domenica 3 novembre 2019

Giornate del Cinema Muto di Pordenone 2019


Magnifiche Giornate del Cinema Muto di Pordenone... Quando è stato annunciato che l'edizione 2019 si sarebbe aperta con Chaplin, The Kid, non sarò stato l'unico a pensare “Diavolo, Il monello lo conosco a memoria, il valore aggiunto sarà semplicemente l'orchestra!” e invece avevo torto. Anche se lo conosciamo a memoria rivederlo è sempre un benefico choc.
L'inglese
Chaplin viene da Dickens: gli ambienti poveri, la vita delle strade, la misera soffitta, che peraltro lui stesso aveva conosciuto quando viveva in povertà a Londra. L'accuratezza della messa in scena incontra il rigore dell'esecuzione: Chaplin è geometrico – non nel senso dell'altro gigante, Keaton, ma nel senso del balletto. Non per niente The Kid culmina nella strabiliante coreografia fantastica del "Paese dei sogni". Chaplin è la perfezione del movimento. E anche le parti commoventi – la solitudine della ragazza madre all'inizio e la grande sequenza tragica in cui il bambino viene "Bibbianato" - non rispondono semplicemente al gusto dell'epoca (e dell'autore) per il patetico ma mantengono tuttora una verità umana assoluta.
Lo stesso discorso della notorietà si può fare per il film che ha chiuso il festival, The Lodger di Alfred J. Hitchcock, che abbiamo potuto rivedere in una copia stupenda: un assoluto capolavoro dell'Hitchcock muto. Come dimenticare il dettaglio delle teste-occhi nei finestrini del furgone, idea geniale benché realizzata un po' alla “come viene viene” (la riprenderà in forma perfetta, molti anni dopo, Jacques Tati). Oppure il famoso trucco del soffitto di vetro per rendere visivamente il suono dei passi del misterioso “pensionante” al piano di sopra. Dal memorabile inizio “espressionista” alla prima apparizione di Ivor Novello in puro stile Nosferatu, immediatamente questo film è un “nodo alla gola”.
L'Orchestra San Marco di Pordenone ha provvisto uno splendido accompagnamento per entrambi i film nonché per Oblomok imperii a metà settimana.

Sempre fra i classici restaurati, le Giornate hanno presentato la consueta ricca collana, dal Faust di Murnau a Joan the Woman di De Mille, da Padre Sergio di Protazanov a Chusingura di Shozo Makino, e poi l'introvabile Gardiens de phare di Jean Grémillon (purtroppo presentato a un'ora impossibile per noi pendolari e lo stesso vale per El último malón di Alcides Greca). Vorrei soffermarmi su due film.
Nella “tendenza di sinistra” del cinema cinese degli anni Trenta (di cui sono esempi Le sventure del pesco e del pruno di Ying Yunwei o I bachi da seta di Cheng Bugao), realistica e sociale, rientra il bellissimo Fen Dou (“La lotta”, 1932) di Shi Dongshan, considerato a lungo perduto Basta vedere l'inizio con i suoi raffinati e sicuri movimenti di macchina per capire che siamo nell'ambito del cosiddetto “grande muto”, in cui l'arte cinematografica muta aveva raggiunto la sua massima fioritura. Per questa magnifica regia, a ragione il catalogo delle Giornate allega i nomi di Murnau e Pudovkin. Ma la notevolissima costruzione a piani di Fen Dou, con un edificio (o meglio due) “in sezione” dove la mdp salendo o scendendo in moto verticale segue i personaggi che passano da un piano all'altro, ricorda direttamente un capolavoro del cinema americano del 1927: Settimo cielo di Frank Borzage.
Fridrich Markovič Ermler è uno dei grandi nomi del cinema sovietico, il suo Oblomok imperii, “Frammenti di un impero”, del 1929. Con un inizio alla Dovženko e una prosecuzione in chiave di dramma psicologico ma con dei montages vertiginosi fra Ejzenštejn e Vertov, il film mette in scena una specie di Rip van Winkle sovietico nella persona di un soldato che durante la prima guerra mondiale ha perso la memoria ed è rimasto per anni in una fattoria di campagna. Quando ritrova la memoria parte per la sua città, San Pietroburgo – e quando arriva non riconosce più né gli edifici, ora modernissimi, né i rapporti sociali (ignora che c'è stata la rivoluzione). Ermler narra il suo adattamento alla nuova società, che culmina quando si libera della sua medaglia zarista regalandola a un trovarobato teatrale. Ma c'è ancora molto da cambiare, dice il film, sul piano dei rapporti umani, specie quelli familiari. Oblomok imperii è assai coraggioso per la sua epoca. Basta dire che la figura più negativa e ridicola non è il logoro babau del Nepman, come ci aspetteremmo, ma un viscido burocrate del genere di quelli che stavano completando la loro conquista del potere. Ma il fine umorismo che traspare nelle pieghe della tessitura drammatica non è solo satirico. Voglio menzionare solo la trovata più spassosa. Il protagonista dunque lavora in fabbrica nella Russia comunista. Arriva a visitare la fabbrica una commissione per la sicurezza (protezione) contro gli incidenti sul lavoro – e in russo protezione si dice ochrana. Quando lui sente il nome della commissione pensa subito che sia l'Ochrana, la polizia segreta dell'epoca zarista – e siccome su un mobile c'è una copia della Pravda, si affretta a nasconderla!
Ma hanno diritto al nome di classici anche alcune grandi riscoperte del cinema americano mainstream. Sally, Irene and Mary di Edmund Goulding, del 1925, è il primo film importante di Joan Crawford (Irene), mentre le altre due interpreti sono Constance Bennett (Sally) e la stupefacente Sally O'Neil (Mary). Misto di dramma e di commedia, è un film vivace e commovente sulle ballerine di Broadway, con tre ragazze irlandesi che devono fare i conti con quell'ambiente pericoloso. La morte di una delle protagoniste in un incidente stradale incrociata col testo a pieno schermo di un suo telegramma inviato al teatro, testo che risulta cupamente ominous, è un superbo pezzo di retorica hollywoodiana.
Da notare che, in questo film che si svolge nell'ambiente degli spettacoli, le scenografie sono di Cedric Gibbons (con Merrill Pye) e i costumi delle ballerine sono disegnati addirittura da Erté (non accreditato!). Un elemento che oggi appare ancora più divertente che all'epoca è uno slang popolaresco molto Anni Venti (“I am in awful Dutch”, “Sono nei guai”). In aggiunta al dialogo brillante, il côté comico è provvisto da due madri irlandesi dirimpettaie (le sperimentate caratteriste Aggie Herring e Kate Price) così spassose che si vorrebbe vedere un intero film dedicato a loro.
Il cinema, e prima del cinema il teatro, ha sempre amato la figura della donna travestita da uomo. Mentre l'uomo in vesti femminili viene per lo più usato a scopi comici, la donna in vesti maschili tocca risonanze profonde incarnando il mito dell'androgino. Nella deliziosa commedia “ruritana” Beverly of Graustark di Sidney Franklin (1926), interpretata da quella meravigliosa comedienne che è Marion Davies, gli americani Oscar e Beverly (sua cugina) partono per il reame di Graustark dove Oscar ha ereditato il trono. Ma Oscar resta temporaneamente immobilizzato per un incidente di sci. Non si può rimandare l'arrivo perché il generale Marlanax (Roy D'Arcy) trama con tutta la verve dei migliori "biechi" del cinema, e allora Beverly/Marion Davies deve travestirsi da uomo e spacciarsi per il cugino.
Il guaio è che questa ragazza/uomo si innamora della sua fascinosa guardia del corpo (Antonio Moreno), che frequenta di giorno come principe e di notte come misteriosa dama mascherata. Il giorno e la notte. E il bello è, naturalmente, che durante l'arrischiato rapporto che ha luogo di giorno corre una corrente omosessuale segreta che è la caratteristica e il maggior fascino di tutto questo genere di film.
Non è mancato un interessantissimo Lubitsch, Der Stolz der Firma ("L'orgoglio della ditta"), del 1914, diretto da Carl Wilhelm e interpretato come attore dal giovane Ernst Lubitsch. Questi aveva cominciato interpretando personaggi ebrei (come in Meyer aus Berlin) con quell'atteggiamento auto-denigratorio che è una componente importante dell'umorismo ebraico. Qui il giovane Siegmund, figlio di Solomon, si fa licenziare dalla ditta e scappa a Berlino. Sudicio e malvestito riesce a farsi assumere in una ditta di mode – e contro ogni aspettativa, grazie a un misto di faccia tosta e fiducia in se stesso, fa carriera fino a diventare direttore e sposare la figlia del capo.
Quel che è affascinante è che sembra una regia di Lubitsch senza Lubitsch. Il suo uso dell'
innuendo, il modo di coinvolgere lo spettatore al limite della complicità, l'uso delle barriere alla visione, come qui un tendaggio ricorrente, sono tutti tratti che ritroveremo nei film di Lubitsch del primo periodo e poi, affinati, nella carriera hollywoodiana. Carl Wilhelm aveva già collaborato con Lubitsch, e chiaramente il giovane genio lascia un'impronta sul film ben al di là dell'interpretazione.

Uno degli eroi delle Giornate 2019 è stato Reginald Denny. Le Giornate, dedicandogli una sezione, hanno riportato alla luce questo raffinato attore comico, nato in Inghilterra e trasferitosi in America dopo la prima guerra mondiale. Attore, sì – ma fu anche sceneggiatore, regista, cantante, pugilatore (infatti i suoi primi successi al cinema furono in ruoli di pugile), pilota d'aviazione, nonché inventore: sviluppò un primo esemplare di drone, usato dall'esercito nella seconda guerra mondiale come bersaglio aereo per le esercitazioni.
Il clou della sezione Denny è stato la divertentissima commedia
What Happened to Jones, 1926, diretta da William A. Seiter, che è stato preceduto nella serata dalla superba prima comica insieme di Laurel & Hardy Duck Soup (la stessa idea sarà rifatta anni dopo come Another Fine Mess, con James Finlayson nella parte del padrone di casa). What Happened to Jones – dove Reginald Denny ha una perfetta “spalla” nel grasso Otis Harlan – è una farsa in cui il protagonista, che deve sposarsi l'indomani, deve fuggire assieme al suo amico dall'inseguimento dei poliziotti (sono stati beccati a giocare d'azzardo), con tutta una serie di travestimenti, prima da donna – un must delle farse – e poi da dignitoso vescovo protestante. Nessuna filiazione diretta (e poi la commedia originale è di fine Ottocento) ma come affezionato lettore di Wodehouse mi sono trovato a casa!
Un altro degli eroi è stato il divo dei western William S. Hart, the grim cowboy, come l'ho visto definire in un manifesto d'epoca. Il volto cupo e magnetico di Hart è perfetto per dar vita ai suoi personaggi duri, tormentati, e tutt'altro che morali (sono banditi e via dicendo): l'esatto contrario di Broncho Billy o Tom Mix. Personaggi che si redimono per amore, e a volte trovano una nuova vita grazie a una fuga spericolata (l'emozionante finale di The Narrow Trail) ma altre volte – come alla fine di In the Sage Brush Country – dopo aver salvato la ragazza si allontanano da soli sotto il peso della colpa.

Largo spazio al femminile in questa edizione. C'erano le attrici comiche europee delle origini, le nasty women che abbiamo già apprezzato in passato, coi loro personaggi distruttivi, Léontine, Cunégonde, Rosalie, Lea; ma anche dive degli anni Dieci come Suzanne Grandais e Mistinguett. Come contraltare non è mancata una rassegna dello slapstick maschile europeo e americano, con nomi illustri quali Max Linder e Karl Valentin, e anche con sorprese come il geniale Not Guilty! di Harry Sweet (1926) con Charles Puffy – chi mai lo conosceva?
Anche John M. Stahl è ritornato dopo i fasti dell'anno scorso. Abbiamo visto un frammento della commedia drammatica The Wanters (l'unica bobina sopravvissuta) e The Woman Under Oath. Questo film del 1919, misto di film giudiziario e melodramma, è assai interessante per il contenuto (la prima donna giurato in un processo a New York) e anticipa bizzarramente La parola ai giurati di Sidney Lumet. Tuttavia alcune ingenuità di costruzione arrivano a far pensare che sarebbe stato meglio l'inverso: che possedessimo tutto The Wanters e una bobina di The Woman Under Oath.

Infine Grock dans / Son premier film, del 1926, diretto da Jean Kemm, è un “veicolo”, come si suol dire, per il grandissimo clown Grock (1880-1959). Ma non è una raccolta dei suoi numeri circensi bensì un'autentica commedia, che mette in luce le sue grandi capacità mimiche. Il film di Grock si lega al piccolo realismo francese degli anni Venti, con la sua gentilezza di tocco e il suo uso intenso delle fisionomie. Quando dopo una prima parte rurale Grock si sposta a Parigi (con cane e scimmietta ammaestrata), è molto bella la prima descrizione della città agli occhi di un provinciale smarrito, con notazioni quasi topografiche (“Dopo aver percorso tutto il Lungosenna si trova in Boulevard Sebastopoli”). Col prosieguo questo sguardo “ingenuo” si perde un po', ma in compenso abbiamo una gustosa descrizione semiparodistica del cinema dell'epoca.
Nota in margine: è impossibile che Jacques Tati (la cui carriera in teatro inizia nei primi anni trenta) non abbia imparato molto dal controllo del corpo e dalla mimica di Grock, pur elaborando un personaggio completamente differente; di più, vedo un'interessante anticipazione di
Jour de fête (Tati 1947-48) nella cordiale descrizione della gente di paese all'inizio di Grock dans / Son premier film – e non lo dico perché a un certo punto compare un postino!

Tutto questo è solo una parte del bagaglio di novità delle Giornate 2019 (una menzione in extremis per il cinema dell'Estonia). Insomma, quando arriva la prossima edizione?

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