I
protagonisti degli horror americani d'oggi si dividono in tre
categorie: a) moglie separata con figli difficili – b) moglie
vedova con figli difficili – c) coppia sposata con figli difficili.
Scherzi a parte, questo ch'è diventato un luogo comune dell'horror
USA viene declinato in maniera piuttosto originale nell'interessante
film australiano Babadook,
esordio nel lungometraggio
di
Jennifer Kent (anche autrice della sceneggiatura). In primo luogo per
la radicalità. Infatti, per quanto possano rompere l'anima agli
sfortunati genitori, i bambini o adolescenti difficili dell'horror
americano sono sempre cute,
o almeno si rivelano tali quando l'attacco soprannaturale si
manifesta. Il superamento dell'orrore coincide con la ricomposizione
della famiglia (più o meno come in 2012
di Emmerich la fine del mondo serviva a rimettere insieme due
divorziati: il provvidenzialismo americano). Invece in Babadook
di cute
non c'è proprio niente.
Il
tema è quello della famiglia presa in un vortice in una casa-incubo,
dove l'orrore dell'entità malefica in qualche misura si fonde con le
quattro pareti, come in Sinister
o Insidious.
Una madre vedova (il marito è morto in un incidente mentre la
portava all'ospedale per partorire) deve gestire il suo bambino dai
gravissimi problemi comportamentali: isterico, aggressivo, pericoloso
per i suoi coetanei, massacrante da conviverci; e nel contempo deve
sbarcare il lunario lavorando in un centro per anziani. Compare in
casa un lugubre libro illustrato per bambini sul babadook,
una sorta di babau (molto bello questo pop-up
book
realizzato per il film da Alex Juhasz); non stupisce che il bambino
cominci a credere alla sua esistenza e la madre soffra per questa
ennesima croce. Solo che, va da sé, non è la semplice fantasia di
un bambino disturbato.
Fin
qui, ordinaria amministrazione. Quello che è degno di nota (e
francamente disturbante) è il realismo duro e concreto: il bambino è
una creatura insopportabile; né la madre (Essie Davis), col suo viso
volpino e devastato, veste la sua sofferenza di quell'eleganza
sciupata – e alquanto posticcia – che siamo abituati a vedere
nelle attrici americane. Non sarebbe sbagliata per questo film la
definizione di “horror sgradevole”: dipinge due persone
borderline
in tutta la realtà della loro condizione; sicché nei loro confronti
lo spettatore può sentire – per così dire – un'empatia di
situazione, ma non certo psicologica. Nota spoilerante: parlo anche
della madre perché è a lei che toccherà nello sviluppo la
possessione e quindi la mostruosità; cosa peraltro anticipata dai
riferimenti ai cartoni animati del lupo cattivo presenti nel film fin
dall'apertura. Shining?
Certo - dichiaratamente. E non è privo di eleganza questo
rovesciamento da bambino orribile e madre sofferente al suo esatto
contrario.
Ora
noi sappiamo che negli horror dietro la storia c'è un'altra storia;
l'horror serve principalmente a tirar fuori ciò che abbiamo dentro.
Esprime il non detto, anzi, il non dicibile delle relazioni. In
Babadook
c'è un grumo inesprimibile di aggressività che la madre si porta
dentro nei confronti del bambino, non perché le rende la vita
impossibile ma a livelli più profondi: come sentiamo in una
drammatica “confessione” avrebbe preferito che fosse morto lui al
posto del marito; ma è solo la possessione da parte di un'entità
mostruosa che fa uscire questo sentimento oscuro. Per inciso, è
ovvio che proprio l'intuizione di questa rabbia inespressa (anzi,
negata, e celata sotto le premure) sta alla base dei problemi
psichici del bambino.
Lo scivolare nella
disperazione è contestualmente un lento scivolare nella pazzia, e
una svolta stupefacente alla fine del film (che non svelerò) mi
sembra coerente con questa ipotesi di lettura. Anche se, mi affretto
ad aggiungere, il mostro “esiste”, nel senso che la sua esistenza
viene postulata oggettivamente nel racconto. E', questa conclusione
imprevista, un superamento? La risposta va lasciata allo spettatore.
Certo che raramente mi è capitato di vedere, negli ultimi anni, un
“falso finale” rassicurante così convincente come quello che
precede il finale vero (alludo al secondo incontro con gli assistenti
sociali).
Jennifer
Kent, che ha studiato con Lars Von Trier, non sembra possedere una
visione ottimistica dell'umanità, come mostra il dettaglio di
sguincio degli orribili bambini che litigano al fast food. L'autrice
ha una buona capacità narrativa; Babadook
è molto intessuto, e va spesa una parola per i montaggi di frenetico
zapping tv della madre disperata, comprendente immagini che vanno da
Mèliès al nostro Mario Bava – non senza apparizioni del Babadook
che vi si introduce, oggettivamente o soggettivamente che sia. Molto
resta di ambiguo: i pezzi di vetro nella zuppa, per esempio, saranno
davvero un brutto scherzo del Babadook come sostiene il bambino? E
che dire del rapporto di identificazione fra il Babadook e il marito
morto (interessante che il Babadook parli del proprio “buffo
travestimento” nelle pagine del libro da cui tutto sembra
originare)? Davvero l'horror ci canta e ci ricanta sempre la stessa
canzone: de
te fabula narratur.