La
Aardman (la geniale compagnia inglese di animatori in claymation,
ossia l'animazione in stop motion di pupazzi in plastilina) ci aveva
già dato Galline in fuga;
ora ci dà “Pecore all'attacco” col bellissimo
Shaun, vita da pecora – Il film,
di Mark Burton e Richard
Starzak, che estende per il cinema la serie tv Shaun the
Sheep. E' sempre pericoloso
passare dalla dimensione dell'episodio breve a quella del
lungometraggio, e con Wallace e Gromit qualche calo di tensione si
avvertiva nel pur divertentissimo La maledizione del
coniglio mannaro. In questo caso
invece c'è una felicità narrativa continua; la sceneggiatura, di
Burton e Starzak, è estremamente connessa: ogni sviluppo nasce con
naturalezza da quello precedente e apre la strada al prossimo con
(folle) logicità.
Possiamo
vedere nel mondo di Shaun
una reminiscenza in chiave comico-farsesca de La fattoria
degli animali di Orwell? Certo è
un cortocircuito che scatta inevitabile nella memoria, quando vediamo
le pecore coalizzarsi per ingannare il padrone o i maiali (che sono i
bad guys della serie)
sollazzarsi e ingozzarsi dopo essere penetrati in casa. Ma Shaun
rovescia in una fantasia sorridente e aerea la cupa allegoria di
Orwell; né il suo Farmer, il fattore miope, somiglia al Jones
orwelliano, ipostasi del capitalismo e dello zarismo. E' Buster
Keaton più che Orwell a dettare il ritmo e la morale.
A
questo proposito, val la pena di ricordare che Shaun
dimostra ancora una volta la
forza insopprimibile del cinema muto. Nel film il linguaggio è fatto
di rumori animali (nel biglietto lasciato dalla cagna Slip a Shaun,
di guaiti che sentiamo in voce over mentre la pecora legge), e per
l'inglese degli esseri umani una sorta di grammelot; ma la
comunicazione è tutta affidata alla mimica e al linguaggio del
corpo; tanto più un tour de force
in Shaun in quanto -
come osservava un animatore della Aardman in una intervista - le
pecore non hanno sopracciglia da usare a scopo espressivo.
Quasi
un O rus! oraziano,
Shaun rappresenta e
confronta due luoghi e due dimensioni dell'Inghilterra: il mondo
bucolico della piccola fattoria e la grande città – dove la messa
in scena della Aardman coglie con realismo fotografico i diversi
aspetti del mix culturale. Il film narra la spedizione delle pecore e
del cane Bitzer in città (sotto un esilarante travestimento da
esseri umani), alla ricerca del Farmer, che come conseguenza di una
loro malefatta ha perso la memoria. In città è diventato un
parrucchiere di successo – perché nel suo stato rimbecillito
l'unica cosa che ricorda è come si tosano le pecore, e il taglio che
fa è di gran moda.
Lo
humour delle produzioni Aardman si sviluppa su diversi piani, che in
parte vogliono anche corrispondere all'appeal
verso diverse fasce d'età. Il primo livello è il quadretto di vita,
una notazione delle piccole cose del mondo con una capacità di
osservazione umoristica estremamente inglese. Su questo si innestano
le singole gag, ora fulminanti, di tutta logicità
matematico-surreale (e vien da pensare che il loro timing
perfetto abbia qualcosa a che fare con la meticolosa lentezza
dell'animazione a passo uno), ora deputate a reggere e punteggiare
distese sequenze comiche: grandiosa quella del cane Bitzer che
s'introduce in ospedale travestito da chirurgo (se ne accorge il
paziente in sala operatoria vedendogli la coda, e cerca inutilmente
di avvertire, ma viene sedato). Per non dire delle pecore come finti
clienti in un ristorante di lusso dal nome memorabile de Le Chou
Brûlé! Questi quadri pieni di arguzia poi esplodono in momenti
frenetici di diretta derivazione slapstick, in
quella specialità aardmaniana che è l'inseguimento. Anche perché
alla Aardman adorano le macchine e i marchingegni costruiti con mezzi
di fortuna, in cui la memoria cinefila ci spinge ancora a vedere una
lontana filiazione dell'ingegneria keatoniana.
Uno
degli elementi di fascino del film di questa casa di produzione è
l'amore per il cinema che vi si respira dentro. In Shaun
è uno splendido tocco di citazionismo cinematografico la descrizione
del canile per gli animali catturati dall'accalappiacani, visto come
una prigione di massima sicurezza del cinema americano, con
riferimenti che vanno da Il terrore corre sul fiume
a Il silenzio degli innocenti.
E
in questa sezione entra un'immagine che non si dimentica. Quando
arriva una coppia per adottare un pet,
e tutti questi animali-ergastolani dall'aria minacciosa cercano di
darsi un contegno da tenera bestiola nella speranza di essere scelti,
vediamo la cagna Slip nella sua cella pregare a zampe giunte; poi,
quando i due passano oltre, piange asciugandosi gli occhi con le
zampe; è il momento più umano e commovente di tutto il film. Ecco
che il dolore leopardiano dell'esistenza e quel senso di fraternità
che ne consegue possono trovare albergo anche in una commedia di
animali di plastilina. Cos'è che lo attiva? Non semplicemente
l'analogia di situazione; è la perfetta corrispondenza evocativa del
gesto – non
diminuita ma quasi magnificata dall'effetto straniante della
deformazione comica. Quel barbaglio così disperatamente umano nella
figura grottesca (è la cagna più brutta che si sia mai vista nel
cinema o nei cartoon; in confronto il Muttley di Hanna & Barbera
è un George Clooney canino) ci prende, potremmo dire, fuori guardia.