mercoledì 27 maggio 2020

Alraune

Henrik Galeen

La mandragora officinalis appartiene, si sa, al mondo della botanica reale; ma la forma vagamente umana della sua radice l’ha trasformata nella più importante delle piante fantastiche. Ne scrivono Dioscoride, Plinio, Columella, Flavio Giuseppe, Avicenna, Alberto Magno. Apportatrice di ricchezza, fertilità e fortuna in amore, la radice di mandragola è un essere vivente che cresce in forma pseudoumana. Nasce dalla terra fecondata dallo sperma di un impiccato. Coglierla è pericoloso, perché l’urlo che emette quando viene sradicata fa impazzire o morire; fin dall’antichità si consiglia di farla strappar via da un cane.
In letteratura ne parlano Shakespeare, Grimmelshausen, Machiavelli con la commedia La mandragola, ma soprattutto la mandragola (in tedesco Alraune) trionfa nel romanticismo tedesco, coi fratelli Grimm, Chamisso, de la Motte Fouqué, Achim von Arnim, che le dà un ruolo di primo piano in Isabella von Aegypten. E lascia un segno nella letteratura popolare col febbrile romanzo Alraune (1911) di Hanns Heinz Ewers (1), uno dei migliori testi fantastici della prima metà del secolo. Ewers trasfonde nella Trivialliteratur la tradizione romantica, il bric-à-brac del decadentismo, tracce dello stile di Poe (che aveva tradotto in tedesco), il ricordo del feuilleton. Alraune è attraversato da un elemento di grottesco ai limiti della comicità: un’efferatezza tinta d’ironia già nella propria esagerazione, caratteristica di tutta l’opera di Ewers, nella quale è centrale la figura della donna demoniaca, la donna-mistero, che distrugge l’incauto che va a esplorarlo.
Alraune è un gioiello di erotismo e crudeltà. Istigato dal nipote Frank Braun, l’erudito Jakob ten Brinken - bizzarra sintesi di scienziato e disonesto speculatore finanziario - concretizza la leggenda della mandragola mediante la fecondazione artificiale di una prostituta col seme di un assassino giustiziato. Così nasce Alraune, dotata di uno strano fascino e completamente amorale, causa di rovina per tutti - compreso ten Brinken, il falso padre, che lei seduce e poi abbandona nel momento della rovina, portandolo al suicidio. Innamorata di Frank Braun, Alraune morirà precipitando dal tetto durante una crisi di sonnambulismo.
Nel romanzo è forte l’elemento magico. La prostituta fecondata col seme del morto è esplicitamente assimilata alla madre terra, Alraune è apportatrice di tesori connessi al mondo sotterraneo. Nell’urlo agghiacciante emesso da Alraune nascendo, mentre la madre muore di parto, è evidente il riferimento all’urlo letale della mandragola sradicata. Solo Frank Braun si salva dalla sua forza distruttiva, et pour cause: questo personaggio, protagonista di una trilogia, è a sua volta portatore di morte per le donne che lo amano, come mostrano gli altri due romanzi, uno anteriore, Der Zauberlehrling oder die Teufelsjäger (1909) e uno seguente, Vampir (1921), dove il vampiro è lo stesso Braun.

Nel gennaio 1928 esce in Germania la versione cinematografica di Alraune diretta da Henrik Galeen, prodotta dalla Ama-Film GmbH, appartenente al Konzern UFA. Galeen, sceneggiatore e regista, rilegge liberamente il romanzo di Ewers (del quale era stato segretario); ne attenua parzialmente l’elemento satirico e irrazionale ma realizza nondimeno un film outré. Trovata in Ewers la seduzione di ten Brinken da parte di Alraune, Galeen la dilata sino a farne il centro di gravità del film, focalizzato sui temi della femme fatale e dell’incesto.
Il fascino di Alraune sta anche in una ragione per cui è stato spesso criticato, a partire da Lotte Eisner: è un film di transizione; riproduce al proprio interno il passaggio dalla tradizione classica del cinema fantastico tedesco al nuovo realismo che si diffonde al cambio del decennio, con lo stile distaccato e impersonale della “nuova oggettività”. Il film possiede (somigliante in questo agli eroi del fantastico tedesco) una doppia anima. L’elemento demoniaco al centro - la donna distruttrice, interpretata da Brigitte Helm - passa da semifantastico a melodrammatico e realistico. Sul piano formale il film, splendidamente fotografato da Franz Planer, alterna uno stile dichiaratamente post-espressionista ad uno più freddo e oggettivo. Il polo fantastico prevale nella prima parte, quello melodrammatico/realistico nella seconda, che peraltro a tratti riprende atmosfere “espressionistiche” mediante l’uso delle ombre e l’illuminazione. Ciò è facilitato dalla struttura drammatica del film, costituito da blocchi compatti ma intervallati da forti ellissi, una struttura “tedesca” frequente nelle sceneggiature di Henrik Galeen, compreso Nosferatu di Murnau.
In apertura, viene evocata in didascalia la leggenda medievale della mandragola, illustrata da una composizione di gusto pittorico: un impiccato pende al chiaro di luna fra rocce e alberi scheletrici, una figura umana si avvicina alla forca con una vanga. Stacco alla biblioteca moderna del prof. ten Brinken (Paul Wegener) che parla ai suoi allievi sui caratteri ereditari esaminando “scientificamente” la leggenda della mandragola. Nota però l’evidenza alle sue spalle della finestra, oscurata da rami che sembrano premere sulla stanza, simbolo di un mondo vegetale e notturno che pesa sul razionalismo scientifico. La separazione fra i due mondi salta quando il professore apre la finestra parlando con accenti quasi magici del vento che porta il polline di fiore in fiore. In effetti, possiamo ritrovare nell’opera generale di Galeen un elemento vagamente razionalizzante, che senza negare il fantastico lo incanala entro la concezione di una meta-scienza magico-organicistica alla Paracelso - un nome non ignoto nei circoli esoterici cui appartenevano Galeen ed Ewers (2).
Galeen trasforma la figura di ten Brinken in uno sperimentatore fanatico, che vuole studiare i caratteri ereditari creando un essere in laboratorio: uno stretto parente del dr. Frankenstein (occorre insistere sull’influsso di Paul Wegener, specie con The Magician di Rex Ingram, sul Frankenstein Universal?). Totalmente frankensteiniano (“Tu violi la natura”, “La natura si vendicherà”) è il dialogo con Frank Braun, imborghesito rispetto al romanzo di Ewers e ridotto alla figura canonica del collaboratore spaventato dall’hybris del progetto. Braun porta la prostituta in casa del professore, con scena sadica della donna impaurita nella stanza, che ha una parete dipinta con un demone orientaleggiante e maschere diaboliche orientali appese alle pareti, sottolineate da inquiete soggettive. Qui troviamo una soggettivizzazione dello spazio, una proiezione dell’Io sullo spazio esterno, di matrice espressionista. In un memorabile momento di terrore cinematografico, una porta si apre nella parete dipinta rivelando un gabinetto medico, e il professore in camice da chirurgo avanza verso la donna terrorizzata.
Il secondo blocco narrativo ci porta all’istituto educativo delle suore, con una splendida presentazione del personaggio di Alraune, dove Galeen concentra diverse pagine del romanzo sulla sua crudeltà: vediamo in dettaglio una mosca in precario equilibrio sul bordo di una coppa, Alraune di profilo che la guarda con maligna fissità, il suo dito che fa cadere l’insetto nel liquido. Questa catalisi, come direbbe Barthes, consente attraverso un atto singolo di concretizzare sinteticamente in modo fulminante un tratto del personaggio.
In questo segmento la recitazione stilizzata, unheimliche, di Brigitte Helm le dà qualcosa di inumano, da mantide religiosa. Più tardi, durante un discorso di benigno rimprovero della pia suora (reso da Galeen in forme parodistiche), lei estrae da una scatolina un insetto mostruoso - per la verità, un innocuo cervo volante - e di nascosto glielo mette addosso. Nel dormitorio, Alraune balla sul letto alzandosi la sottoveste sulle gambe, si copre di profumo con esagerazione oscena, ne spruzza le compagne adoranti. La recitazione è eccessiva, isterica, richiama i precetti della recitazione espressionista.
Alraune seduce un giovanotto e lo convince a rubare al proprio stesso padre il denaro affidatogli dalla banca per cui lavora. I due fuggono in treno. Alraune guarda dal finestrino con occhi grandi, freddi, curiosi. Flirta alle spalle del giovane innamorato con un volgare ganimede, illusionista in un circo. Galeen mette in scena questo gioco a tre con un bellissimo uso dello spazio (scompartimento e corridoio della carrozza ferroviaria) e dei riflessi sul vetro. Al circo il giovanotto è ridotto a inserviente, nella classica figura di umiliazione, mentre Alraune è assistente dell’illusionista. Galeen sottolinea la meschinità dell’ambiente svelando con realismo derisorio i piccoli trucchi del mestiere, come la gabbietta attaccata sulla schiena del prestigiatore. Alraune civetta anche col domatore dei leoni (in un’inquadratura di notevole sensualità i due accendono una sigaretta accostando quelle che tengono in bocca, come un bacio). Numerose sono nel segmento le allusioni all’elemento ferino; per bravata Alraune entra anche nella gabbia dei leoni, che non la toccano. Infine ten Brinken convince Alraune a ritornare con lui.

Questo è il punto di svolta del film; in seguito la tendenza a un’inquadratura e illuminazione di tipo più oggettivo e realistico distingue il film dal “fantastique” iniziale. Nella scenografia, un lusso alto-borghese si sostituisce al romanzesco goticheggiante dell’inizio e a quello pittoresco del circo. Una scena verso la fine sembra dichiarare apertamente - con un filo d’ironia - questa trasformazione, mostrandoci Alraune in una blouse modernissima che fa ginnastica, ripresa in un totale oggettivo, impersonale. Questa scena potrebbe appartenere benissimo a una commedia o a un dramma realistico nella buona società; la sua quotidianità elegante è il contrario del gotico minaccioso dell’inizio.
E’ ambigua la possessività di ten Brinken, il falso padre, che allontana un giovane corteggiatore: si rivolge alla “figlia”, alla giovane donna o all’esperimento scientifico? Dell’esperimento il professore tiene un diario, al quale confida il suo timore che Alraune assomigli alla madre. Lei trova il diario e leggendolo viene a conoscere le sue origini, in una scena dove un magnifico gioco di illuminazione crea nell’inquadratura un conflitto di luce ed ombra. La didascalia esprime la sua vergogna nello scoprirsi un esperimento, figlia del vizio e del delitto. “Dov’è il mio posto fra gli uomini?”.
Nei film tedeschi l’ombra diventa la figura del Destino” (Lotte Eisner). Qui, nel puro stile del cinema fantastico tedesco, le ombre prendono vita. Vediamo Alraune, sconvolta nella sua camera, che proietta una gigantesca ombra contro la parete bianca. Poi sta per uccidere ten Brinken addormentato, e vediamo protendersi l’ombra delle sue mani sul dormiente, in una citazione diretta da Nosferatu.
Io, opera sua, mi vendicherò di lui”. Alraune decide di provocare nel “padre” ingannatore un desiderio erotico che lo porterà alla follia. Il film diventa un estremistico mélo di amore senile e di distruzione dell’uomo da parte della donna, in armonia con l’ossessione delle rivalità familiari e del masochismo maschile presente nei film UFA degli anni ’20; il professor ten Brinken anticipa il professor Rath (Der blaue Engel). Anche se, diversamente che in Ewers, Alraune sa già di non essere figlia del professore, ciò non toglie nulla alla connotazioni incestuose del racconto. Mentre Brigitte Helm tratteggia un fiammeggiante ritratto di sessualità inaccessibile e maligna, Paul Wegener trasforma l’ossessione scientifica dell’inizio in una patetica descrizione di erotismo senile impotente; sui suoi tratti “asiatici” disegna lampi di ottusa speranza, di timore e di mortificata disperazione. Galeen contestualmente al progredire della seduzione ci mostra la decadenza fisica dell’uomo.
Alraune gioca con l’ambiguità del loro rapporto e lo umilia flirtando coi numerosi spasimanti sotto i suoi occhi. Qui troviamo un’inquadratura rimarchevole, lontana dai giochi “espressionisti” di luce e ombra visti in precedenza: dettaglio dello specchietto rotondo da signora che riflette l’occhio di Alraune - lo specchietto, spostato a destra, riflette il viso accigliato di ten Brinken - poi, nuovamente a sinistra, ritorna sull’occhio di lei. Anche di specchi è ricco il fantastico tedesco, ma qui si tratta di un ampliamento descrittivo dei punti di vista, un uso moderno e ammirevole della soggettiva.
Quando ten Brinken è economicamente rovinato Alraune, nell’esaltazione di un gelido trionfo, gli annuncia che lo abbandona. Impazzito, egli tenta di pugnalarla; Alraune fugge via e si allontana con Frank Braun, chiedendogli di darle un cuore nuovo in grado di amare. Scriveva la Lichtbild-Buehne nel 1928: “Non si può sfuggire alla sensazione che qui lo happy ending sia una concessione, forse superflua”. Il tema dell’amore come potenza quasi soprannaturale è presente nell’opera di Galeen, ma qui troviamo soprattutto il romanticismo popolare dei Sensationsfilme: l’amore come rigenerazione spirituale che salva la donna perduta; qui evidenziato dalle didascalie finali come il dono di un’anima ad Alraune, che letteralmente non ce l’ha. La duplicità, l’anima divisa, ben si addice all’interprete di Metropolis!

Delle precedenti versioni, perdute, Alraune (Austria-Ungheria, Rex, 1918), di Mihaly Kertész (il futuro Michael Curtiz) e Fritz Odon, sceneggiatura di Richard Falk (con Gyula Gal, Jeno Torzs, Margit Lux, Géza Erdély, Kalman Kormendy) si richiama anche ad Achim von Arnim e alla leggenda popolare; Alraune, die Henkerstochter, gennant die rote Hanne (Germania, Neutral Film, 1918) di Eugen Illes, anche sceneggiatore (con Hilde Wolter, Max Auzinger, Friedrich Kuehne, Ernst Rennspies) è più vicino al romanzo di Ewers.
Quasi nulla si sa di Alraune und der Golem di Nils Chrisander (Germania, Deutsche Bioscop GmbH, 1919), tanto che ne è anche stata messa in dubbio l’esistenza. Sopravvive un affiche pubblicitario con i due personaggi eponimi. Fu girato negli studi Bioscop a Neubabelsberg nell’agosto del 1918; la fotografia era di Guido Seeber, figura capitale tanto della cinematografia tedesca in generale quanto del fantastico (basta pensare alla sua associazione con Paul Wegener).
Nel 1930 Brigitte Helm riprende il personaggio per una nuova versione sonora, nella doppia parte di Alraune e della prostituta Alma: Alraune, di Richard Oswald (anche produttore per l’UFA), sceneggiatura di Charlie Roellinghoff, fotografia di Guenther Oskar Krampf, con Albert Basserman (ten Brinken) e Paul Paulsen, Agnes Straub, Liselotte Schaak, Bernhard Goetzke. Oswald è oggi ricordato quasi esclusivamente per i suoi Aufklaerungfilme sui problemi sessuali (all’epoca accusati di pornografia), ma era un abile regista a tutto campo che aveva avuto enorme successo con i suoi film storici; fu anche fra i precursori del cinema fantastico tedesco. In Alraune Oswald mira al realismo; intendendo differenziarsi da Galeen, nonché sfruttare le potenzialità del parlato, introduce lunghi dialoghi di caratterizzazione dei personaggi e impone un’interpretazione più psicologica. Alraune qui è “l’innocenza nata dal male e che lo provoca involontariamente”, come la definisce Brigitte Helm in una intervista alla Lichtbild-Buehne (3): una vittima della circostanze che, venuta a sapere delle sue origini e del suo destino, si suicida.
Nel secondo dopoguerra apparirà ancora un Alraune (Germania Ovest, Carlton, 1952), diretto da Arthur Maria Rabenalt su sceneggiatura di Fritz Rotter, che cerca di modernizzare l’assunto sfruttando il tema dell’inseminazione artificiale. Protagonisti Hildergard Knef ed Erich Von Stroheim (con Karlheinz Boehm, Rolf Henniger, Harry Halm, Hans Cossy). Hildegard Knef dona al personaggio la sua figura androgina, la voce roca e una certa esplicitezza sessuale quando mostra il seno nudo a Erich Von Stroheim. Ma la regia di Rabenalt e il film in generale risultano deludenti.
Menzioniamo en passant il modesto film italiano La mandragola di Alberto Lattuada (1952), con Rosanna Schiaffino, Totò, Philippe Leroy. Ispirato alla commedia di Machiavelli, è una storia di intrighi amorosi nel Rinascimento; una scena notturna illustra l’estrazione della mandragola col sacrificio di un cane.
Certamente questi titoli non esauriscono gli esseri magici pseudo-umani di origine vegetale. Solo tra i film recenti, ha qualcosa di mandragolesco il pezzo di legno di forma umanoide adottato da due coniugi, che cresce fino a diventare un mostro, nel piccolo capolavoro di Jan Svankmajer Otesanek (Repubblica Ceca/Gran Bretagna, 2000); similmente ricorda il mito della mandragola la donna nata da una pianta, bella seduttrice e insieme mostro assassino, dell’horror filippino gradevolmente naïf di Rico Maria Ilarde Ang babaeng putik/Woman of Mud (Filippine, 2000).
La mandragola è sempre viva. Dalla sua nuvoletta in cielo - o più probabilmente da un posto più in basso e più caldo - Hanns Heinz Ewers può sorridere soddisfatto.


  1. Edizione spagnola: La mandragora, trad. di José Rodriguez Ponce, Valdemar, Madrid 1993.
  2. Secondo Luciano Berriatua, Proverbios chinos de F.W. Murnau, i Rosacroce tedeschi, in rapporti con la famosa Golden Dawn britannica.
  3. Riportata in Fantastique et réalisme dans le cinéma allemand, 1912-1933, Musée du Cinéma, Bruxelles 1969.

(pubblicato nel 2002 in traduzione spagnola nel volume Cine fantástico y de terror alemán (1913-1927)Donostia Kultura, San Sebastián) 

lunedì 11 maggio 2020

Dizionario del cinema immaginario

di Alberto Anile


C'è un delizioso libro di Alberto Anile che è uscito alla fine dell'anno scorso, e quindi si è trovato subito a impattare con il blocco e la stasi imposti ai lettori dal coronavirus. E' solo giusto, ora, considerarlo come una novità.
Un affascinante sottoprodotto della fantasia narrativa sono gli pseudobiblia. Ovvero i libri inventati che compaiono dentro opere di fantasia. Un solo esempio, forse il più famoso: nella realtà il Necronomicon è stato inventato e usato in vari racconti da H.P. Lovecraft e dalla sua scuola; nella dimensione del racconto è stato scritto nel VIII secolo dall'arabo Abdul Alhazred come Al Azif, è stato poi tradotto in greco dal bizantino Teodoro Fileta, poi in latino da Olaus Wormius e infine in inglese dal Dottor Dee (figura storica com'è noto) in epoca elisabettiana. Orbene, il sogno di ogni amante dei libri, e in particolare di alcuni autori, sarebbe di avere nella propria biblioteca uno scaffale riempito dai vari pseudobiblia, acquistati tramite qualche specie di Amazon inter-dimensionale.
Ah, ma esiste uno spazio simile anche per la nostra personale videoteca. Meno dei libri, certo, ma numerosi film contengono nella loro trama film immaginari: o perché l'azione si svolge in parte su un set, come quello di Vi presento Pamela in Effetto notte di Truffaut, o perché protagonista è un attore o attrice come ne La signora di tutti di Ophuls, o semplicemente perché vengono visti dai personaggi al cinema (qui bisogna distinguere dalla citazione, dove il film visto è esistente), o perché nello svolgimento compare un trailer o un poster, e via dicendo.
Alberto Anile, attento storico del cinema di cui menzionerò solo i lavori su Orson Welles, ha realizzato un'opera tanto impensata quanto meritoria. Il suo Dizionario del cinema immaginario. I film che esistono solo dentro i film (Lindau, 24 ) è, possiamo dire, un “Mereghetti” di questi film d'invenzione, o pseudofilm (Paolo Mereghetti del resto firma la prefazione). Lo conclude un serissimo saggio intitolato In lode del cinema immaginario. Gli appassionati della fantascienza d'antan ci troveranno, e sogneranno, La fine degli uomini gatto (da Il bruto e la bella di Vincente Minnelli) o Mant! (da Matinee di Joe Dante), gli esegeti lynchani The Sylvia North Story (da Mulholland Drive di David Lynch), gli amanti del peplum hollywoodiano Ave, Cesare! (dal film omonimo dei fratelli Coen) – e i fan della commediaccia italiana, come chi scrive, La dottoressa del distretto ogni sera cià il vizietto di portar gli alpini a letto (da Arrivano i gatti di Carlo Vanzina). Naturalmente alla fine di ogni scheda ci sono tre righe intitolate “Dove si vede”; ed è come un risveglio da un sogno cinefilo.
Questa dimensione tra reale e fantastica non manca di vertiginosi incroci. Esempio: dopo che Olmi girò L'albero degli zoccoli nel 1978, Tinto Brass nel film Action (1979) s'inventò un ipotetico L'albero delle zoccole che sta girando Luc Merenda (film doverosamente listato da Anile). Ma nel 1995 Leo Salemi girò veramente un L'albero delle zoccole, che Anile non lista perché è un film vero (vertigine!) – e chiamò a interpretarlo (non per le scene porno) Luigi Ornaghi, lo stesso Batistì che aveva interpretato il film di Olmi. Olmi la prese malissimo.
E ancora: Anile lista tutti gli pseudofilm di cui vediamo il trailer nella versione originale di Grindhouse di Tarantino & Rodriguez (non nella disastrosa versione italiana sdoppiata e mutilata dai distributori), fra i quali non posso non citare Werewolf Women of the S.S.; tutti, dico, tranne uno, Machete: perché in seguito Machete è diventato un film vero, di Robert Rodriguez & Ethan Maniquis, con Danny Trejo. Naturalmente sarei pronto a partecipare a un crowdfunding affinché si possano girare anche gli altri.
Siccome il destino del film-nel-film dipende dalle vicende diegetiche del film-contenitore, questo dizionario contiene una quantità inusuale di film incompiuti o perduti, o di opere ultime a causa di morti sul set o fuori. Nonché, in un paio di casi, di vicende fantastiche, come per La rosa purpurea del Cairo (non il film di Woody Allen ma il film-nel-film omonimo), ritirato dalla circolazione perché un personaggio era uscito dalla pellicola; e compare anche un film girato nel 2505!
Il gioco funziona solo a patto di essere filologico, e Anile lo fa brillantemente. Con un'opera certosina di ricostruzione, dà dei “suoi” pseudofilm solo le notizie reperibile dal film-contenitore (o dal paratesto di esso), e con notevole, ironica abilità “impasta” queste poche notizie in una scheda completa. Un divertimento ulteriore è che Anile scrive le sue schede seguendo strettamente la forma di quelle del Mereghetti, e non solo come forma, ma riprendendo lo stile “aggressivo” delle critiche mereghettiane – per cui il suo Dizionario contiene anche un elemento di sottile parodia. Spiritosissimo quando, a proposito di uno pseudofilm (Face Punch) che vanno a vedere Bella e Jacob in The Twilight Saga: New Moon, la scheda scrive “il grado zero del film di consumo per teenager decerebrati” ed ecco un giudizio elegantemente implicito sui protagonisti della Twilight Saga.
L'impegno filologico si scontra inevitabilmente con un limite oggettivo circa i dati: “Il dizionario li riporta così come sono stati menzionati, senza aggiunte di fantasia” (Anile). Siccome spesso i film-contenitore non forniscono il nome del regista o degli interpreti degli pseudofilm contenuti, e in particolare, spesso gli attori del set fittizio sono nominati solo per nome, nelle voci del Dizionario può capitare di leggere qualcosa come “con Anna, Mike”, mettendo a dura prova la sospensione dell'incredulità. Ma è inevitabile: certo, per dare alle schede un tono di autenticità si sarebbe potuto inventare dei nomi (magari mettendoli fra parentesi quadra); ma ciò avrebbe violato la regola base di fornire solo informazioni presenti nel film-contenitore. Possiamo dire che qui si scontrano, ciascuna con le sue buone ragioni, due filologie opposte.
Peggio ancora, spesso i film-contenitore non ci forniscono il titolo dello pseudofilm. Vale a dire, la storia del cinema immaginario è piena di “militi ignori”, di cui nessuno ha pensato a inventare il titolo. Gran peccato! Riempirebbero un'intera sezione (di un'edizione immaginaria) delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone le comiche interpretate da Marion Davies e William Haines in Show People di King Vidor. Evidentemente questi film non possono entrare nel dizionario. Anile dedica una pagina del saggio finale quelli che più rimpiange. Mi permetto un rimpianto personale: da sempre mi sarebbe piaciuto sapere di più di quel film di vampiri, più vicino a Jean Rollin che alla Hammer, che Claudine Auger guarda in una scena di Gioco di massacro di Alain Jessua (1967). Ma tant'è, lo sceneggiatore non ci ha dato il titolo.
Uno potrebbe chiedersi: ma è, quest'opera di Anile, solo un divertissement? L'elemento aereo del divertimento è certamente presente; ma non esaurisce l'operazione. Al di là dell'utilità concreta di poter reperire facilmente le informazioni su un film immaginario contenuto in un film reale (il Dizionario è corredato da un indice dei film-contenitore), questo libro illustra un affascinante gioco di specchi in cui il cinema riflette in varie forme su se stesso. Ma di più: sfogliando queste pagine, ci rendiamo conto che questi pseudofilm (non dico tutti) vorremmo appassionatamente vederli – proprio come appassionatamente vorremmo vedere tanti film progettati e mai realizzati della storia reale (il Cuore di tenebra di Orson Welles e il Jesus di Carl Th. Dreyer per primi). Il libro ci apre uno sguardo impensato su dimensioni vietate perché non esistono. In ultima analisi, il Dizionario di Anile è un caldo omaggio al desiderio.