mercoledì 15 novembre 2017

The Square

Ruben Östlund

Nello splendido The Square di Ruben Östlund troviamo non tanto una satira sull'arte contemporanea quanto sulla società contemporanea, svedese in primo luogo, ma evidentemente non solo. Infatti il film si organizza magistralmente su due linee. La prima è la buffa peripezia, la caduta e l'apprendimento di una lezione, da parte di un uomo inautentico in una società atomizzata; e questo concetto si concretizza narrativamente entro una memorabile parodia dell'“arte” d'oggi. Che comincia satireggiando il linguaggio della critica, nella scena dell'intervista al protagonista, ma si allarga subito all'arte (per comodità non metterò più le virgolette, ma il lettore se le immagini) stessa, vuota e presuntuosa, superficiale e ipocritamente soddisfatta di sé come nel film i suoi protagonisti e organizzatori. Sul piano dell'ironia The Square può far pensare a un Nanni Moretti più intellettuale o a un Woody Allen più freddo.
Attenzione però: solitamente la parodia presuppone una deformazione che amplifichi alcuni tratti dell'oggetto; qui no: gli esempi di arte che ci vengono offerti, come l'installazione fatta di mucchi regolari di ghiaia, sono quelli che in effetti si potrebbero trovare in qualunque museo. Quindi qui è lo sguardo stesso che è parodico.
Prova ne sia un episodio italiano che certo il regista e sceneggiatore Östlund non conosce ma sicuramente lo divertirebbe. Uno dei momenti esilaranti del film si ha quando un addetto alle pulizie credendo di fare il suo lavoro distrugge parzialmente l'installazione citata. Ebbene, questo è effettivamente successo un paio d'anni fa in un museo di Bolzano.
Christian (Claes Bang) è il direttore di un museo d'arte contemporanea che ha sede nel palazzo reale dopo un'ipotetica abolizione della monarchia in Svezia. E' un intellettuale super-à la page, completo di occhiali dalla montatura rossa, impegnato nel lancio di una mostra incentrata su The Square: un quadrato di marciapiede entro il quale dovrebbe regnare la fraternità e chi ha bisogno di aiuto lo dovrebbe trovare (a chi sembri una stupidaggine: vide infra). La sua rovina nasce da un abile borseggio nel quale viene alleggerito di portafoglio e cellulare (Christian non ci pensa mai, ma il finto incidente che serve a mascherare il borseggio è una performance in piena regola). Di qui in poi le cose gli vanno comicamente a rotoli sul piano personale e su quello professionale: Christian pensa solo ai disastri suoi, mentre una mancanza di flessibilità molto nordica e l'appartenenza a un'aristocrazia intellettuale vuota e pomposa gli impediscono di fare i conti in modo razionale con l'accaduto. Da un suo tentativo goffo e irresponsabile di recuperare il maltolto ci va di mezzo un ragazzino innocente (tutt'altro, però, che un agnellino). Una serie di conseguenze a catena mette in crisi – da segnalare che i tempi narrativi del film sono volutamente dilatati e sfuggenti – la sua intera struttura esistenziale.
La figura di Christian si definisce tutta nella scena in cui prova il suo discorso di presentazione della mostra, poi sembra che cambi idea in favore di un discorso più informale – ma poi alla presentazione vediamo che ambedue i momenti erano una prova. La cifra del protagonista è l'inautenticità. Non per nulla in un paio di inquadrature vediamo Christian immobile come in posa, come un manichino in un'installazione. Nella mostra al museo si trova uno spazio diviso in due direzioni opposte, “I mistrust people” e “I trust people”, ove tutti i visitatori virtuosamente scelgono la seconda (la score luminosa indica 3 a 42): Trust è la realtà ufficiale di questo mondo dei buoni sentimenti... laddove tutto il comportamento di Christian (e altrui) è in realtà, come lui ammette della confessione finale, basato sul Mistrust. Rendendo visivamente la sua paura quando gira per il condominio nel quale sembra abitino i ladri, The Square sembra un horror – o un giallo nordico.
In margine: non bisognerebbe citare sempre Bergman quando si parla di un film svedese, ma non possiamo non ricordare le grandi figure di inautenticità delle commedie bergmaniane... penso a Jarl Kulle in A proposito di tutte queste... signore, che con questo film ha dei punti di contatto.
La sociologia americana ci aveva parlato già settant'anni fa della lonely crowd, la folla solitaria. La ritroviamo nel film in tutta la sua evidenza – ed è un fenomeno paradossalmente amplificato dall'orrore contemporaneo del politically correct. “Vuoi salvare la vita di un uomo?”, sentiamo chiedere a tutti per strada (pubblicità? performance? beneficenza?) e la risposta è sempre negativa. All'inizio del film vediamo uno spostamento mal effettuato mandare in pezzi una vecchia statua equestre - allegoria della distruzione di un passato rispetto al quale il presente è perfino più insincero.
In particolare, la richiesta inascoltata di aiuto, ora comica ora drammatica, è il filo rosso che attraversa il film. Vira all'orrore nella scena di Christian nel suo appartamento dell'appartamento con le grida del bambino da fuori che lo ossessionano. Tutte grida inascoltate: The Square è la figura vacua di una falsa coscienza, la celebrazione “orwelliana” di una grande menzogna collettiva (e infatti verrà pubblicizzata, da due creativi che ne parlano come “il prodotto”, col suo contrario). Nel film è molto importante la presenza ossessiva dei mendicanti che popolano Stoccolma, con la vita pubblica che scorre intorno a loro senza curarsene. Con una bella soluzione di sceneggiatura, proprio su questa presenza si impernia il video di promozione che, messo sul web, darà una svolta decisiva, comicamente disastrosa, alla vicenda.
Lo humour che attraversa il film (vagamente imparentato, mi pare, con quello dell'egualmente bellissimo film svedese Un piccione seduto sul ramo riflette sull'esistenza di Roy Andersson) è gelido e leggermente perverso. Dalla parola “utopico” nel discorso di Christian su The Square uno stacco ci porta subito al segnale del suo cellulare rubato. E' uno spasso la scena della consegna delle lettere anonime, con sproloqui sulla giustizia al suono della musica dei Justice, con il palleggio di pavidità fra lui e il suo vice e poi la partenza a razzo dell'auto (scintille: “Mi sa che abbiamo urtato qualcosa”). Per non dire della sublime scena del preservativo usato, conteso fra lui e Anne, l'amante di una sera. O la presentazione della mostra, interrotta a più riprese dagli insulti di un pazzoide con la sindrome di Tourette. Ed è un assoluto capolavoro di humour nero il video per il web che serve a pubblicizzare la mostra.
Che dire, poi, del sesso? Il comico imbarazzo nell'incontro d'amore; la scena già citata del preservativo; l'incontro impagabile, il giorno dopo, di Christian con Anne (Elisabeth Moss), che disegna una parodia spietata (ma ancora, senza deformazioni: il rapporto, potremmo dire, è 1:1) della manipolatrice post-femminista americana che vuole arpionarlo. Questo film è un accurato e passabilmente spietato disegno d'ambiente. Dai due creativi alla potente dirigente con il suo cane, si vorrebbero citare tutte queste figurette di cattiveria e felicità visuale hogarthiana.
Le opposizioni radicali del film (inautentico/autentico, trust/mistrust) vi vengono replicate con una serie di gustosissimi raddoppiamenti. Magnifico come l'inquadratura dal basso delle trombe delle scale (ce ne sono più d'una nel film) crei una forma quadrata che nella sua connotazione cruda e drammatica duplica con aspro sarcasmo il Quadrato (The Square) di belle intenzioni del film. Oppure, vedi la scimmia di Anne, che appare due volte, la prima come buffa imitazione dell'artista (disegna su un blocco di fogli), la seconda della donna stessa (si mette grottescamente rossetto sul muso); ma a sua volta la vera scimmia viene raddoppiata nella figura impressionante dell'uomo-scimmia (l'eccezionale attore-mimo Terry Notary) in una performance di segno opposto: non la bestia che imita l'uomo ma l'uomo che imita la bestia, sconvolgendo gli invitati (e scatenando un linciaggio).
Alla fine, non tanto la resipiscenza di Christian nel suo messaggio al cellulare, quanto le sue figlie bambine concretizzano un'idea di innocenza (il primissimo piano finale della più piccola) che ci si chiede quanto possa resistere in questo mondo perverso, ma tuttavia chiude il film su una nota di umanità.