La
mandragora officinalis
appartiene, si sa, al mondo della botanica reale; ma la forma
vagamente umana della sua radice l’ha trasformata nella più
importante delle piante fantastiche. Ne scrivono Dioscoride, Plinio,
Columella, Flavio Giuseppe, Avicenna, Alberto Magno. Apportatrice di
ricchezza, fertilità e fortuna in amore, la radice di mandragola è
un essere vivente che cresce in forma pseudoumana. Nasce dalla terra
fecondata dallo sperma di un impiccato. Coglierla è pericoloso,
perché l’urlo che emette quando viene sradicata fa impazzire o
morire; fin dall’antichità si consiglia di farla strappar via da
un cane.
In
letteratura ne parlano Shakespeare, Grimmelshausen, Machiavelli con
la commedia La
mandragola, ma
soprattutto la mandragola (in tedesco Alraune)
trionfa nel romanticismo tedesco, coi fratelli Grimm, Chamisso, de la
Motte Fouqué, Achim von Arnim, che le dà un ruolo di primo piano in
Isabella von Aegypten.
E lascia un segno nella letteratura popolare col febbrile romanzo
Alraune
(1911) di Hanns Heinz Ewers (1), uno dei migliori testi fantastici
della prima metà del secolo. Ewers trasfonde nella Trivialliteratur
la tradizione
romantica, il bric-à-brac
del decadentismo, tracce dello stile di Poe (che aveva tradotto in
tedesco), il ricordo del feuilleton.
Alraune
è attraversato da un elemento di grottesco ai limiti della comicità:
un’efferatezza tinta d’ironia già nella propria esagerazione,
caratteristica di tutta l’opera di Ewers, nella quale è centrale
la figura della donna demoniaca, la donna-mistero, che distrugge
l’incauto che va a esplorarlo.
Alraune
è un gioiello di erotismo e crudeltà. Istigato dal nipote Frank
Braun, l’erudito Jakob ten Brinken - bizzarra sintesi di scienziato
e disonesto speculatore finanziario - concretizza la leggenda della
mandragola mediante la fecondazione artificiale di una prostituta col
seme di un assassino giustiziato. Così nasce Alraune, dotata di uno
strano fascino e completamente amorale, causa di rovina per tutti -
compreso ten Brinken, il falso padre, che lei seduce e poi abbandona
nel momento della rovina, portandolo al suicidio. Innamorata di Frank
Braun, Alraune morirà precipitando dal tetto durante una crisi di
sonnambulismo.
Nel
romanzo è forte l’elemento magico. La prostituta fecondata col
seme del morto è esplicitamente assimilata alla madre terra, Alraune
è apportatrice di tesori connessi al mondo sotterraneo. Nell’urlo
agghiacciante emesso da Alraune nascendo, mentre la madre muore di
parto, è evidente il riferimento all’urlo letale della mandragola
sradicata. Solo Frank Braun si salva dalla sua forza distruttiva, et
pour cause: questo
personaggio, protagonista di una trilogia, è a sua volta portatore
di morte per le donne che lo amano, come mostrano gli altri due
romanzi, uno anteriore, Der
Zauberlehrling oder die Teufelsjäger
(1909) e uno seguente,
Vampir (1921), dove il
vampiro è lo stesso Braun.
Nel
gennaio 1928 esce in Germania la versione cinematografica di Alraune
diretta da Henrik Galeen, prodotta dalla Ama-Film GmbH, appartenente
al Konzern
UFA. Galeen, sceneggiatore e regista, rilegge liberamente il romanzo
di Ewers (del quale era stato segretario); ne attenua parzialmente
l’elemento satirico e irrazionale ma realizza nondimeno un film
outré.
Trovata in Ewers la seduzione di ten Brinken da parte di Alraune,
Galeen la dilata sino a farne il centro di gravità del film,
focalizzato sui temi della femme
fatale e dell’incesto.
Il
fascino di Alraune
sta anche in una ragione per cui è stato spesso criticato, a partire
da Lotte Eisner: è un film di transizione; riproduce al proprio
interno il passaggio dalla tradizione classica del cinema fantastico
tedesco al nuovo realismo che si diffonde al cambio del decennio, con
lo stile distaccato e impersonale della “nuova oggettività”. Il
film possiede (somigliante in questo agli eroi del fantastico
tedesco) una doppia anima. L’elemento demoniaco al centro - la
donna distruttrice, interpretata da Brigitte Helm - passa da
semifantastico a melodrammatico e realistico. Sul piano formale il
film, splendidamente fotografato da Franz Planer, alterna uno stile
dichiaratamente post-espressionista ad uno più freddo e oggettivo.
Il polo fantastico prevale nella prima parte, quello
melodrammatico/realistico nella seconda, che peraltro a tratti
riprende atmosfere “espressionistiche” mediante l’uso delle
ombre e l’illuminazione. Ciò è facilitato dalla struttura
drammatica del film, costituito da blocchi compatti ma intervallati
da forti ellissi, una struttura “tedesca” frequente nelle
sceneggiature di Henrik Galeen, compreso Nosferatu
di Murnau.
In
apertura, viene evocata in didascalia la leggenda medievale della
mandragola, illustrata da una composizione di gusto pittorico: un
impiccato pende al chiaro di luna fra rocce e alberi scheletrici, una
figura umana si avvicina alla forca con una vanga. Stacco alla
biblioteca moderna del prof. ten Brinken (Paul Wegener) che parla ai
suoi allievi sui caratteri ereditari esaminando “scientificamente”
la leggenda della mandragola. Nota però l’evidenza alle sue spalle
della finestra, oscurata da rami che sembrano premere sulla stanza,
simbolo di un mondo vegetale e notturno che pesa sul razionalismo
scientifico. La separazione fra i due mondi salta quando il
professore apre la finestra parlando con accenti quasi magici del
vento che porta il polline di fiore in fiore. In effetti, possiamo
ritrovare nell’opera generale di Galeen un elemento vagamente
razionalizzante, che senza negare il fantastico lo incanala entro la
concezione di una meta-scienza magico-organicistica alla Paracelso -
un nome non ignoto nei circoli esoterici cui appartenevano Galeen ed
Ewers (2).
Galeen
trasforma la figura di ten Brinken in uno sperimentatore fanatico,
che vuole studiare i caratteri ereditari creando un essere in
laboratorio: uno stretto parente del dr. Frankenstein (occorre
insistere sull’influsso di Paul Wegener, specie con The
Magician
di Rex Ingram, sul Frankenstein
Universal?). Totalmente frankensteiniano (“Tu violi la natura”,
“La natura si vendicherà”) è il dialogo con Frank Braun,
imborghesito rispetto al romanzo di Ewers e ridotto alla figura
canonica del collaboratore spaventato dall’hybris
del progetto. Braun porta la prostituta in casa del professore, con
scena sadica della donna impaurita nella stanza, che ha una parete
dipinta con un demone orientaleggiante e maschere diaboliche
orientali appese alle pareti, sottolineate da inquiete soggettive.
Qui troviamo una soggettivizzazione dello spazio, una proiezione
dell’Io sullo spazio esterno, di matrice espressionista. In un
memorabile momento di terrore cinematografico, una porta si apre
nella parete dipinta rivelando un gabinetto medico, e il professore
in camice da chirurgo avanza verso la donna terrorizzata.
Il
secondo blocco narrativo ci porta all’istituto educativo delle
suore, con una splendida presentazione del personaggio di Alraune,
dove Galeen concentra diverse pagine del romanzo sulla sua crudeltà:
vediamo in dettaglio una mosca in precario equilibrio sul bordo di
una coppa, Alraune di profilo che la guarda con maligna fissità, il
suo dito che fa cadere l’insetto nel liquido. Questa catalisi,
come direbbe Barthes, consente attraverso un atto singolo di
concretizzare sinteticamente in modo fulminante un tratto del
personaggio.
In
questo segmento la recitazione stilizzata, unheimliche,
di Brigitte Helm le dà qualcosa di inumano, da mantide religiosa.
Più tardi, durante un discorso di benigno rimprovero della pia suora
(reso da Galeen in forme parodistiche), lei estrae da una scatolina
un insetto mostruoso - per la verità, un innocuo cervo volante - e
di nascosto glielo mette addosso. Nel dormitorio, Alraune balla sul
letto alzandosi la sottoveste sulle gambe, si copre di profumo con
esagerazione oscena, ne spruzza le compagne adoranti. La recitazione
è eccessiva, isterica, richiama i precetti della recitazione
espressionista.
Alraune
seduce un giovanotto e lo convince a rubare al proprio stesso padre
il denaro affidatogli dalla banca per cui lavora. I due fuggono in
treno. Alraune guarda dal finestrino con occhi grandi, freddi,
curiosi. Flirta alle spalle del giovane innamorato con un volgare
ganimede, illusionista in un circo. Galeen mette in scena questo
gioco a tre con un bellissimo uso dello spazio (scompartimento e
corridoio della carrozza ferroviaria) e dei riflessi sul vetro. Al
circo il giovanotto è ridotto a inserviente, nella classica figura
di umiliazione, mentre Alraune è assistente dell’illusionista.
Galeen sottolinea la meschinità dell’ambiente svelando con
realismo derisorio i piccoli trucchi del mestiere, come la gabbietta
attaccata sulla schiena del prestigiatore. Alraune civetta anche col
domatore dei leoni (in un’inquadratura di notevole sensualità i
due accendono una sigaretta accostando quelle che tengono in bocca,
come un bacio). Numerose sono nel segmento le allusioni all’elemento
ferino; per bravata Alraune entra anche nella gabbia dei leoni, che
non la toccano. Infine ten Brinken convince Alraune a ritornare con
lui.
Questo
è il punto di svolta del film; in seguito la tendenza a
un’inquadratura e illuminazione di tipo più oggettivo e realistico
distingue il film dal “fantastique” iniziale. Nella scenografia,
un lusso alto-borghese si sostituisce al romanzesco goticheggiante
dell’inizio e a quello pittoresco del circo. Una scena verso la
fine sembra dichiarare apertamente - con un filo d’ironia - questa
trasformazione, mostrandoci Alraune in una blouse
modernissima che fa ginnastica, ripresa in un totale
oggettivo, impersonale. Questa scena potrebbe appartenere benissimo a
una commedia o a un dramma realistico nella buona società; la sua
quotidianità elegante è il contrario del gotico minaccioso
dell’inizio.
E’
ambigua la possessività di ten Brinken, il falso padre, che
allontana un giovane corteggiatore: si rivolge alla “figlia”,
alla giovane donna o all’esperimento scientifico? Dell’esperimento
il professore tiene un diario, al quale confida il suo timore che
Alraune assomigli alla madre. Lei trova il diario e leggendolo viene
a conoscere le sue origini, in una scena dove un magnifico gioco di
illuminazione crea nell’inquadratura un conflitto di luce ed ombra.
La didascalia esprime la sua vergogna nello scoprirsi un esperimento,
figlia del vizio e del delitto. “Dov’è il mio posto fra gli
uomini?”.
“Nei
film tedeschi l’ombra diventa la figura del Destino” (Lotte
Eisner). Qui, nel puro stile del cinema fantastico tedesco, le ombre
prendono vita. Vediamo Alraune, sconvolta nella sua camera, che
proietta una gigantesca ombra contro la parete bianca. Poi sta per
uccidere ten Brinken addormentato, e vediamo protendersi l’ombra
delle sue mani sul dormiente, in una citazione diretta da Nosferatu.
“Io,
opera sua, mi vendicherò di lui”. Alraune decide di provocare nel
“padre” ingannatore un desiderio erotico che lo porterà alla
follia. Il film diventa un estremistico mélo di amore senile e di
distruzione dell’uomo da parte della donna, in armonia con
l’ossessione delle rivalità familiari e del masochismo maschile
presente nei film UFA degli anni ’20; il professor ten Brinken
anticipa il professor Rath (Der
blaue Engel). Anche
se, diversamente che in Ewers, Alraune sa già di non essere figlia
del professore, ciò non toglie nulla alla connotazioni incestuose
del racconto. Mentre Brigitte Helm tratteggia un fiammeggiante
ritratto di sessualità inaccessibile e maligna, Paul Wegener
trasforma l’ossessione scientifica dell’inizio in una patetica
descrizione di erotismo senile impotente; sui suoi tratti “asiatici”
disegna lampi di ottusa speranza, di timore e di mortificata
disperazione. Galeen contestualmente al progredire della seduzione ci
mostra la decadenza fisica dell’uomo.
Alraune
gioca con l’ambiguità del loro rapporto e lo umilia flirtando coi
numerosi spasimanti sotto i suoi occhi. Qui troviamo un’inquadratura
rimarchevole, lontana dai giochi “espressionisti” di luce e ombra
visti in precedenza: dettaglio dello specchietto rotondo da signora
che riflette l’occhio di Alraune - lo specchietto, spostato a
destra, riflette il viso accigliato di ten Brinken - poi, nuovamente
a sinistra, ritorna sull’occhio di lei. Anche di specchi è ricco
il fantastico tedesco, ma qui si tratta di un ampliamento descrittivo
dei punti di vista, un uso moderno e ammirevole della soggettiva.
Quando
ten Brinken è economicamente rovinato Alraune, nell’esaltazione di
un gelido trionfo, gli annuncia che lo abbandona. Impazzito, egli
tenta di pugnalarla; Alraune fugge via e si allontana con Frank
Braun, chiedendogli di darle un cuore nuovo in grado di amare.
Scriveva la Lichtbild-Buehne
nel 1928: “Non si può sfuggire alla sensazione che qui lo happy
ending sia una
concessione, forse superflua”. Il tema dell’amore come potenza
quasi soprannaturale è presente nell’opera di Galeen, ma qui
troviamo soprattutto il romanticismo popolare dei Sensationsfilme:
l’amore come rigenerazione spirituale che salva la donna
perduta; qui
evidenziato dalle didascalie finali come il dono di un’anima ad
Alraune, che letteralmente non ce l’ha. La duplicità, l’anima
divisa, ben si addice all’interprete di Metropolis!
Delle
precedenti versioni, perdute, Alraune
(Austria-Ungheria, Rex, 1918), di Mihaly Kertész (il futuro Michael
Curtiz) e Fritz Odon, sceneggiatura di Richard Falk (con Gyula Gal,
Jeno Torzs, Margit Lux, Géza Erdély, Kalman Kormendy) si richiama
anche ad Achim von Arnim e alla leggenda popolare; Alraune,
die Henkerstochter, gennant die rote Hanne (Germania,
Neutral Film, 1918) di Eugen Illes, anche sceneggiatore (con Hilde
Wolter, Max Auzinger, Friedrich Kuehne, Ernst Rennspies) è più
vicino al romanzo di Ewers.
Quasi
nulla si sa di Alraune
und der Golem di Nils
Chrisander (Germania, Deutsche Bioscop GmbH, 1919), tanto che ne è
anche stata messa in dubbio l’esistenza. Sopravvive un affiche
pubblicitario con i
due personaggi eponimi. Fu girato negli studi Bioscop a Neubabelsberg
nell’agosto del 1918; la fotografia era di Guido Seeber, figura
capitale tanto della cinematografia tedesca in generale quanto del
fantastico (basta pensare alla sua associazione con Paul Wegener).
Nel
1930 Brigitte Helm riprende il personaggio per una nuova versione
sonora, nella doppia parte di Alraune e della prostituta Alma:
Alraune,
di Richard Oswald (anche produttore per l’UFA), sceneggiatura di
Charlie Roellinghoff, fotografia di Guenther Oskar Krampf, con Albert
Basserman (ten Brinken) e Paul Paulsen, Agnes Straub, Liselotte
Schaak, Bernhard Goetzke. Oswald è oggi ricordato quasi
esclusivamente per i suoi Aufklaerungfilme
sui problemi sessuali (all’epoca accusati di pornografia), ma era
un abile regista a tutto campo che aveva avuto enorme successo con i
suoi film storici; fu anche fra i precursori del cinema fantastico
tedesco. In Alraune
Oswald mira al realismo; intendendo differenziarsi da Galeen, nonché
sfruttare le potenzialità del parlato, introduce lunghi dialoghi di
caratterizzazione dei personaggi e impone un’interpretazione più
psicologica. Alraune qui è “l’innocenza nata dal male e che lo
provoca involontariamente”, come la definisce Brigitte Helm in una
intervista alla Lichtbild-Buehne
(3): una vittima della circostanze che, venuta a sapere delle sue
origini e del suo destino, si suicida.
Nel
secondo dopoguerra apparirà ancora un Alraune
(Germania Ovest,
Carlton, 1952), diretto da Arthur Maria Rabenalt su sceneggiatura di
Fritz Rotter, che cerca di modernizzare l’assunto sfruttando il
tema dell’inseminazione artificiale. Protagonisti Hildergard Knef
ed Erich Von Stroheim (con Karlheinz Boehm, Rolf Henniger, Harry
Halm, Hans Cossy). Hildegard Knef dona al personaggio la sua figura
androgina, la voce roca e una certa esplicitezza sessuale quando
mostra il seno nudo a Erich Von Stroheim. Ma la regia di Rabenalt e
il film in generale risultano deludenti.
Menzioniamo
en passant
il modesto film italiano La
mandragola di Alberto
Lattuada (1952), con Rosanna Schiaffino, Totò, Philippe Leroy.
Ispirato alla commedia di Machiavelli, è una storia di intrighi
amorosi nel Rinascimento; una scena notturna illustra l’estrazione
della mandragola col sacrificio di un cane.
Certamente
questi titoli non esauriscono gli esseri magici pseudo-umani di
origine vegetale. Solo tra i film recenti, ha qualcosa di
mandragolesco il pezzo di legno di forma umanoide adottato da due
coniugi, che cresce fino a diventare un mostro, nel piccolo
capolavoro di Jan Svankmajer Otesanek
(Repubblica Ceca/Gran Bretagna, 2000); similmente ricorda il mito
della mandragola la donna nata da una pianta, bella seduttrice e
insieme mostro assassino, dell’horror filippino gradevolmente naïf
di Rico Maria Ilarde Ang
babaeng putik/Woman of Mud
(Filippine, 2000).
La
mandragola è sempre viva. Dalla sua nuvoletta in cielo - o più
probabilmente da un posto più in basso e più caldo - Hanns Heinz
Ewers può sorridere soddisfatto.
- Edizione spagnola: La mandragora, trad. di José Rodriguez Ponce, Valdemar, Madrid 1993.
- Secondo Luciano Berriatua, Proverbios chinos de F.W. Murnau, i Rosacroce tedeschi, in rapporti con la famosa Golden Dawn britannica.
- Riportata in Fantastique et réalisme dans le cinéma allemand, 1912-1933, Musée du Cinéma, Bruxelles 1969.
(pubblicato
nel 2002 in traduzione spagnola nel volume Cine fantástico y de terror alemán (1913-1927), Donostia Kultura, San Sebastián)