martedì 16 luglio 2013

Pacific Rim

Guillermo Del Toro

Guillermo Del Toro ha diviso la sua carriera tra film più personali (famoso Il labirinto del fauno) e film, si potrebbe dire, più hollywoodiani, come Mimic (c'è anche un punto di congiunzione, forse irripetibile: i due Hellboy). Pacific Rim appartiene senza alcun dubbio alla seconda categoria; se il regista si fosse firmato con uno pseudonimo, avremmo avuto una bella difficoltà ad accorgercene. Ciò non vuol dire, tuttavia, che il film non sia piacevole.
E' un omaggio dichiarato al cinema fantastico giapponese, che incrocia due sottogeneri tutt'altro che estranei l'uno all'altro. Da un lato i kaiju eiga, cioè i film di mostri, in cui ciclopici bestioni squamosi (Godzilla o Rodan, Baragon o Ghidorah) distruggono mezzo Giappone prima di essere abbattuti. Dall'altro i telefilm e cartoni animati di robottoni giganti comandati da un agente umano al loro interno, come Mazinga e Goldrake.
Il presupposto è semplice - tant'è vero che Pacific Rim per fornire il contesto se la sbriga, coll'ausilio di un'inelegante voce over, in due minuti. Dal Pacifico emergono mostri giganteschi, i Kaiju, mandati da alieni che vogliono spazzar via l'umanità. Per combatterli sono stati inventati gli Jaeger: robot giganti guidati da coppie legate fra loro da un rapporto quasi telepatico - infatti di solito sono fratelli o padri e figli. Poi i politici, come sempre, si mettono di mezzo e mandano in pensione gli Jaeger in favore di una super-muraglia di sbarramento, che naturalmente non tiene (ma i politici non vanno mai al cinema?). Ora gli ultimi Jaeger rimasti devono combattere la battaglia finale.
La regia di Del Toro, se non è personale, è competente. Va segnalato un raro tocco di ironia all'inizio del film, quando un paio di cercatori di residui di metallo sulla spiaggia restano delusi trovando sotto la sabbia un piccolo robot giocattolo - ed ecco che davanti a loro esce dall'acqua il robottone gigantesco, e crolla semidistrutto. I personaggi dei due scienziati amici-nemici sono meno stereotipati del solito; molto gustosa è la descrizione del mercato nero di parti dei corpi dei Kaiju abbattuti che è fiorito a Hong Kong. Vediamo un vero e proprio supermarket segreto dei pezzi di Kaiju, e lo dirige, nei panni del gangster Hannibal Chow, niente meno che Ron Perlman. Questo è un accenno di firma del regista: Ron Perlman è l'indimenticato protagonista della saga Hellboy.
Alla solennità molto macho dei piloti e del loro comandante risponde il personaggio della combattente giapponese Mako (Rinko Kikuchi), che declina con sobrietà quel tema classico del cinema eroico che è lo shock disabilitante: mentre è al comando del robot insieme al protagonista Charlie Hunnam, è sopraffatta dai ricordi di quand'era bambina e ha visto morire i suoi genitori. La sequenza in flashback, con la crudeltà della descrizione del suo terrore, è uno dei pochi tocchi nel film che fanno pensare immediatamente a Guillermo Del Toro, il quale tratta spesso, in forme fantastiche, del dolore dell'infanzia.
Per inciso, questa scena di perdita di controllo della Mako adulta contiene una bizzarra espressione non spiegata dal film: i suoi controllori terrorizzati (una donna in crisi psicotica alla guida di un mega-robot distruttore non sono bruscolini) continuano a gridarle di “non inseguire Rabbit”. Azzardo un'ipotesi: potrebbe essere mal tradotto e significare metaforicamente “seguire il coniglio”, da Alice nel Paese delle Meraviglie.
Ma naturalmente abbiamo comprato il biglietto per le scene di combattimento e disastro. Sono puro cinema giapponese “godzilliano” le scene dei Kaiju che camminano sfasciando tutto fra i grattacieli della città (Hong Kong) e i loro scontri con gli Jaeger, in mare o in terra, dove i contendenti si prendono a sganassoni usando come armi contundenti vagoni ferroviari o un'intera nave. Manca, naturalmente, in Pacific Rim quell'elemento naïf che era forse il maggior piacere dei vecchi kaiju eiga giapponesi: vedere un mostro in plastilina che calpestava modellini di case era più godibile del realismo visuale di questo film in cui tutto sembra vero. Ma sarebbe assurdo, solo per questo, negare il divertimento. E quindi ce la spassiamo quando i robot si scazzottano con i mostri annunciando a voce alta, proprio come nei cartoon giapponesi, il tipo di arma che intendono usare - ed è solo naturale che facciamo il tifo per loro. Forza Jaeger! Forza lupi! So' finiti i tempi cupi!

sabato 13 luglio 2013

The Lone Ranger

Gore Verbinski

Quando un film vuole riprendere un personaggio di peso della mitologia popolare, come il Lone Ranger (ignoto in Italia ma assai familiare negli States), deve, per così dire, declinarlo al presente. Cioè rispondere alle esigenze, alla morale, ai gusti, alla concezione narrativa del proprio tempo. Teoricamente sarebbe possibile darne una lettura rigorosamente “antiquaria”, nello stile di The Artist - ma significherebbe andare a caccia di guai al box office.
Per alcuni personaggi è facile, meno per altri; e vorrei sostenere qui che il sottovalutato The Lone Ranger di Gore Verbinski supera la prova con brillante ingegnosità. Sì, lo fa con un filmone che è molto lungo e che assomiglia a un pot pourri la cui lista degli ingredienti copre mezza pagina; ma chi se ne importa, stante che durante la visione non ci si annoia mai - e più di una volta si rimane ammirati?
Non bisogna sottovalutare la difficoltà. Perché questo personaggio - nato nel 1933 in radio, e poi moltiplicatosi in serial cinematografici, libri, telefilm, film, fumetti - è strutturato da una serie di topoi caratterizzanti abbastanza difficili da riportare nel cinema contemporaneo. Un tizio col cappello da cowboy bianco e la mascherina, che usa pallottole d'argento (ma non uccide) e che cavalca gridando “Hi-yo, Silver! Away!”, sulle note di Rossini, rischia di apparire anacronistico e quasi lezioso. Per di più, il Lone Ranger ha per aiutante e numero due l'indiano Tonto (che lo chiama Ke-mo-sah-be e parla appunto come gli indiani nei vecchi film) - il che rischia di ferire la stupida sensibilità politically correct di oggigiorno.
Il film risolve quest'ultimo problema rovesciando l'importanza dei personaggi. Tonto da sidekick diventa il vero protagonista, mentre il Lone Ranger impara da lui. Non è che il nome indiano Tonto significhi “tonto”, naturalmente, ma ci dà il destro di annotare che dei due il vero tonto è il Lone Ranger. Nel ruolo dell'indiano, traccia un altro dei suoi ritratti memorabili Johnny Depp, col viso impiastrato di terra e con un corvo imbalsamato (al quale dà del becchime!) come copricapo. Mantiene anche il modo tradizionale di parlare (delizioso il suo “Dobbiamo saltiamo!”, “Dobbiamo andiamo!”): può permetterselo in uno spirito camp, tanto più in un film schierato dalla parte degli indiani.
A giustificare i tratti anacronistici del Lone Ranger non provvede solo una sceneggiatura tongue in check (di Justin Haythe, Ted Elliott, Terry Rossio) che contiene tocchi veramente spiritosi: vale da solo il prezzo del biglietto vedere il Lone Ranger e Tonto che, come pretesto per investigare, fanno valere i regolamenti sull'igiene di oggi in un bordello del West (dove la maîtresse è una grande Helena Bonham Carter con una gamba d'avorio con arma da fuoco incorporata). La trovata vincente è quella di inserire il racconto base in una cornice: nel 1933 un bambino vestito da Lone Ranger visita una Mostra del Far West; la statua del “Nobile Selvaggio” si muove, rivelandosi Tonto vecchissimo, e gli racconta la storia com'è accaduta nel 1869. Ciò sposta tutto il film su un piano metanarrativo, ricco di ironia (Tonto che in un fermo immagine volta la testa per discutere con il bambino, o l'apparizione nella storia interna di un oggetto - il sacchetto di noccioline - appartenente al racconto-cornice).
C'è di più: Tonto rappresenta la classica figura del narratore inaffidabile, perché la sua memoria è labile, perché narra il proprio mito, e perché appartiene a un'altra cultura da quella bianca a cui parla - infatti la sua prima apparizione è in una mostra, come specimen di un mondo estinto, accanto al bisonte e al grizzly. Così vediamo l'identità tradizionale del Lone Ranger ricomporsi pezzo per pezzo attraverso il doppio filtro dell'inattendibilità del narratore infradiegetico e dell'ironia del “grande narratore” che è, come istanza narrante incorporea, il film stesso.
Questa struttura tutt'altro che banale consente un doppio grado di distanziazione, che lascia spazio all'assurdità del racconto e contemporaneamente smussa il lato aggressivo dell'ironia. Ecco dunque la traduzione oltraggiosa del nome Ke-mo-sah-be, o gli scherzi sul cavallo Silver, che appartiene alla stessa meravigliosa famiglia equina-quasi-umana del Trottalemme di Jacovitti e del Jolly Jumper di Lucky Luke. La stessa libertà narrativa consente al racconto di sviluppare l'elemento fantastico, con dettagli imprevisti e stupefacenti (i conigli che si rivelano mostruosi e carnivori, il cavallo che mangia gli scorpioni), e giustifica le spacconate ipercinetiche del finale. Gore Verbinski è un regista perfettamente inserito nel sistema commerciale (per questo i critici paludati non lo riconoscono) ma ha un'audacia e un senso visuale che marcano in senso autoriale ogni film della sua variegata carriera.

lunedì 8 luglio 2013

World War Z

Marc Forster

La prima raccomandazione, se uno vuol vedere World War Z di Marc Forster, è quella di dimenticarsi del libro omonimo di Max Brooks da cui il film si dice tratto - e dal quale in realtà prende semplicemente il titolo, con l'idea di un'epidemia di zombi a livello mondiale. Il romanzo del figlio di Mel Brooks - probabilmente la miglior opera narrativa sugli zombi finora scritta - consiste di una serie di interviste ai veterani e ai sopravvissuti della guerra mondiale contro i morti viventi, che raggiunge un triplice scopo: narrare in flashback la guerra, tracciare un quadro della società fortemente cambiata che ne esce, delinearne l'impatto sulla psicologia dei sopravvissuti. Il modello è la memorialistica sulla seconda guerra mondiale; grazie a buone doti narrative e una consequenzialità logica rigorosa, Brooks trasmette una sensazione di verità agghiacciante.
Col che, è chiaro che i produttori della Paramount avrebbero potuto realizzare un Il giorno più lungo del cinema zombi. Ma gli è venuto freddo ai piedi (la Paramount ha una lunga tradizione di mancanza di coraggio, ce lo ricordava recentemente anche Hitchcock di Gervasi) e hanno preferito andare sul sicuro, cominciando col sacrificare la costruzione a mosaico del libro. Il cinema ha sempre bisogno di un Brad Pitt. Così la narrazione è stata centrata su un personaggio-salvatore (cosa ancora accettabile) e la sua famiglia (ohi) in contatto continuo via cellulare (ohi ohi ohi). Per dare a Brad Pitt qualcosa in più da fare, anche gli zombi differiscono dal romanzo, sono veloci e fortissimi; pure questo è lecito, anche se sacrifica la biologia. Invece è indicativo che non sia chiaro il momento in cui il mondo capisce che gli zombi sono cadaveri viventi (in tutti i film del genere l'epidemia è dapprima razionalizzata, di solito come rabbia, e poi: “Oddio, i morti camminano”). Questo è uno dei tanti segni di goffaggine nel film: poiché World War Z è stato pesantemente riscritto, rappezzato e rimontato.
Per i dettagli, basta andare su Wikipedia inglese. Dopo che la maggior parte del film era stata girata, sono stati chiamati in aiuto Damon Lindelof e Drew Goddard per riscrivere la sceneggiatura; poi è stato girato molto materiale supplementare; poi, come se non bastasse, pure questo è stato tagliato (i pochi secondi della “battaglia di Mosca”, che galleggiano nel finale come un relitto su acqua schiumosa, sono un residuo di 12 minuti di girato). A tal proposito, formulerei un'ipotesi: c'è un personaggio di giovane virologo che da come è presentato sembra destinato a rappresentare la voce scientifico-filosofica del racconto (come Jeff Goldblum in Jurassic Park) - ma muore inopinatamente (e in modo pressoché invisibile) nella scena dopo. Ha tanto l'aria di un personaggio edited out nella massiccia ricucitura.
Risultato di tanta fatica? Se esiste l'Oscar per la sceneggiatura più sciocca, World War Z ha già in tasca la nomination. Tutta la parte “familiare” di Brad Pitt è un disastro di leziosa implausibilità; quando lui riesce ad arrivare all'ospedale nel Galles, l'accoglienza è così assurda che da spettatore mi aspettavo saltasse fuori un nero complotto; e non faccio spoiler sul modo, inventato da Brad Pitt, di battere gli zombi, annoto solo che è una delle stupidaggini-monstre della storia del cinema.
L'unico motivo per guardare questo film consiste nel concetto lapalissiano che gli zombi sono sempre zombi, ovvero, è un sottogenere sempre divertente. Un paio di scene si lasciano ricordare: paradossalmente, la migliore per costruzione della tensione è quella iniziale con l'esplosione della crisi in un ingorgo stradale. La piramide umana (inumana?) di zombi in CGI che viola il muro di Gerusalemme è un affronto alla logica (e già, gli israeliani costruiscono la muraglia e poi economizzano su sentinelle e/o sensori?), però sul piano visuale ha una sua vivezza e originalità. Lo zombi che batte i denti sul vetro divisorio, nella sequenza dell'ospedale, è così buono che lo avremmo voluto in un film migliore.
Però, se pensiamo che il romanzo di Brooks (non volevo ricaderci, ma è inevitabile) è chiaramente scritto in modo cinematografico... e contiene quello che poteva diventare un caposaldo del cinema zombi, la battaglia (perduta) di Yonkers... ci passa ogni sentimento amichevole verso la Paramount, Marc Forster e il suo sciagurato plotone di sceneggiatori e contro-sceneggiatori. Questa gente ci ha consegnato non un film di zombi ma uno zombi di film.