Maura Delpero
È
stato detto unanimemente,
quando il film è passato
alla Mostra di Venezia vincendo
il Leone d’Argento - Gran Premio della Giuria, che
Vermiglio di Maura Delpero si
inserisce nella linea di Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli,
Torneranno i prati). Ma non nel
senso di derivativo
o imitativo:
questo notevole film,
recitato in dialetto trentino
coi sottotitoli, è un
apporto
attivo e vitale.
Vermiglio
è un
paese povero e
isolato della Val di Sole; l’epoca
è la fine della
seconda guerra mondiale e subito dopo.
Il maestro Graziadei ha dieci
tra figli e figlie; è in freddo col maschio maggiore ma
affettuoso verso le tre
figlie più grandi: la
sfortunata
Lucia, l’inquieta
Ada e la piccola Flavia che è
la più brillante nella scuola elementare. In
questa famiglia di dignitosa povertà (i
due figli maschi
dormono nello stesso letto in posizione invertita),
solo Flavia potrà
continuare gli studi, con
dispiacere di Ada che l’avrebbe voluto.
Lucia si
innamora di un soldato
siciliano rifugiato, Pietro,
e lo sposa;
il matrimonio avrà
una svolta drammatica.
Attorno
a queste
figure, Vermiglio è
un film corale. Ogni
personaggio ha diritto all’attenzione; ogni
personaggio
ha un’autenticità
profonda, che
viene convogliata da un’eccellente
direzione degli attori,
professionisti e non professionisti. Non
c’è
né
arcadia sciocca
né naturalismo brutale nella
descrizione attenta della
vita del paese nel
suo svolgersi, il lavoro, le
chiacchiere, le feste, la
trasgressione segreta nella “ribelle” del paese, i battesimi
e i funerali, gli
interrogativi dei più piccoli sulla morte, la
religione: le preghiere, la confessione, i riti, con la pregnanza
del latino ecclesiastico, con le sue formule conosciute da tutti.
Maura Delpero viene dal
documentarismo, una lezione
che si vedeva anche nel suo
primo film di fiction,
Maternal; la
vivezza con cui emerge la
vita collettiva d’allora
a
Vermiglio (che poi è il paese di nascita del padre della regista) è
debitrice a un occhio “antropologico”. In
un rito popolare nella
parte iniziale del film, è
Lucia a impersonare Santa Lucia, la
portatrice di doni,
condotta
sull’asino con un velo sul viso che la “acceca” come
la santa senza occhi
(curiosità: la melodia del
canto su Santa
Lucia che sentiamo nella
scena è la stessa della
ninnananna friulana Sdrindulaile). Verso
la fine del film,
quando è incinta ed
emerge che il matrimonio è stato una disgrazia, la donne anziane
commentano, fra dispiacere e malignità: “A forza di fare Santa
Lucia è diventata orba anche lei”.
È
tempo di guerra, che
non compare direttamente ma è una presenza costante col
suo carico di dolore, da cui
si torna sconvolti. “Quelli
che tornano dalla guerra hanno i segreti”, dicono
le donne del paese, e Pietro
parlando della vita dei soldati: è “come se sei vivo, però non
proprio”. L’accuratezza
storica ripesca,
per l’aereo “nemico”
che ronza sopra
il paese, il nome “Pippo”,
che con impaurita familiarità
veniva popolarmente
dato
(anche in Friuli) ai solitari
ricognitori alleati.
Mentre
nella maggior parte del cinema italiano i personaggi sono portatori
di giudizi fin dal primo apparire, l’adesione al concreto di Maura
Delpero introduce figure autentiche, cioè complesse. Il miglior
esempio è la figura del maestro (Tommaso Ragno), patriarca in tutti
i sensi che impone ai paesani la linea morale sulla guerra (per cui
Pietro non viene denunciato) e in famiglia è la figura patriarcale
in tutti i sensi (superbo uno scambio di battute fra lui e la moglie
Adele subito dopo il parto di lei). Vediamo la sua interiorità e le
sue contraddizioni; acquista dei dischi di musica classica anche se
non gira denaro in famiglia (“pane per l’anima”, e li userà
anche per le sue lezioni) e quando Ada va a rubare le sigarette nel
suo cassetto vi scopre un album di fotografie di donne nude, che la
turbano, e a cui ritorna più volte, punendosi poi con inconsuete
penitenze.
Nella
fotografia di Michail Kričman
l’aspetto visuale del film
si basa su una sorta di contrappunto fra la
quotidianità dei
volti e degli ambienti in
dialogo con i grandi
paesaggi della montagna - però,
questi, non alieni ma egualmente familiari
ai viventi. È la stessa familiare conoscenza di cui parla Manzoni (ciò non toglie che una panoramica ascendente lungo una cascata possa rappresentare l'idea del suicidio).
Vermiglio
è una storia sul
fluire del tempo, e sui drammi e dolori che vi
si incistano,
come ferite
destinate forse
a cicatrizzarsi e
forse no.
Come (e
anche più che) in Maternal,
Delpero coglie in modo potente
la densità
dei gesti,
degli sguardi, delle parole espresse – in una parola,
l’immediatezza assoluta delle cose.