Tim Burton
Diciamolo
subito: il primo Beetlejuice (1988) resta un unicum, nella sua
combinazione di commedia macabra, scherzi interdimensionali, grafica
outrée (Tim Burton è sempre stato in primo luogo un grande
illustratore). più una solitaria pennellata di musical con Banana
Boat. È una testimonianza del periodo geniale, ormai trascorso, di
Burton. Tuttavia, Beetlejuice Beetlejuice (A.D. 2024, com'è scritto
sotto il titolo nei credits e sui poster) è un film delizioso. È
una reunion; e chi ha detto che un regista non abbia il
diritto di girare una reunion? (Fra l’altro non è la prima volta
che Tim Burton eleva un monumento a se stesso). L’importante è che
questa operazione azzardata sia andata felicemente in porto.
Del
primo Beetlejuice, tutti ricordiamo innanzitutto l’estrema
intelligenza del rapporto fra il villaggio e il modellino che lo
rappresenta – fin dallo splendido inizio: mdp “kubrickiana” che
vola sulla foresta e poi sul villaggio; ragnone enorme che spunta da
dietro una casa; mano che lo prende, dichiarandoci che il ragnone è
un ragnetto e la casa e il villaggio sono un modellino. Ci sono due
film che rendono in modo magistrale la dialettica fra l’originale e
la sua riproduzione in scala ridotta: Shining di Kubrick (1980) e –
non senza citarlo – questo film di Burton del 1988. Merita aggiungere che
il rovesciamento dimensionale, in cui si scambiano il sopra e il
sotto, il dentro e il fuori, o magari il mondo dei morti e quello dei
vivi, è sempre stato il cuore del cinema burtoniano, basato appunto
sul trespassing. Tutto questo rimane in Beetlejuice Beetlejuice, e
infatti nel cimitero del modellino della cittadina (però, se la
memoria non mi inganna, le dimensioni non sono esattamente le stesse
rispetto al primo film) dimora ancora lo schifosissimo essere
eponimo, Betelgeuse alias Beetlejuice. Macrocosmo e microcosmo.
Saggiamente però Tim Burton e i suoi sceneggiatori Alfred Gough e
Miles Millar non ne fanno un punto nodale come nel primo film; la
sorpresa ormai è consumata, non solo nel contesto di questa storia
ma nella filmografia di Burton in generale (Beetlejuice era solo il
suo secondo film).
Invece
Burton sviluppa l’altro asse portante del primo film, che è la
descrizione umoristica del mondo dei morti. Nelle sue varie visioni
dell’oltretomba Burton scatena quel suo amore per i giocattoli
macabri, i fumetti della E.C. Comics, i costumi di Halloween, i ragni
finti attaccati ai vestiti e via dicendo. Vedi in Beetlejuice la
comicissima rassegna dei morti in sala d’aspetto all'aldilà, nel
presente film ripresa e ampliata – forse con una fantasia meno
sfacciata ma sempre debitrice di quell'umorismo gross,
infantil-adolescenziale, che caratterizza l'autore.
Il
pregio di Beetlejuice Beetlejuice è la fedeltà alla concezione
originaria (sembra niente, ma in quest'epoca di abbellimenti insipidi
e odiosi reboot...!). A partire dall’elemento principale.
Beetlejuice era un film di animatronics, quei pupazzi meccanici che
dominarono il cinema horror dei ‘70-’80 (ed erano l'attrazione
dei parchi Disney). Alle prime notizie del sequel, era legittima la
paura che Burton rovinasse tutto buttandosi sulla CGI. Invece ha
fondamentalmente mantenuto gli animatronics con tutto il loro corredo
narrativo/nostalgico (non è sbagliato, pur nella loro diversità,
accostare questa scelta conservatrice al – finto – “passo uno”
di Mars Attacks). La continuità è stata la scelta vincente.
Talvolta,
infatti, al cinema e in letteratura, le prosecuzioni lasciano un
fondo di amarezza – in Dumas, per fare un esempio assai alto –
relativo al modificarsi dei personaggi. Qui il passare del tempo non
li ha rovesciati. Attorno a un Michael Keaton (Beetlejuice) sempre in
forma, e fortunatamente sempre carogna, ruotano Delia/Catherine
O’Hara, sempre ben definita come pseudo-artista contemporanea, e Lydia/Winona Ryder, ora vedova e madre
insicura. Non è difficile ipotizzare perché Jeffrey Jones, Charles
nel primo film, sia stato escluso dal sequel: la sua carriera è
finita dopo le sue condanne per pedopornografia. Infatti Charles si
aggira nell’oltretomba senza testa e senza spalle (mangiate da uno
squalo), quindi senza coinvolgere l’attore (questo è il motivo per
cui un breve flashback sulla sua fine è realizzato, altrimenti
inspiegabilmente, in animazione).
A
questi personaggi si aggiungono Rory (Joaquin Phoenix), il fidanzato
di Lydia, che è una pallida imitazione dell’Otto del primo film, e
soprattutto Astrid (Jenna Ortega), figlia ribelle di Lydia. Forse è,
Astrid, un po’ troppo grillo parlante per esprimere propriamente la
tematica adolescenziale del sentirsi isolati e rifiutati, su cui
Burton lavora da sempre; tuttavia, senza fare spoiler, diciamo che la
vita e soprattutto la morte le riservano delle salutari occasioni di
crescita. È rinfrescante, di questi tempi, il non moralismo di
Burton a proposito dello spettro Jeremy (Arthur Conti).
Siccome
la figura più divertente del primo Beetlejuice era l’esploratore
dalla testa rimpicciolita, qui Tim Burton riprende l’idea
fornendone un’intera schiera come impiegati di Beetlejuice (un
dettaglio evidentemente vicario, ma simpatico). L’allargamento
della visuale sul mondo dei morti comprende un Willem Dafoe (Wolf)
che si prende in giro come poliziotto-attore (c’è una strana
somiglianza con una figura minore di MaXXXine) ma soprattutto
un’ottima Monica Bellucci nei panni di Delores, la
pericolosa ex moglie vendicativa di Beetlejuice, che entra in scena a
pezzi e si riattacca con graffette di cucitrice. Non dimentichiamo
che quella del corpo smontabile e ricomponibile è una sempiterna
ossessione burtoniana. Col suo carisma assassino, Delores è di gran
lunga la figura migliore di quest’aggiornamento dell'oltretomba, e
la sua presenza consente anche una piccola backstory di Beetlejuice.
È
un po’ fiacco l’aspetto para-musical, perché le scene di
balletto accanto al Treno verso il Grande Ignoto sono inutili e la
canzone nuziale di Beetlejuice alla fine non fa che ripetere la
situazione dell'indimenticabile scena di Banana Boat nel film originario, con
in più il difetto che questi attori costretti magicamente a farsi
ricettacolo della voce altrui non riescono a rendere, nella scena,
l’orrore stupefatto di sentirsi cantare come i personaggi del
primo film.
Invece
arriva come un’effettiva sorpresa, nella macabra allegria del film,
l’incubo finale, che è una citazione testuale di It’s Alive di
Larry Cohen. In conclusione, probabilmente la bizzarra e sfacciata poesia del primo
Beetlejuice non c’è più nel sequel di Tim Burton; ma questo suo
riabbeverarsi all'antica fonte gli ha giovato, e Beetlejuice
Beetlejuice è il suo miglior film da dodici anni in qua.
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