domenica 26 luglio 2015

Babadook

Jennifer Kent

I protagonisti degli horror americani d'oggi si dividono in tre categorie: a) moglie separata con figli difficili – b) moglie vedova con figli difficili – c) coppia sposata con figli difficili. Scherzi a parte, questo ch'è diventato un luogo comune dell'horror USA viene declinato in maniera piuttosto originale nell'interessante film australiano Babadook, esordio nel lungometraggio di Jennifer Kent (anche autrice della sceneggiatura). In primo luogo per la radicalità. Infatti, per quanto possano rompere l'anima agli sfortunati genitori, i bambini o adolescenti difficili dell'horror americano sono sempre cute, o almeno si rivelano tali quando l'attacco soprannaturale si manifesta. Il superamento dell'orrore coincide con la ricomposizione della famiglia (più o meno come in 2012 di Emmerich la fine del mondo serviva a rimettere insieme due divorziati: il provvidenzialismo americano). Invece in Babadook di cute non c'è proprio niente.
Il tema è quello della famiglia presa in un vortice in una casa-incubo, dove l'orrore dell'entità malefica in qualche misura si fonde con le quattro pareti, come in Sinister o Insidious. Una madre vedova (il marito è morto in un incidente mentre la portava all'ospedale per partorire) deve gestire il suo bambino dai gravissimi problemi comportamentali: isterico, aggressivo, pericoloso per i suoi coetanei, massacrante da conviverci; e nel contempo deve sbarcare il lunario lavorando in un centro per anziani. Compare in casa un lugubre libro illustrato per bambini sul babadook, una sorta di babau (molto bello questo pop-up book realizzato per il film da Alex Juhasz); non stupisce che il bambino cominci a credere alla sua esistenza e la madre soffra per questa ennesima croce. Solo che, va da sé, non è la semplice fantasia di un bambino disturbato.
Fin qui, ordinaria amministrazione. Quello che è degno di nota (e francamente disturbante) è il realismo duro e concreto: il bambino è una creatura insopportabile; né la madre (Essie Davis), col suo viso volpino e devastato, veste la sua sofferenza di quell'eleganza sciupata – e alquanto posticcia – che siamo abituati a vedere nelle attrici americane. Non sarebbe sbagliata per questo film la definizione di “horror sgradevole”: dipinge due persone borderline in tutta la realtà della loro condizione; sicché nei loro confronti lo spettatore può sentire – per così dire – un'empatia di situazione, ma non certo psicologica. Nota spoilerante: parlo anche della madre perché è a lei che toccherà nello sviluppo la possessione e quindi la mostruosità; cosa peraltro anticipata dai riferimenti ai cartoni animati del lupo cattivo presenti nel film fin dall'apertura. Shining? Certo - dichiaratamente. E non è privo di eleganza questo rovesciamento da bambino orribile e madre sofferente al suo esatto contrario.
Ora noi sappiamo che negli horror dietro la storia c'è un'altra storia; l'horror serve principalmente a tirar fuori ciò che abbiamo dentro. Esprime il non detto, anzi, il non dicibile delle relazioni. In Babadook c'è un grumo inesprimibile di aggressività che la madre si porta dentro nei confronti del bambino, non perché le rende la vita impossibile ma a livelli più profondi: come sentiamo in una drammatica “confessione” avrebbe preferito che fosse morto lui al posto del marito; ma è solo la possessione da parte di un'entità mostruosa che fa uscire questo sentimento oscuro. Per inciso, è ovvio che proprio l'intuizione di questa rabbia inespressa (anzi, negata, e celata sotto le premure) sta alla base dei problemi psichici del bambino.
Lo scivolare nella disperazione è contestualmente un lento scivolare nella pazzia, e una svolta stupefacente alla fine del film (che non svelerò) mi sembra coerente con questa ipotesi di lettura. Anche se, mi affretto ad aggiungere, il mostro “esiste”, nel senso che la sua esistenza viene postulata oggettivamente nel racconto. E', questa conclusione imprevista, un superamento? La risposta va lasciata allo spettatore. Certo che raramente mi è capitato di vedere, negli ultimi anni, un “falso finale” rassicurante così convincente come quello che precede il finale vero (alludo al secondo incontro con gli assistenti sociali).
Jennifer Kent, che ha studiato con Lars Von Trier, non sembra possedere una visione ottimistica dell'umanità, come mostra il dettaglio di sguincio degli orribili bambini che litigano al fast food. L'autrice ha una buona capacità narrativa; Babadook è molto intessuto, e va spesa una parola per i montaggi di frenetico zapping tv della madre disperata, comprendente immagini che vanno da Mèliès al nostro Mario Bava – non senza apparizioni del Babadook che vi si introduce, oggettivamente o soggettivamente che sia. Molto resta di ambiguo: i pezzi di vetro nella zuppa, per esempio, saranno davvero un brutto scherzo del Babadook come sostiene il bambino? E che dire del rapporto di identificazione fra il Babadook e il marito morto (interessante che il Babadook parli del proprio “buffo travestimento” nelle pagine del libro da cui tutto sembra originare)? Davvero l'horror ci canta e ci ricanta sempre la stessa canzone: de te fabula narratur. 
 

venerdì 10 luglio 2015

Oltre il guado

Lorenzo Bianchini

Potrebbe essere il film migliore di Lorenzo Bianchini il bellissimo Oltre il guado (che, dopo alcune presentazioni in sedi specializzate, solo dopo una lunga attesa esce in Italia in un dvd Cecchi Gori. Per questo pubblico solo adesso la presente recensione).
Presentando il film al Visionario di Udine nel 2013 il regista dichiarava che nel suo “minimalismo narrativo” Oltre il guado si situa in continuità di atmosfera col precedente Occhi. E tuttavia, a mio parere, questo film risolve brillantemente la contraddizione che segnava Occhi, tra il gusto di Bianchini per un horror legato all'ambiguità e alla soggettività dei personaggi (un horror che si potrebbe dire lewtoniano) e l'esigenza del racconto di enunciare un quid, un “che cosa” su cui organizzarsi. Mentre Occhi un po' si perdeva – seppure nobilmente – nel suo parti pris, Oltre il guado riesce magnificamente a coniugare la poetica di Bianchini e la concretezza del racconto, il quid orrorifico degli avvenimenti e l'ambiguità della visione.
Trattandosi di un film horror (il regista preferisce parlare di un film sulla solitudine; ma c'è poi tanta differenza?), sarebbe antipatico anticipare, ma si può dire che il film presenta una coppia di gemelle (bambine/adulte) spettrali, in confronto alle quali le gemelle di Shining sembrano Shirley Temple e la sua sorellina. E' la storia di un etologo che resta bloccato durante le sue rilevazioni solitarie fra le colline fra Friuli e Slovenia; ove naturalmente il passaggio del fiume è come quello di un ponte, ovvero è un passare di là entrando in un mondo dove sono all'opera forze oscure. Passato il guado (che poi verrà ingrossato dalla pioggia che accompagna ossessiva il film), l'uomo si volta a guardare indietro con espressione preoccupata; sul piano diegetico è la paura che il fiume si gonfi bloccandolo; su quello simbolico (o della premonizione inconscia) è lo sguardo alla terra firma che ha abbandonato entrando nel regno dei fantasmi (come non ricordare la famosa didascalia apocrifa del Nosferatu di Murnau).
Se in Occhi c'era lo sguardo del terrore (la frase “Mi guardano”, declinata in varie forme, era il Leitmotiv del film), Oltre il guado è un film sul terrore dello sguardo. Come sempre la domanda sottesa all'horror è: voglio veramente vedere? Perché lo sguardo è un mezzo di difesa, vuole identificare, riconoscere la minaccia – ma è la nudità dello sguardo che ci fa riconoscere la nudità del corpo, la sua vulnerabilità.
Lo sguardo in Oltre il guado viene declinato in quattro forme. 1) il racconto oggettivo della narrazione - 2) la soggettiva del personaggio (come quando si aggira fra i teli di plastica in una stanza maledetta) - 3) il POV mobile di una telecamera che l'etologo ha applicato al collo di una volpe - 4) il POV fisso delle telecamere che il protagonista attacca agli alberi per studiare la fauna del luogo, e che “vedono” più di quanto dovrebbero. La prima apparizione delle due gemelle appartiene a questo quarto modo, e nel suo fisso contiene di conseguenza una concretezza documentaria che esclude l'allucinazione – quindi, una ineluttabilità.
Merita aggiungere che nelle riprese notturne, grainy, di questa telecamera a raggi infrarossi gli occhi degli animali, come i cinghiali, appaiono come punti di luce scintillanti; nel che non c'è niente di strano, ma quando più avanti il filmato cattura l'immagine delle spettrali gemelle, la mera contingenza fotografica dei loro occhi scintillanti viene ripresa e giocata in chiave orrorifica.
Bloccato, il protagonista esplora un villaggio deserto. Oltre il guado è costruito su una interconnessione di spazi, cooperanti all'unisono alla costruzione di una tensione crescente. Il primo è lo spazio aperto del bosco, dove la mdp di Bianchini cattura con evidenza veramente fisica la grigia e tersa umidità del bosco stillante. All'opposto stanno gli spazi interni delle case vuote, dove Bianchini sfrutta al meglio l'effetto di quel bric-à-brac di vecchie cose che vi si trovano; pare una sinestesia, allo sguardo sembra di sentire l'odore di muffa dei vecchi abiti, degli armadi e cassettoni, delle cucine abbandonate, dei banchi di una tetra scuola. La disperata solitudine degli oggetti.
Come medio fra i due opposti si pongono gli esterni del paese vuoto (la location di questi esterni è stata fornita da Topolò), che congiungono in sé la fredda solitudine degli esterni nella natura e il senso di umanità abbandonata degli interni nelle case.
C'è un segreto, naturalmente, come nel para-lovecraftiano Custodes Bestiae, e altrettanto orribile, ma meno spostato verso la peripezia tradizionale dell'horror. Una caratteristica di Bianchini che è un suo punto di forza (certo debitore a Dario Argento, al Bava di Operazione paura, a Pupi Avati, ma elaborato con eccellenti risultati evocativi) è quello che altrove ho chiamato “horror antiquario” - appunto, il fascino malato delle vecchie cose ammuffite. Ma a ben vedere, pure le due gemelle fantasma, sebbene ancora presenti e mortalmente pericolose, appartengono a quella congerie di cose passate e appassite rappresentata dal paese. Non per nulla, al di là di scarne dichiarazioni sul filo della memoria (“Anche i cani avevano paura di loro”... “Non eravamo più sicuri neanche nelle nostre case”...), quel poco di ambigua backstory che ci è fornito è affidato a forme di registrazione dell'immagine non meno vetuste degli oggetti: vecchie foto, vecchi filmati in formato amatoriale. Come tutti gli spettri le due gemelle sono un passato che non passa.
Molto ben interpretato da Renzo Gariup, Oltre il guado (sceneggiato da Lorenzo e Michela Bianchini, fotografato da Daniele Trani e montato dal regista) si basa sul potere delle suggestioni auditive, con un magnifico montaggio del suono di Davide Piotto, dove il linguaggio umano – italiano e sloveno – ha un ruolo secondario. Le gocce della pioggia incessante battono sui mobili dentro le case diroccate; è come se l'acqua fosse manifestazione della malignità primordiale e oscura che avvolge la zona.
Questo film di stupefacente tensione lavora molto sul movimento suggerito e supposto - c'è sempre qualcosa fuori dal campo visivo. Il film si svolge in una spirale di penosa rivelazione, offuscata e incompleta, del passato. La lentezza è la base del lavoro del protagonista etologo: osservare il comportamento animale attraverso le telecamere, decodificarne pazientemente i segni. Ora, anche l'entrata dell'orrore nella sua esistenza sembra realizzarsi attraverso la stessa forma lenta e indiretta dello studio degli animali – con in più l'angoscia. L'occhio che guarda adesso ha paura.