martedì 10 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice

Tim Burton

Diciamolo subito: il primo Beetlejuice (1988) resta un unicum, nella sua combinazione di commedia macabra, scherzi interdimensionali, grafica outrée (Tim Burton è sempre stato in primo luogo un grande illustratore). più una solitaria pennellata di musical con Banana Boat. È una testimonianza del periodo geniale, ormai trascorso, di Burton. Tuttavia, Beetlejuice Beetlejuice (A.D. 2024, com'è scritto sotto il titolo nei credits e sui poster) è un film delizioso. È una reunion; e chi ha detto che un regista non abbia il diritto di girare una reunion? (Fra l’altro non è la prima volta che Tim Burton eleva un monumento a se stesso). L’importante è che questa operazione azzardata sia andata felicemente in porto.
Del primo Beetlejuice, tutti ricordiamo innanzitutto l’estrema intelligenza del rapporto fra il villaggio e il modellino che lo rappresenta – fin dallo splendido inizio: mdp “kubrickiana” che vola sulla foresta e poi sul villaggio; ragnone enorme che spunta da dietro una casa; mano che lo prende, dichiarandoci che il ragnone è un ragnetto e la casa e il villaggio sono un modellino. Ci sono due film che rendono in modo magistrale la dialettica fra l’originale e la sua riproduzione in scala ridotta: Shining di Kubrick (1980) e – non senza citarlo – questo film di Burton del 1988. Merita aggiungere che il rovesciamento dimensionale, in cui si scambiano il sopra e il sotto, il dentro e il fuori, o magari il mondo dei morti e quello dei vivi, è sempre stato il cuore del cinema burtoniano, basato appunto sul trespassing. Tutto questo rimane in Beetlejuice Beetlejuice, e infatti nel cimitero del modellino della cittadina (però, se la memoria non mi inganna, le dimensioni non sono esattamente le stesse rispetto al primo film) dimora ancora lo schifosissimo essere eponimo, Betelgeuse alias Beetlejuice. Macrocosmo e microcosmo. Saggiamente però Tim Burton e i suoi sceneggiatori Alfred Gough e Miles Millar non ne fanno un punto nodale come nel primo film; la sorpresa ormai è consumata, non solo nel contesto di questa storia ma nella filmografia di Burton in generale (Beetlejuice era solo il suo secondo film).
Invece Burton sviluppa l’altro asse portante del primo film, che è la descrizione umoristica del mondo dei morti. Nelle sue varie visioni dell’oltretomba Burton scatena quel suo amore per i giocattoli macabri, i fumetti della E.C. Comics, i costumi di Halloween, i ragni finti attaccati ai vestiti e via dicendo. Vedi in Beetlejuice la comicissima rassegna dei morti in sala d’aspetto all'aldilà, nel presente film ripresa e ampliata – forse con una fantasia meno sfacciata ma sempre debitrice di quell'umorismo gross, infantil-adolescenziale, che caratterizza l'autore.
Il pregio di Beetlejuice Beetlejuice è la fedeltà alla concezione originaria (sembra niente, ma in quest'epoca di abbellimenti insipidi e odiosi reboot...!). A partire dall’elemento principale. Beetlejuice era un film di animatronics, quei pupazzi meccanici che dominarono il cinema horror dei ‘70-’80 (ed erano l'attrazione dei parchi Disney). Alle prime notizie del sequel, era legittima la paura che Burton rovinasse tutto buttandosi sulla CGI. Invece ha fondamentalmente mantenuto gli animatronics con tutto il loro corredo narrativo/nostalgico (non è sbagliato, pur nella loro diversità, accostare questa scelta conservatrice al – finto – “passo uno” di Mars Attacks). La continuità è stata la scelta vincente.
Talvolta, infatti, al cinema e in letteratura, le prosecuzioni lasciano un fondo di amarezza – in Dumas, per fare un esempio assai alto – relativo al modificarsi dei personaggi. Qui il passare del tempo non li ha rovesciati. Attorno a un Michael Keaton (Beetlejuice) sempre in forma, e fortunatamente sempre carogna, ruotano Delia/Catherine O’Hara, sempre ben definita come pseudo-artista contemporanea, e Lydia/Winona Ryder, ora vedova e madre insicura. Non è difficile ipotizzare perché Jeffrey Jones, Charles nel primo film, sia stato escluso dal sequel: la sua carriera è finita dopo le sue condanne per pedopornografia. Infatti Charles si aggira nell’oltretomba senza testa e senza spalle (mangiate da uno squalo), quindi senza coinvolgere l’attore (questo è il motivo per cui un breve flashback sulla sua fine è realizzato, altrimenti inspiegabilmente, in animazione).
A questi personaggi si aggiungono Rory (Joaquin Phoenix), il fidanzato di Lydia, che è una pallida imitazione dell’Otto del primo film, e soprattutto Astrid (Jenna Ortega), figlia ribelle di Lydia. Forse è, Astrid, un po’ troppo grillo parlante per esprimere propriamente la tematica adolescenziale del sentirsi isolati e rifiutati, su cui Burton lavora da sempre; tuttavia, senza fare spoiler, diciamo che la vita e soprattutto la morte le riservano delle salutari occasioni di crescita. È rinfrescante, di questi tempi, il non moralismo di Burton a proposito dello spettro Jeremy (Arthur Conti).
Siccome la figura più divertente del primo Beetlejuice era l’esploratore dalla testa rimpicciolita, qui Tim Burton riprende l’idea fornendone un’intera schiera come impiegati di Beetlejuice (un dettaglio evidentemente vicario, ma simpatico). L’allargamento della visuale sul mondo dei morti comprende un Willem Dafoe (Wolf) che si prende in giro come poliziotto-attore (c’è una strana somiglianza con una figura minore di MaXXXine) ma soprattutto un’ottima Monica Bellucci nei panni di Delores, la pericolosa ex moglie vendicativa di Beetlejuice, che entra in scena a pezzi e si riattacca con graffette di cucitrice. Non dimentichiamo che quella del corpo smontabile e ricomponibile è una sempiterna ossessione burtoniana. Col suo carisma assassino, Delores è di gran lunga la figura migliore di quest’aggiornamento dell'oltretomba, e la sua presenza consente anche una piccola backstory di Beetlejuice.
È un po’ fiacco l’aspetto para-musical, perché le scene di balletto accanto al Treno verso il Grande Ignoto sono inutili e la canzone nuziale di Beetlejuice alla fine non fa che ripetere la situazione dell'indimenticabile scena di Banana Boat nel film originario, con in più il difetto che questi attori costretti magicamente a farsi ricettacolo della voce altrui non riescono a rendere, nella scena, l’orrore stupefatto di sentirsi cantare come i personaggi del primo film.
Invece arriva come un’effettiva sorpresa, nella macabra allegria del film, l’incubo finale, che è una citazione testuale di It’s Alive di Larry Cohen. In conclusione, probabilmente la bizzarra e sfacciata poesia del primo Beetlejuice non c’è più nel sequel di Tim Burton; ma questo suo riabbeverarsi all'antica fonte gli ha giovato, e Beetlejuice Beetlejuice è il suo miglior film da dodici anni in qua.

Nessun commento: