Quando
un film vuole riprendere un personaggio di peso della mitologia
popolare, come il Lone Ranger (ignoto in Italia ma assai familiare
negli States), deve, per così dire, declinarlo al presente. Cioè
rispondere alle esigenze, alla morale, ai gusti, alla concezione
narrativa del proprio tempo. Teoricamente sarebbe possibile darne una
lettura rigorosamente “antiquaria”, nello stile di The
Artist
- ma significherebbe andare a caccia di guai al box office.
Per
alcuni personaggi è facile, meno per altri; e vorrei sostenere qui
che il sottovalutato The
Lone Ranger
di Gore Verbinski supera la prova con brillante ingegnosità. Sì,
lo fa con un filmone che è molto lungo e che assomiglia a un pot
pourri la cui lista degli ingredienti copre mezza pagina; ma chi se
ne importa, stante che durante la visione non ci si annoia mai - e
più di una volta si rimane ammirati?
Non
bisogna sottovalutare la difficoltà. Perché questo personaggio -
nato nel 1933 in radio, e poi moltiplicatosi in serial
cinematografici, libri, telefilm, film, fumetti - è strutturato da
una serie di topoi
caratterizzanti abbastanza difficili da riportare nel cinema
contemporaneo. Un tizio col cappello da cowboy bianco e la
mascherina, che usa pallottole d'argento (ma non uccide) e che
cavalca gridando “Hi-yo, Silver! Away!”, sulle note di Rossini,
rischia di apparire anacronistico e quasi lezioso. Per di più, il
Lone Ranger ha per aiutante e numero due l'indiano Tonto (che lo
chiama Ke-mo-sah-be e parla appunto come gli indiani nei vecchi film)
- il che rischia di ferire la stupida sensibilità politically
correct di
oggigiorno.
Il
film risolve quest'ultimo problema rovesciando l'importanza dei
personaggi. Tonto da sidekick
diventa il vero protagonista, mentre il Lone Ranger impara da lui.
Non è che il nome indiano Tonto significhi “tonto”,
naturalmente, ma ci dà il destro di annotare che dei due il vero
tonto è il Lone Ranger. Nel ruolo dell'indiano, traccia un altro dei
suoi ritratti memorabili Johnny Depp, col viso impiastrato di terra e
con un corvo imbalsamato (al quale dà del becchime!) come copricapo.
Mantiene anche il
modo tradizionale di parlare (delizioso il suo “Dobbiamo
saltiamo!”, “Dobbiamo andiamo!”): può permetterselo in uno
spirito camp,
tanto più in un film schierato dalla parte degli indiani.
A
giustificare i tratti anacronistici del Lone Ranger non
provvede solo una sceneggiatura tongue
in check (di
Justin Haythe, Ted Elliott, Terry Rossio) che contiene tocchi
veramente spiritosi: vale da solo il prezzo del biglietto vedere il
Lone Ranger e Tonto che, come pretesto per investigare, fanno valere
i regolamenti sull'igiene di oggi in un bordello del West (dove la
maîtresse
è una grande Helena Bonham Carter con una gamba d'avorio con arma da
fuoco incorporata). La trovata vincente è quella di inserire il
racconto base in una cornice: nel 1933 un bambino vestito da Lone
Ranger visita una Mostra del Far West; la statua del “Nobile
Selvaggio” si muove, rivelandosi Tonto vecchissimo, e gli racconta
la storia com'è accaduta nel 1869. Ciò sposta tutto il film su un
piano metanarrativo, ricco di ironia (Tonto che in un fermo immagine
volta la testa per discutere con il bambino, o l'apparizione nella
storia interna di un oggetto - il sacchetto di noccioline -
appartenente al racconto-cornice).
C'è
di più: Tonto rappresenta la classica figura del narratore
inaffidabile, perché la sua memoria è labile, perché narra il
proprio mito, e perché appartiene a un'altra cultura da quella
bianca a cui parla - infatti la sua prima apparizione è in una
mostra, come specimen
di un mondo estinto, accanto al bisonte e al grizzly. Così vediamo
l'identità tradizionale del Lone Ranger ricomporsi pezzo per pezzo
attraverso il doppio filtro dell'inattendibilità del narratore
infradiegetico e dell'ironia del “grande narratore” che è, come
istanza narrante incorporea, il film stesso.
Questa struttura
tutt'altro che banale consente un doppio grado di distanziazione,
che lascia spazio all'assurdità del racconto e contemporaneamente
smussa il lato aggressivo dell'ironia. Ecco dunque la traduzione
oltraggiosa del nome Ke-mo-sah-be, o gli scherzi sul cavallo Silver,
che appartiene alla stessa meravigliosa famiglia equina-quasi-umana
del Trottalemme di Jacovitti e del Jolly Jumper di Lucky Luke. La
stessa libertà narrativa consente al racconto di sviluppare
l'elemento fantastico, con dettagli imprevisti e stupefacenti (i
conigli che si rivelano mostruosi e carnivori, il cavallo che mangia
gli scorpioni), e giustifica le spacconate ipercinetiche del finale.
Gore Verbinski è un regista perfettamente inserito nel sistema
commerciale (per questo i critici paludati non lo riconoscono) ma ha
un'audacia e un senso visuale che marcano in senso autoriale ogni
film della sua variegata carriera.
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