giovedì 26 febbraio 2015

Shaun, vita da pecora - Il film

Mark Burton e Richard Starzak

La Aardman (la geniale compagnia inglese di animatori in claymation, ossia l'animazione in stop motion di pupazzi in plastilina) ci aveva già dato Galline in fuga; ora ci dà “Pecore all'attacco” col bellissimo Shaun, vita da pecora – Il film, di Mark Burton e Richard Starzak, che estende per il cinema la serie tv Shaun the Sheep. E' sempre pericoloso passare dalla dimensione dell'episodio breve a quella del lungometraggio, e con Wallace e Gromit qualche calo di tensione si avvertiva nel pur divertentissimo La maledizione del coniglio mannaro. In questo caso invece c'è una felicità narrativa continua; la sceneggiatura, di Burton e Starzak, è estremamente connessa: ogni sviluppo nasce con naturalezza da quello precedente e apre la strada al prossimo con (folle) logicità.
Possiamo vedere nel mondo di Shaun una reminiscenza in chiave comico-farsesca de La fattoria degli animali di Orwell? Certo è un cortocircuito che scatta inevitabile nella memoria, quando vediamo le pecore coalizzarsi per ingannare il padrone o i maiali (che sono i bad guys della serie) sollazzarsi e ingozzarsi dopo essere penetrati in casa. Ma Shaun rovescia in una fantasia sorridente e aerea la cupa allegoria di Orwell; né il suo Farmer, il fattore miope, somiglia al Jones orwelliano, ipostasi del capitalismo e dello zarismo. E' Buster Keaton più che Orwell a dettare il ritmo e la morale.
A questo proposito, val la pena di ricordare che Shaun dimostra ancora una volta la forza insopprimibile del cinema muto. Nel film il linguaggio è fatto di rumori animali (nel biglietto lasciato dalla cagna Slip a Shaun, di guaiti che sentiamo in voce over mentre la pecora legge), e per l'inglese degli esseri umani una sorta di grammelot; ma la comunicazione è tutta affidata alla mimica e al linguaggio del corpo; tanto più un tour de force in Shaun in quanto - come osservava un animatore della Aardman in una intervista - le pecore non hanno sopracciglia da usare a scopo espressivo.
Quasi un O rus! oraziano, Shaun rappresenta e confronta due luoghi e due dimensioni dell'Inghilterra: il mondo bucolico della piccola fattoria e la grande città – dove la messa in scena della Aardman coglie con realismo fotografico i diversi aspetti del mix culturale. Il film narra la spedizione delle pecore e del cane Bitzer in città (sotto un esilarante travestimento da esseri umani), alla ricerca del Farmer, che come conseguenza di una loro malefatta ha perso la memoria. In città è diventato un parrucchiere di successo – perché nel suo stato rimbecillito l'unica cosa che ricorda è come si tosano le pecore, e il taglio che fa è di gran moda.
Lo humour delle produzioni Aardman si sviluppa su diversi piani, che in parte vogliono anche corrispondere all'appeal verso diverse fasce d'età. Il primo livello è il quadretto di vita, una notazione delle piccole cose del mondo con una capacità di osservazione umoristica estremamente inglese. Su questo si innestano le singole gag, ora fulminanti, di tutta logicità matematico-surreale (e vien da pensare che il loro timing perfetto abbia qualcosa a che fare con la meticolosa lentezza dell'animazione a passo uno), ora deputate a reggere e punteggiare distese sequenze comiche: grandiosa quella del cane Bitzer che s'introduce in ospedale travestito da chirurgo (se ne accorge il paziente in sala operatoria vedendogli la coda, e cerca inutilmente di avvertire, ma viene sedato). Per non dire delle pecore come finti clienti in un ristorante di lusso dal nome memorabile de Le Chou Brûlé! Questi quadri pieni di arguzia poi esplodono in momenti frenetici di diretta derivazione slapstick, in quella specialità aardmaniana che è l'inseguimento. Anche perché alla Aardman adorano le macchine e i marchingegni costruiti con mezzi di fortuna, in cui la memoria cinefila ci spinge ancora a vedere una lontana filiazione dell'ingegneria keatoniana.
Uno degli elementi di fascino del film di questa casa di produzione è l'amore per il cinema che vi si respira dentro. In Shaun è uno splendido tocco di citazionismo cinematografico la descrizione del canile per gli animali catturati dall'accalappiacani, visto come una prigione di massima sicurezza del cinema americano, con riferimenti che vanno da Il terrore corre sul fiume a Il silenzio degli innocenti.
E in questa sezione entra un'immagine che non si dimentica. Quando arriva una coppia per adottare un pet, e tutti questi animali-ergastolani dall'aria minacciosa cercano di darsi un contegno da tenera bestiola nella speranza di essere scelti, vediamo la cagna Slip nella sua cella pregare a zampe giunte; poi, quando i due passano oltre, piange asciugandosi gli occhi con le zampe; è il momento più umano e commovente di tutto il film. Ecco che il dolore leopardiano dell'esistenza e quel senso di fraternità che ne consegue possono trovare albergo anche in una commedia di animali di plastilina. Cos'è che lo attiva? Non semplicemente l'analogia di situazione; è la perfetta corrispondenza evocativa del gesto – non diminuita ma quasi magnificata dall'effetto straniante della deformazione comica. Quel barbaglio così disperatamente umano nella figura grottesca (è la cagna più brutta che si sia mai vista nel cinema o nei cartoon; in confronto il Muttley di Hanna & Barbera è un George Clooney canino) ci prende, potremmo dire, fuori guardia.

martedì 17 febbraio 2015

Turner

Mike Leigh

Purtroppo in Italia pochissimi conoscono le operette vittoriane di Gilbert & Sullivan; così, quando si nomina Mike Leigh, a non molti salta in mente di primo acchito il delizioso Topsy-Turvy, con cui il regista inglese ha disegnato il mondo dei due autori e il loro ritorno al successo con The Mikado. Si tende a pensare a Leigh come un narratore di storie contemporanee; mentre invece è egualmente versato nel biopic d'epoca, come mostra il film citato e come conferma l'ottimo Turner, dedicato al grandissimo pittore inglese e impreziosito da una splendida interpretazione di Timothy Spall.
Fedele al realismo autentico, mai retorico, di Leigh, la figura di Turner ci balza tutt'intera (tridimensionale, vorremmo dire) dalla realtà; il cinema è un'arte visivo-auditiva, ma qui sembra di poter toccare le superfici e annusare gli odori. Leigh ci racconta la materialità del suo soggetto. Descrivere magnificamente la genialità scandalosa, “avanguardistica”, di Turner nel suo modo di lavorare: non dico solo l'episodio delizioso della boa rossa sul mare aggiunta all'ultimo momento al dipinto per far scoppiare di rabbia Constable, ma anche gli sputi con cui ricerca rabbiosamente sulla tela quella indeterminatezza, quella foschia, quella presenza dell'elemento acqueo nell'atmosfera.
La potenza fisica dell'atmosfera avvolge la narrazione storica (“Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi”); però, se pensiamo a un quadro come “Mercanti di schiavi che gettano in mare i morti e i moribondi - Tifone in arrivo”, l'elemento narrativo – e, aggiungerebbe con urgenza Leigh, morale – viene trascritto in pennellate di luce senza esserne annullato.
Mike Leigh trasmette con forza la materialità, della realizzazione artistica ma non solo: anche del lavoro di cucinare o di far la spesa. Lontano da trascendenze romantiche, Leigh riconduce la pittura al suo travaglio materiale e a quello scientifico. “La luce è Dio!” grida Turner morendo: è ottica, non metafisica. Turner (che apre il film e lo chiude mentre disegna avidamente all'aria aperta), prima che una mano che guida il pennello sulla tela, è un occhio che guarda. In una scena assai importante si fa legare, come Ulisse, all'albero di una nave durante una tempesta per “suggere”, in modo quasi famelico, attraverso l'esperienza della visione diretta quello che per un altro pittore dell'epoca sarebbe stato un problema teorico di commistione dei colori.
Non per niente Turner è interessatissimo alla scienza; segue gli esperimenti di Mary Sommerville; e lo vediamo nel film inquietato e affascinato da quella nuova invenzione che è il dagherrotipo. Detto per inciso, l'episodio sintetizza quello shock culturale che provarono i pittori all'apparire di quella nuova tecnica che veniva descritta come una sorta di “disegno automatico” - e poi prenderà il nome di disegno con la luce: fotografia.
Qui si pone un problema: se il film sia perfetto nel trasmettere la forza, il senso profondo, di quella rivoluzione artistica che Turner nel suo periodo più alto mette in atto nel colore e nella forma che in esso si dissolve. Sebbene l'eccellente fotografia di Dick Pope ci restituisca il treno di “Pioggia, vapore e velocità” con effetti assai superiori al solito Kitsch quando il cinema vuol mostrare “l'originale” sullo schermo, c'è da dire che per questo compito ci sarebbe voluto un regista eminentemente visuale, forse Terrence Malick o Herzog o magari Scorsese, laddove Mike Leigh è un regista psicologico e sociale. Così Leigh (ma non possiamo fargliene motivo di critica) ci trasmette la potenza di questa rivoluzione specialmente a contrariis, attraverso la reazione dei contemporanei vittoriani. Compresa una giovane Regina Vittoria, perplessa e ostile quando visita l'esposizione insieme al Principe Alberto, e non capiscono neanche il soggetto del quadro (“Was ist das?” - “Ich weiβ nicht”). Interessante notare che, all'altro polo della scala sociale, la stessa perplessità è dell'umile governante di Turner quando si aggira nello studio. Una scena ci mostra Turner mentre assiste a teatro a una satira del suo modo di dipingere.
In generale Leigh è ottimo nel delineare il quadro sociale, il mondo che circonda il protagonista. Non per la prima volta ci assale il pensiero che questo regista, qualora si trovassero i soldi, saprebbe fare una splendida versione cinematografica o televisiva de Il circolo Pickwick: ne ha la forma mentis e le capacità adatte.
Turner si aggira nella sua casa come un orso ingrugnato, tutto preso dalla sua pittura. Mentre dipinge con tenerezza l'affetto per il padre (Paul Jesson) e l'amore senile con Mrs. Booth (Marion Bailey), Leigh non si tira indietro rispetto ai tratti meno commendevoli dell'uomo: l'estraneazione dalla prima moglie (la regular leighiana Ruth Sheen) e dalle due figlie, o il rapporto profondamente egoistico con la governante e occasionale amante Hannah Danby, visibilmente innamorata di lui; a questo proposito dobbiamo annotare che, in un film unanimemente ben interpretato, la recitazione di Dorothy Atkinson è eccezionale: ha una capacità folgorante di esprimere i suoi sentimenti, neanche con la mimica, ma col corpo, coi movimenti diegetici.
E tuttavia Turner non emerge dal film come un brutale egoista. Anzi, possiamo concordare con l'opinione di Mrs. Booth: “un uomo di grande spirito e squisita sensibilità”; e non è l'illusione di una donna innamorata; questa figura assai dolce tiene nondimeno i piedi per terra. Si può dire che l'egocentrismo di Turner appartiene a quella particolare natura del genio, che sembra indirizzare le vibrazioni del cuore innanzitutto alla sua opera; l'amore in lui si esprime come filtrandosi attraverso se stesso (il tramite materiale dell'opera), per vie chiare solo a colui che lo prova (se da questo volete dedurre che c'è poca soddisfazione personale nello sposare un genio, nessuno vi smentirà). Un uomo innamorato della sua pittura, capace di dimenticare le figlie salvo quando gli si parano davanti, ma anche di rifiutare 100.000 sterline per le sue opere perché vuole regalarle alla nazione britannica. Un uomo, amante delle canzonette e poesie salaci, capace di generosità improvvise e disastrose occlusioni del sentimento.
Anche lui con squisita sensibilità come il suo soggetto, Mike Leigh conclude il film con due donne innamorate che piangono Turner. Mrs. Booth pulisce i vetri della loro casa e si illumina tristemente di un sorriso di ricordo. La serva Hannah, devastata dalla malattia, piange nello studio del pittore. Non può seguire altro che il nero dei titoli di coda.