronologico e della natura contro la mutevole, isterica esistenza umana. “Another Year” dell'ottimo Mike Leigh si divide in quattro episodi: Primavera, Estate, Autunno, Inverno. A proposito di questi è stato giustamente fatto il nome di Cechov – non minimalismo ma un senso tragico quieto e trattenuto. Non cui sono scene madri (di morte o di separazione o all'opposto di innamoramento), bensì i loro riflessi: vige quella che potremmo chiamare una drammaturgia del giorno dopo - che si concretizza attraverso una recitazione sommessa, di mirabile realismo, e una regia di assoluta precisione. Mike Leigh è un maestro del primissimo piano; le sue inquadrature bloccate sul volto, che lo esplorano con uno sguardo di radiografia psicologica, silenziosamente aggiungono al realismo della situazione una risonanza fatta di dolorosa intensità.
Il film narra quattro weekend nella casa di un'anziana coppia, Tom e Gerry (proprio così: hanno dovuto imparare a conviverci, dicono), visitata da amici o parenti. I possibili legami simbolici fra le stagioni e il racconto, se pure si possono individuare senza cadere nella soggettività, sono estremamente tenui – coll'eccezione dell'inverno, che è la stagione della morte, della riflessione e del pentimento, e proprio a questi temi l'episodio è dedicato.
“Another Year” è un film sul dolore, un film su cui aleggia un senso di sconfitta. Le lente, pesanti dissolvenze in nero che concludono ogni episodio hanno qualcosa di netto e definitivo: non in relazione alla stagione (perché il tempo è per natura continuo, ciò ch'è simboleggiato nell'orto di Tom e Gerry) ma alla sequenza, come un rintocco finale. Esse rafforzano quindi la tensione implicita fra l'elemento della continuità (la natura, il calendario, l'esistenza, la “storia” in svolgimento) e il carattere netto e staccato degli episodi stessi; è proprio questo carattere scandito a potenziarne il carattere drammatico e a modo loro emblematico.
Un tema quasi ossessivo è quello dell'invecchiamento. Tom e Gerry (Jim Broadbent e Ruth Sheen), sorta di Filemone e Bauci della piccola borghesia inglese, hanno abbastanza saggezza e moderazione da vivere felicemente, ma non a tutti è dato di raggiungere questo: o perché i loro desideri sono confusi e immoderati, come per la loro amica Mary, o semplicemente perché “Non sempre la vita è generosa” (Tom a Mary parlando dell'amico ubriacone Ken). Invero Tom e Gerry potrebbero essere la stessa coppia di “High Hopes” (1988) molti anni dopo – e guarda caso l'attrice è la stessa, Ruth Sheen. Mike Leigh pare sempre a un passo dal far traboccare il suo sguardo simpatetico verso la coppia nel territorio del politically correct – ma la sua bravura è di non varcare mai quel confine. Così i due sono esseri umani, con difetti, non due poster didattici. Tom talvolta mostra un filo di malignità, Gerry, psicologa, ha un fondo un po' severo; possono essere, sebbene amabilmente, due rompipalle.
Mai quanto altri, comunque! L'amica Mary (Lesley Manville: in un film pieno di interpretazioni monumentali, fra cui ricordiamo Imelda Staunton, la sua è la migliore di tutte) è un magnifico quadro, pietosamente credibile, di donna sconfitta, disperata per essere solitaria e al contempo piena di velleità (l'automobile che si compra come sogno di evasione - “Mi sento come Thelma e Louise” - diventa un vero personaggio del film). Nella triste scena di dialogo in cui si pongono le basi di una rottura di Mary coi vecchi amici, man mano che l'ostilità e l'imbarazzo aumentano, compaiono primissimi piani sempre più forti, e opprimenti al massimo, giacché vi si riflette il contesto. E' una rottura che, nell'ultimo episodio, forse verrà recuperata, e forse no -
sublime il lento, drammatico movimento di macchina che gira attorno al tavolo rivelando a uno a uno i commensali e solo alla fine Mary, sulla cui presenza eravamo incerti. E forse nascerà una storia, accennata solo in un paio di sguardi e nel fantasma di un sorriso, col fratello vedovo di Tom, e forse no. Non per nulla il film finisce con una lunga inquadratura fissa su Mary, muta, prima della dissolvenza finale. Col che arriviamo a capire che Mary è diventata vera protagonista del film, mentre Gerry e Tom provvedono lo sfondo; e infatti, di tutte le vite che si concentrano in questa casa accanto alla coppia, è l'unico personaggio ritornante in tutti i quattro episodi. Et pour cause. Sebbene si realizzi qui (con scorno di Mary!) un fidanzamento, sebbene Tom e Gerry vivano bene la loro vita per quant'è umanamente possibile, tuttavia è il dolore di vivere che stende la sua ragnatela su tutte le stagioni.
mercoledì 23 febbraio 2011
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1 commento:
Another Year, non ho trovato accenno nel tuo scritto, è lo spietato sguardo sulla "sacralità" della famiglia, una sacralità vissuta dall'interno e protetta, a discapito di tutto ciò che non è comprensivo in/per essa, e difesa da quella frase lapidaria calata netta come una ghigliottina : "è la mia famiglia". Racchiudendo tutto il senso dello scorrere delle stagioni e della loro vita familiare, è sufficiente all'algida glaciale Gerri, per difendere la possibilità dell'insidia al suo adulto figliolo, da parte della sfatta amica Mary. Son felice di condividere con te l'apprezzamento della lenta panoramica a rotazione finale, l'ho trovata un vero capolavoro per infilarsi nello sguardo perduto nel nulla di un another year per Mary. Giovanna Zorzenon
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