Magnifiche
Giornate del Cinema Muto di Pordenone... Quando è stato annunciato
che l'edizione 2019 si sarebbe aperta con Chaplin, The Kid,
non sarò stato l'unico a pensare “Diavolo, Il monello lo
conosco a memoria, il valore aggiunto sarà semplicemente
l'orchestra!” –
e invece avevo torto. Anche
se lo conosciamo a memoria rivederlo è sempre un benefico
choc.
L'inglese
Chaplin
viene da Dickens: gli ambienti poveri, la vita delle strade, la
misera soffitta, che peraltro lui stesso aveva conosciuto quando
viveva in povertà a Londra. L'accuratezza della messa in scena
incontra il rigore dell'esecuzione: Chaplin è geometrico – non nel
senso dell'altro gigante, Keaton, ma nel senso del balletto. Non per
niente The
Kid
culmina nella strabiliante coreografia fantastica del "Paese dei
sogni". Chaplin è la perfezione del movimento. E anche le parti
commoventi – la solitudine della ragazza madre all'inizio e la
grande sequenza tragica in cui il bambino viene "Bibbianato"
- non rispondono semplicemente al gusto dell'epoca (e dell'autore)
per il patetico ma mantengono tuttora una verità umana assoluta.
Lo
stesso discorso della notorietà si può fare per il film che ha
chiuso il festival, The
Lodger
di Alfred J. Hitchcock, che
abbiamo potuto rivedere in una copia stupenda: un
assoluto
capolavoro dell'Hitchcock muto. Come dimenticare il dettaglio delle
teste-occhi nei finestrini del furgone, idea geniale benché
realizzata un po' alla “come viene viene” (la riprenderà in
forma perfetta, molti anni dopo, Jacques Tati). Oppure il famoso
trucco del soffitto di vetro per rendere visivamente il suono dei
passi del misterioso “pensionante” al piano di sopra. Dal memorabile inizio “espressionista” alla prima apparizione di Ivor
Novello in puro stile Nosferatu, immediatamente questo film è un
“nodo alla gola”.
L'Orchestra
San Marco di Pordenone ha provvisto uno splendido accompagnamento per
entrambi i film nonché per Oblomok
imperii
a metà settimana.
Sempre
fra i classici restaurati, le Giornate hanno presentato la consueta
ricca collana, dal Faust
di Murnau a Joan
the Woman
di De Mille, da Padre
Sergio
di Protazanov a Chusingura
di Shozo Makino, e poi l'introvabile Gardiens
de
phare
di Jean Grémillon (purtroppo presentato a un'ora impossibile per noi
pendolari e lo stesso vale per El
último
malón
di
Alcides Greca).
Vorrei soffermarmi su due film.
Nella
“tendenza di sinistra” del cinema cinese degli anni Trenta (di
cui sono esempi Le sventure del pesco
e del pruno di Ying Yunwei o I
bachi da seta di Cheng Bugao),
realistica e sociale, rientra il bellissimo Fen
Dou (“La lotta”, 1932) di Shi
Dongshan, considerato a lungo perduto Basta vedere l'inizio con i
suoi raffinati e sicuri movimenti di macchina per capire che siamo
nell'ambito del cosiddetto “grande muto”, in cui l'arte
cinematografica muta aveva raggiunto la sua massima fioritura. Per
questa magnifica regia, a ragione il catalogo delle Giornate allega i
nomi di Murnau e Pudovkin. Ma la notevolissima costruzione a piani di
Fen Dou,
con un edificio (o meglio due) “in sezione” dove la mdp salendo o
scendendo in moto verticale segue i personaggi che passano da un
piano all'altro, ricorda direttamente un capolavoro del cinema
americano del 1927: Settimo cielo di
Frank Borzage.
Fridrich
Markovič Ermler è uno dei grandi nomi del cinema sovietico, il suo
Oblomok imperii,
“Frammenti di un impero”, del 1929. Con un inizio alla Dovženko
e una prosecuzione in chiave di dramma psicologico ma con dei
montages
vertiginosi fra Ejzenštejn e Vertov, il film mette in scena una
specie di Rip van Winkle sovietico nella persona di un soldato che
durante la prima guerra mondiale ha perso la memoria ed è rimasto
per anni in una fattoria di campagna. Quando ritrova la memoria parte
per la sua città, San Pietroburgo – e quando arriva non riconosce
più né gli edifici, ora modernissimi, né i rapporti sociali
(ignora che c'è stata la rivoluzione). Ermler narra il suo
adattamento alla nuova società, che culmina quando si libera della
sua medaglia zarista regalandola a un trovarobato teatrale. Ma c'è
ancora molto da cambiare, dice il film, sul piano dei rapporti umani,
specie quelli familiari. Oblomok
imperii è assai coraggioso per la
sua epoca. Basta dire che la figura più negativa e ridicola non è
il logoro babau del Nepman,
come ci aspetteremmo, ma un viscido burocrate del genere di quelli
che stavano completando la loro conquista del potere. Ma il fine
umorismo che traspare nelle pieghe della tessitura drammatica non è
solo satirico. Voglio menzionare solo la trovata più spassosa. Il
protagonista dunque lavora in fabbrica nella Russia comunista. Arriva
a visitare la fabbrica una commissione per la sicurezza (protezione)
contro gli incidenti sul lavoro – e in russo protezione si dice
ochrana.
Quando lui sente il nome della commissione pensa subito che sia
l'Ochrana, la polizia segreta dell'epoca zarista – e siccome su un
mobile c'è una copia della Pravda,
si affretta a nasconderla!
Ma
hanno diritto al nome di classici anche alcune grandi riscoperte del
cinema americano mainstream.
Sally, Irene and Mary
di Edmund Goulding, del 1925, è il primo film importante di Joan
Crawford (Irene), mentre le altre due interpreti sono Constance
Bennett (Sally) e la stupefacente Sally O'Neil (Mary). Misto
di dramma e di commedia, è un film vivace e commovente sulle
ballerine di Broadway, con tre ragazze irlandesi che devono fare i
conti con quell'ambiente pericoloso. La morte di una delle
protagoniste in un incidente stradale incrociata col testo a pieno
schermo di un suo telegramma inviato al teatro, testo che risulta
cupamente ominous,
è un superbo pezzo di retorica hollywoodiana.
Da notare che, in
questo film che si svolge nell'ambiente degli spettacoli, le
scenografie sono di Cedric Gibbons (con Merrill Pye) e i costumi
delle ballerine sono disegnati addirittura da Erté (non
accreditato!). Un elemento che oggi appare ancora più
divertente che all'epoca è uno slang popolaresco molto Anni Venti
(“I am in awful Dutch”, “Sono nei guai”). In aggiunta al
dialogo brillante, il côté comico è provvisto da due madri
irlandesi dirimpettaie (le sperimentate caratteriste Aggie Herring e
Kate Price) così spassose che si vorrebbe vedere un intero film
dedicato a loro.
Il
cinema, e prima del cinema il teatro, ha sempre amato la figura della
donna travestita da uomo. Mentre l'uomo in vesti femminili viene per
lo più usato a scopi comici, la donna in vesti maschili tocca
risonanze profonde incarnando il mito dell'androgino. Nella deliziosa
commedia “ruritana” Beverly of
Graustark di Sidney Franklin (1926),
interpretata da quella meravigliosa comedienne
che è Marion Davies, gli americani Oscar e Beverly (sua cugina)
partono per il reame di Graustark dove Oscar ha ereditato il trono.
Ma Oscar resta temporaneamente immobilizzato per un incidente di sci.
Non si può rimandare l'arrivo perché il generale Marlanax (Roy
D'Arcy) trama con tutta la verve dei migliori "biechi" del
cinema, e allora Beverly/Marion Davies deve travestirsi da uomo e
spacciarsi per il cugino.
Il guaio è che questa ragazza/uomo si
innamora della sua fascinosa guardia del corpo (Antonio Moreno), che
frequenta di giorno come principe e di notte come misteriosa dama
mascherata. Il giorno e la notte. E il bello è, naturalmente, che
durante l'arrischiato rapporto che ha luogo di giorno corre una
corrente omosessuale segreta che è la caratteristica e il maggior
fascino di tutto questo genere di film.
Non
è mancato un interessantissimo Lubitsch, Der
Stolz der Firma ("L'orgoglio
della ditta"), del 1914, diretto da Carl Wilhelm e interpretato
come attore dal giovane Ernst Lubitsch. Questi aveva cominciato
interpretando personaggi ebrei (come in Meyer
aus Berlin)
con quell'atteggiamento auto-denigratorio che è una componente
importante dell'umorismo ebraico. Qui il giovane Siegmund, figlio di
Solomon, si fa licenziare dalla ditta e scappa a Berlino. Sudicio e
malvestito riesce a farsi assumere in una ditta di mode – e contro
ogni aspettativa, grazie a un misto di faccia tosta e fiducia in se
stesso, fa carriera fino a diventare direttore e sposare la figlia
del capo.
Quel che è affascinante è che sembra una regia di
Lubitsch senza Lubitsch. Il suo uso dell'innuendo,
il modo di coinvolgere lo spettatore al limite della complicità,
l'uso delle barriere alla visione, come qui un tendaggio ricorrente,
sono tutti tratti che ritroveremo nei film di Lubitsch del primo
periodo e poi, affinati, nella carriera hollywoodiana. Carl Wilhelm
aveva già collaborato con Lubitsch, e chiaramente il giovane genio
lascia un'impronta sul film ben al di là dell'interpretazione.
Uno
degli eroi delle Giornate 2019 è stato
Reginald Denny. Le
Giornate, dedicandogli una sezione, hanno riportato alla luce questo
raffinato attore comico, nato in Inghilterra e trasferitosi in
America dopo la prima guerra mondiale. Attore, sì – ma fu anche
sceneggiatore, regista, cantante, pugilatore (infatti i suoi primi
successi al cinema furono in ruoli di pugile), pilota d'aviazione,
nonché inventore: sviluppò un primo esemplare di drone, usato
dall'esercito nella seconda guerra mondiale come bersaglio aereo per
le esercitazioni.
Il clou della sezione Denny è stato la
divertentissima commedia What
Happened to Jones, 1926,
diretta da William A. Seiter, che è stato preceduto nella serata
dalla superba prima comica insieme di Laurel & Hardy Duck
Soup (la
stessa idea sarà rifatta anni dopo come Another
Fine Mess,
con James Finlayson nella parte del padrone di casa). What
Happened to Jones
– dove Reginald Denny ha una perfetta “spalla” nel grasso Otis
Harlan – è una farsa in cui il protagonista, che deve sposarsi
l'indomani, deve fuggire assieme al suo amico dall'inseguimento dei
poliziotti (sono stati beccati a giocare d'azzardo), con tutta una
serie di travestimenti, prima da donna – un must
delle farse – e poi da dignitoso vescovo protestante. Nessuna
filiazione diretta (e poi la commedia originale è di fine Ottocento)
ma come affezionato lettore di Wodehouse mi sono trovato a casa!
Un
altro degli eroi è stato il divo dei western William S. Hart, the
grim cowboy, come l'ho visto definire in un manifesto d'epoca. Il
volto cupo e magnetico di Hart è perfetto per dar vita ai suoi
personaggi duri, tormentati, e tutt'altro che morali (sono banditi e
via dicendo): l'esatto contrario di Broncho Billy o Tom Mix.
Personaggi che si redimono per amore, e a volte trovano una nuova
vita grazie a una fuga spericolata (l'emozionante finale di The
Narrow Trail) ma altre volte – come alla fine di In the Sage
Brush Country – dopo aver salvato la ragazza si allontanano da
soli sotto il peso della colpa.
Largo
spazio al femminile in questa edizione. C'erano le attrici comiche
europee delle origini, le nasty
women
che
abbiamo
già apprezzato in passato, coi loro personaggi distruttivi,
Léontine, Cunégonde, Rosalie, Lea; ma anche dive degli anni Dieci
come Suzanne Grandais e Mistinguett. Come contraltare non è mancata
una rassegna dello slapstick
maschile europeo e americano, con nomi illustri quali Max Linder e
Karl Valentin, e anche con sorprese come il geniale Not
Guilty!
di Harry Sweet (1926) con Charles Puffy – chi mai lo conosceva?
Anche
John M. Stahl è ritornato dopo i fasti dell'anno scorso. Abbiamo
visto un frammento della commedia drammatica The Wanters
(l'unica bobina sopravvissuta) e The Woman Under Oath. Questo
film del 1919, misto di film giudiziario e melodramma, è assai
interessante per il contenuto (la prima donna giurato in un processo
a New York) e anticipa bizzarramente La parola ai giurati di
Sidney Lumet. Tuttavia alcune ingenuità di costruzione arrivano a
far pensare che sarebbe stato meglio l'inverso: che possedessimo
tutto The Wanters e una bobina di The Woman Under Oath.
Infine
Grock dans
/ Son premier film,
del 1926, diretto da Jean Kemm, è un “veicolo”, come si suol
dire, per il grandissimo clown Grock (1880-1959). Ma non è una
raccolta dei suoi numeri circensi bensì un'autentica commedia, che
mette in luce le sue grandi capacità mimiche. Il film di Grock si
lega al piccolo realismo francese degli anni Venti, con la sua
gentilezza di tocco e il suo uso intenso delle fisionomie. Quando
dopo una prima parte rurale Grock si sposta a Parigi (con cane e
scimmietta ammaestrata), è molto bella la prima descrizione della
città agli occhi di un provinciale smarrito, con notazioni quasi
topografiche (“Dopo aver percorso tutto il Lungosenna si trova in Boulevard Sebastopoli”). Col prosieguo questo sguardo “ingenuo”
si perde un po', ma in compenso abbiamo una gustosa descrizione
semiparodistica del cinema dell'epoca.
Nota in margine: è
impossibile che Jacques Tati (la cui carriera in teatro inizia nei
primi anni trenta) non abbia imparato molto dal controllo del corpo e
dalla mimica di Grock, pur elaborando un personaggio completamente
differente; di più, vedo un'interessante anticipazione di Jour
de fête (Tati 1947-48) nella
cordiale descrizione della gente di paese all'inizio di Grock
dans /
Son premier film – e non lo dico
perché a un certo punto compare un postino!
Tutto
questo è solo una parte del bagaglio di novità delle Giornate 2019
(una menzione in extremis per il cinema dell'Estonia).
Insomma, quando arriva la prossima edizione?