Quentin Tarantino
Credevamo di sapere che Hitler è morto nel bunker di Berlino nel 1945 - ma ci sbagliavamo. Ha incontrato la meritata fine nel '44, falciato assieme a Josef Goebbels dai mitra di due soldati americani del gruppo segreto dei Basterds, dentro un cinema in fiamme a Parigi; quell'incendio ha spazzato via tutta la nomenklatura nazista, e infatti la guerra è finita nel 1944.
Questo almeno nel mondo di Quentin Tarantino, nell'affascinante “Bastardi senza gloria” (affascinante, ma inferiore ai capolavori assoluti tarantiniani quali “Pulp Fiction” e “Kill Bill”, come cercherò di dire sotto). Com'è noto il film si ispira alla lontana a “Quel maledetto treno blindato” di Enzo G. Castellari, che in inglese è “The Inglorious Bastards” - donde il titolo “Inglourious Basterds” in tarantinese.
Prima questione: come sarebbe a dire che Hitler è morto nel '44? Potremmo allegare quella branca della letteratura fantastica, nata dalla teoria degli universi alternativi, che si chiama fantasia ucronica; oppure, probabilmente più vicina al pensiero di Tarantino, la pratica del reboot nei fumetti (quando la biografia di un personaggio, stratificatasi nelle serie, viene modificata in profondità); ma sarebbe inutile. “Basterds” si fonda sulla concezione tarantiniana di cinefilia estrema. Alla base dell'opera del regista c'è la concezione che il cinema è tutto: per Tarantino il cinema è l'unico dio, “e tu non avrai altro dio fuori che me”.
Al suo concetto cinefilo (cinefilia come passione per quel cinema ultrapopolare che fa strillare i critici come vergini palpeggiate) si lega il cosiddetto citazionismo di Tarantino, che in realtà è molto di più. Come mostra con la massima chiarezza “Kill Bill”, Tarantino lavora facendo emergere il senso dalla giustapposizione di elementi “altri”, frammenti di memoria filmica rifatti e celebrati. Fa cioè un lavoro che in arte figurativa è riconosciuto e codificato, anzi è uno dei cardini dell'arte del Novecento; mentre al cinema lo è a livello di teoria, ma non nell'applicazione.
Tutta l'avventura dei Basterds del tenente Aldo Raine (il nome è un omaggio all'attore Aldo Ray) si svolge sub specie cinematographica. Non è cioè la messa in scena di un'azione ipoteticamente reale nel pertinente universo diegetico, bensì di una serie di situazioni cinematografiche (e fumettistiche) riproposte come feticcio. Da notare la difficoltà di identificare tutti i riferimenti (che ne sia metafora il gioco delle carte col nome da indovinare che vediamo nel film?). Mentre solitamente una citazione letteraria o cinematografica è lì per essere riconosciuta, qui l'elemento citazionistico quasi diventa soggettivo: diventa un'autobiografia cinematografica di Tarantino, un proprio cine-ritratto.
I nomi-citazione (il più divertente? Il generale inglese Ed Fenech, trasparente omaggio a Edwige Fenech) sono solo la crosta esterna di questa operazione. Alla quale dà un grande apporto la musica - vedi lo splendido inizio completamente western, sia come situazione e drammaturgia (persino le battute), sia come specifica evocazione attraverso la score morriconiana. E non a caso la sequenza evoca in conclusione quell'immagine di “Sentieri selvaggi” già citata in “Kill Bill” come vera immagine generatrice.
Già sapevamo che il cinema interviene da padrone sul tempo e la morte. Quando in “Basterds” Shosanna uccide Fredrick mentre sta proiettando il film da lui interpretato, il film diegetico (il film nel film) ce lo mostra ancora vivo. Tarantino parte da questo concetto ovvio e va terribilmente più in là. Il cinema per lui può permettersi di interloquire con lo spettatore fermando la narrazione per informarci sulla natura infiammabile delle vecchie pellicole. Di condensare un antefatto nella brusca nettezza di una didascalia (la riapparizione di Shosanna a Parigi), come ai tempi del muto. Di segnalare un personaggio importante nella folla semplicemente disegnando un nome e una freccia, come qui Goering e Bormann. In altri termini Tarantino porta all'estremo - con un coraggio e una sfacciataggine non lontani da quelli dei suoi Basterds - la concezione stabilitasi nel cinema della modernità (pensiamo a Godard) in opposizione a quello classico.
E se il cinema può permettersi tutto questo, perché non potrebbe permettersi - a propria maggior gloria - di cambiare la Storia a uso del plot? Risposta: non c'è alcun motivo per cui non possa. Semplicemente, questa hybris nessuno l'aveva mai osata prima.
Non mi nascondo affatto le implicazioni di ordine filosofico e morale di tale pericolosa evoluzione (che mi sembra interessante accostare a un'altra evoluzione: la perdita del referente “profilmico” con l'avvento della computer graphics, e su un altro piano col passaggio dalla pellicola al digitale). Ma come non riconoscerne il valore spettacolare ed estetico?
“Inglourious Basterds” si articola su un triplo piano. Sul piano “ontologico” è l'esaltazione del potere generativo e distruttivo (leggi: divino) del cinema, quale entità superiore all'assoluto “già dato” della realtà. Sul piano diegetico, ciò si traduce nel racconto di un attentato nel cinema (l'incendio di una sala cinematografica) e attraverso il cinema (le pellicole di nitrato infiammabile), la vendetta di Shosanna contro i nazisti che le hanno massacrato la famiglia. Sul piano simbolico, il discorso si concretizza visivamente in un'immagine memorabile: nella metà superiore dell'inquadratura lo schermo su cui è proiettato il film-nel-film, nella metà inferiore il viluppo di pellicole infiammabili, pronto ad essere acceso; nota che queste pellicole sono una collezione di vecchi film, una cineteca privata: è il cinema che uccide il cinema. Ancor più ne è immagine-simbolo perfetta e definitiva il volto gigante di Shosanna (proiettato sullo schermo) nel cinema in fiamme; la sua risata che echeggia dagli altoparlanti di sala (“Voi state per morire tutti.... e questo è il volto della vendetta ebrea”); il suo volto gigante che, caduto lo schermo, si disegna proiettato sopra le volute di fumo che avvolgono la sala. C'è qualcosa di langhiano in questo superbo finale; e credo si possa dire che in generale Fritz Lang è uno dei numi tutelari di “Basterds” (non solo dunque il cinema di serie B).
Se tutto il film raggiungesse il livello drammatico del suo sublime finale, o dell'ammirevole inizio, non esiteremmo a segnarlo fra i capolavori assoluti di Quentin Tarantino. Ma così non è.
Intendiamoci: è un grande film, da vedere e rivedere con crescente godimento. Contiene alcune scene di tensione quasi intollerabile. Sprizza genialità nella messa in scena e nell'inventiva oltraggiosa (esempio, l'idea di mettere in scena un Hitler comico accanto a un Goebbels adeguatamente mefitico). Ritorna il folle umorismo tarantiniano - in massima parte nell'interpretazione più rilevante del film, quella di Christoph Waltz (non per nulla premiato come miglior attore a Cannes) nel ruolo del temibile colonnello SS Landa, solo personaggio degno di entrare nel pantheon delle grandi figure di Tarantino. In bocca a lui troviamo il discorso della differenza di percezione dei ratti e degli scoiattoli, che è il classico filosofeggiare di Tarantino applicato alla mentalità nazista, e uno dei pochissimi momenti in cui la vis philosophica tarantiniana fa capolino nel film.
Ma “Pulp Fiction” e “Kill Bill”, per citare solo i titoli più noti, possedevano nella loro costruzione una drammaticità profonda - che nel presente film si esprime appieno solo nel primo e nell'ultimo capitolo. Nella pur deliziosa parte mediana c'è suspense (la scena nel sotterraneo è fenomenale), c'è intelligenza, c'è grande gusto narrativo - ma non c'è questa drammaticità.
A parte la questione che Tarantino ha improvvidamente tagliato in montaggio un paio di sequenze, sarebbe probabilmente ingeneroso considerarlo un difetto: perché, semplicemente, qui a Tarantino interessa altro. Tutto il suo interesse si concentra sul potere generatore del cinema. A questo discorso Tarantino sacrifica tutto (anche il suo amato feticismo dei piedi femminili, che emerge in una sola scena - geniale, col suo pazzesco riferimento a Cenerentola). La coerente grandezza di questo estremismo di concezione ha diritto a un solo aggettivo: eroico.
sabato 24 ottobre 2009
lunedì 19 ottobre 2009
Baarìa
Giuseppe Tornatore
Dobbiamo ringraziare il Centro Espressioni Cinematografiche per aver potuto vedere a Udine “Baarìa” come dovrebbe essere visto dovunque, cioè parlato in dialetto siciliano coi sottotitoli. Ma pure così (non oso nemmeno immaginare come sia la versione doppiata in italiano) il film è deludente. Nella sua aspirazione alla grandeur Giuseppe Tornatore ha perso quella mano rievocativa, quell'ingegnaccio narrativo di cui aveva dato prova in “Nuovo Cinema Paradiso” (anche se compare nel presente film, dove Tornatore non si fa mancare nulla, una assai modesta ripresa di ambienti e di atmosfera di quello).
L'intenzione di “Baarìa” è di realizzare “il” grande quadro storico, politico, narrativo e poetico di Bagheria e della Sicilia, attraverso tre generazioni: il protagonista, che si pone come perno della narrazione, suo padre prima e suo figlio poi. Per questa strada dell'aspirazione al tableau Tornatore legittimamente si accosta a quella tradizione “operistica” che serpeggia sotterranea nel cinema italiano (senza sorpresa, vista la centralità dell'opera lirica nella nostra cultura): quando la tensione narrativa culmina e si rilascia in grandi momenti collettivi enfatici e la macchina da presa abbraccia un largo quadro riempito di figure dal movimento coordinato, con dilatazione del commento musicale. Questi momenti, che per così dire sublimano l'azione individuale inserendola per un momento nel tutto, riferendoci appunto all'opera lirica li possiamo chiamare corali. Tornatore si riallaccia a questa tendenza “operistica” ma ne dimentica - specie nella prima parte del film, che per ironia è la più strutturata - il principio base: la scansione per cui i momenti di esplosione corale devono costituire un culmine entro lo svolgimento. “Baarìa” è tutt'intero un momento culminante. Sembra un'“Aida” all'Arena di Verona composta per tre ore della “Marcia trionfale” con gli elefanti. “Baarìa” è il vero esempio di arte pompier.
Gonfio, retorico, gridato, questo film è tutta enfasi. Non per nulla gru e dolly sono la sua cifra stilistica: perché sono solennizzanti. Anche il montaggio vuol essere veloce, impositivo, tranchant - ma finisce per apparire isterico. I raccordi sono fortemente enunciati, si potrebbe dire pomposi; alcuni sono convincenti (esempio: i colpi dati a un bambino spingendolo contro l'albero/l'inchino degli attori dello spettacolo teatrale), altri retorici, molti sono vacui.
E' proprio quest'enfasi continua che, amalgamando tutta la tensione emotiva del film nel “fortissimo”, perviene ad annullare l'effetto enfatico di singole scene ben realizzate, come quella del bombardamento (inutile aggiungere che è un problema presente in tutto il cinema di Tornatore). Qui la questione è rovinosamente peggiorata da una score da omicidio di Ennio Morricone.
Ma c'è di peggio. Ricorre in “Baarìa”, con effetti disastrosi, una fallimentare ricerca dell'effetto poetico: onde il Kitsch è la chiave di volta dell'intero film. Si potrebbe mettere su carta un intero museo degli orrori di “Baarìa”: il bambino che correndo sembra alzarsi in volo all'inizio, la visualizzazione fantastica dei mostri di Palagonia correlata a quelli reali, la supersciocchezza a due tempi della mosca dentro la trottola, l'orrido risveglio del bambino addormentato dietro la lavagna negli anni '30 che esce e va in giro nella Bagheria d'oggi, l'annesso incrocio temporale aspirante poetico (trova nella “sua” casa in demolizione l'orecchino fatto volar via da lui adulto con una sberla alla figlioletta e dice agli operai “E' di mia figlia”), l'altra corsa in cui incrocia l'altro bambino di un diverso piano temporale... Si rimane increduli di fronte a questa ricerca sfacciata dell'effettazzo poetico: sembra di rivedere un certo cinema “artistico/pensoso” degli anni sessanta e seguenti, tipo i peggiori Taviani (“Good Morning Babilonia”).
Se almeno la prima arte, con tutta la sua stancante pomposità, riusciva a evitare la noia, nella seconda il film si perde, gira a vuoto, fa pensare a una nave senza timone. Solo l'irresolutezza può spiegare una scena solennemente stupida come quella dell'amico del protagonista che vuole morire e va a chiedere un veleno al farmacista. Alla sensazione di “stanca” contribuisce la pletora di importanti attori impiegati. Dei “Funerali di Togliatti” di Guttuso, con la sua moltiplicazione di ritratti nella folla, si disse sarcasticamente che sembrava un quadro dipinto da Alighiero Noschese. “Baarìa” trasmette a volte lo stesso effetto: vedi l'inquadratura inutilissima (alla “Che le facciamo fare?”) di Monica Bellucci che si smanazza col muratore.
Il senso profondo del progetto di Tornatore è, come s'è detto, di inserire i destini personali nel grande flusso della Storia, che lo contiene e li determina. Sul piano della Storia vi sono alcune scene riuscite: la migliore è l'evocazione abilmente indiretta della strage di Portella della Ginestra: appare il corteo comunista con le bandiere rosse a lutto e il motivo di queste è rivelato dalla mdp che scorrendo indietro rivela il titolo di un giornale. Oppure la sequenza del poliziotto e del comunista vicini di casa che escono e camminano sui due lati del marciapiede ignorandosi, ambedue salutati da mogli preoccupate perché vanno allo scontro (e tornano entrambe a casa malridotti); oppure il protagonista che enuncia per un giornalista i nomi dei morti di mafia, fra le montagne, nella pagina più sobria del film. Altre volte il riferimento storico è meno chiaro (la scena del compagno che esce dal PCI per aderire ai socialisti allude alla crisi del 1956 dopo l'invasione dell'Ungheria?). In modo piatto e frettoloso vengono evocati Guttuso e Lattuada. La descrizione dei sessantottini è la pagina più forzata e ridicola dell'intero film: è di goffaggine sub-televisiva, al livello delle peggiori miniserie che infestano i teleschermi.
Gli è che nella seconda parte “Baarìa” ha ormai deragliato. Quella vera libido di dire tutto, di realizzare il grande film-tableau... un progetto che fin dalla partenza era un po' alto per le corde di Tornatore, se posso dirlo... si è dissolto in retorica (la scena dei tre spunzoni di roccia finalmente colpiti dal sasso gettato), faciloneria, cenere.
Dobbiamo ringraziare il Centro Espressioni Cinematografiche per aver potuto vedere a Udine “Baarìa” come dovrebbe essere visto dovunque, cioè parlato in dialetto siciliano coi sottotitoli. Ma pure così (non oso nemmeno immaginare come sia la versione doppiata in italiano) il film è deludente. Nella sua aspirazione alla grandeur Giuseppe Tornatore ha perso quella mano rievocativa, quell'ingegnaccio narrativo di cui aveva dato prova in “Nuovo Cinema Paradiso” (anche se compare nel presente film, dove Tornatore non si fa mancare nulla, una assai modesta ripresa di ambienti e di atmosfera di quello).
L'intenzione di “Baarìa” è di realizzare “il” grande quadro storico, politico, narrativo e poetico di Bagheria e della Sicilia, attraverso tre generazioni: il protagonista, che si pone come perno della narrazione, suo padre prima e suo figlio poi. Per questa strada dell'aspirazione al tableau Tornatore legittimamente si accosta a quella tradizione “operistica” che serpeggia sotterranea nel cinema italiano (senza sorpresa, vista la centralità dell'opera lirica nella nostra cultura): quando la tensione narrativa culmina e si rilascia in grandi momenti collettivi enfatici e la macchina da presa abbraccia un largo quadro riempito di figure dal movimento coordinato, con dilatazione del commento musicale. Questi momenti, che per così dire sublimano l'azione individuale inserendola per un momento nel tutto, riferendoci appunto all'opera lirica li possiamo chiamare corali. Tornatore si riallaccia a questa tendenza “operistica” ma ne dimentica - specie nella prima parte del film, che per ironia è la più strutturata - il principio base: la scansione per cui i momenti di esplosione corale devono costituire un culmine entro lo svolgimento. “Baarìa” è tutt'intero un momento culminante. Sembra un'“Aida” all'Arena di Verona composta per tre ore della “Marcia trionfale” con gli elefanti. “Baarìa” è il vero esempio di arte pompier.
Gonfio, retorico, gridato, questo film è tutta enfasi. Non per nulla gru e dolly sono la sua cifra stilistica: perché sono solennizzanti. Anche il montaggio vuol essere veloce, impositivo, tranchant - ma finisce per apparire isterico. I raccordi sono fortemente enunciati, si potrebbe dire pomposi; alcuni sono convincenti (esempio: i colpi dati a un bambino spingendolo contro l'albero/l'inchino degli attori dello spettacolo teatrale), altri retorici, molti sono vacui.
E' proprio quest'enfasi continua che, amalgamando tutta la tensione emotiva del film nel “fortissimo”, perviene ad annullare l'effetto enfatico di singole scene ben realizzate, come quella del bombardamento (inutile aggiungere che è un problema presente in tutto il cinema di Tornatore). Qui la questione è rovinosamente peggiorata da una score da omicidio di Ennio Morricone.
Ma c'è di peggio. Ricorre in “Baarìa”, con effetti disastrosi, una fallimentare ricerca dell'effetto poetico: onde il Kitsch è la chiave di volta dell'intero film. Si potrebbe mettere su carta un intero museo degli orrori di “Baarìa”: il bambino che correndo sembra alzarsi in volo all'inizio, la visualizzazione fantastica dei mostri di Palagonia correlata a quelli reali, la supersciocchezza a due tempi della mosca dentro la trottola, l'orrido risveglio del bambino addormentato dietro la lavagna negli anni '30 che esce e va in giro nella Bagheria d'oggi, l'annesso incrocio temporale aspirante poetico (trova nella “sua” casa in demolizione l'orecchino fatto volar via da lui adulto con una sberla alla figlioletta e dice agli operai “E' di mia figlia”), l'altra corsa in cui incrocia l'altro bambino di un diverso piano temporale... Si rimane increduli di fronte a questa ricerca sfacciata dell'effettazzo poetico: sembra di rivedere un certo cinema “artistico/pensoso” degli anni sessanta e seguenti, tipo i peggiori Taviani (“Good Morning Babilonia”).
Se almeno la prima arte, con tutta la sua stancante pomposità, riusciva a evitare la noia, nella seconda il film si perde, gira a vuoto, fa pensare a una nave senza timone. Solo l'irresolutezza può spiegare una scena solennemente stupida come quella dell'amico del protagonista che vuole morire e va a chiedere un veleno al farmacista. Alla sensazione di “stanca” contribuisce la pletora di importanti attori impiegati. Dei “Funerali di Togliatti” di Guttuso, con la sua moltiplicazione di ritratti nella folla, si disse sarcasticamente che sembrava un quadro dipinto da Alighiero Noschese. “Baarìa” trasmette a volte lo stesso effetto: vedi l'inquadratura inutilissima (alla “Che le facciamo fare?”) di Monica Bellucci che si smanazza col muratore.
Il senso profondo del progetto di Tornatore è, come s'è detto, di inserire i destini personali nel grande flusso della Storia, che lo contiene e li determina. Sul piano della Storia vi sono alcune scene riuscite: la migliore è l'evocazione abilmente indiretta della strage di Portella della Ginestra: appare il corteo comunista con le bandiere rosse a lutto e il motivo di queste è rivelato dalla mdp che scorrendo indietro rivela il titolo di un giornale. Oppure la sequenza del poliziotto e del comunista vicini di casa che escono e camminano sui due lati del marciapiede ignorandosi, ambedue salutati da mogli preoccupate perché vanno allo scontro (e tornano entrambe a casa malridotti); oppure il protagonista che enuncia per un giornalista i nomi dei morti di mafia, fra le montagne, nella pagina più sobria del film. Altre volte il riferimento storico è meno chiaro (la scena del compagno che esce dal PCI per aderire ai socialisti allude alla crisi del 1956 dopo l'invasione dell'Ungheria?). In modo piatto e frettoloso vengono evocati Guttuso e Lattuada. La descrizione dei sessantottini è la pagina più forzata e ridicola dell'intero film: è di goffaggine sub-televisiva, al livello delle peggiori miniserie che infestano i teleschermi.
Gli è che nella seconda parte “Baarìa” ha ormai deragliato. Quella vera libido di dire tutto, di realizzare il grande film-tableau... un progetto che fin dalla partenza era un po' alto per le corde di Tornatore, se posso dirlo... si è dissolto in retorica (la scena dei tre spunzoni di roccia finalmente colpiti dal sasso gettato), faciloneria, cenere.
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Tornatore Giuseppe
domenica 18 ottobre 2009
Giornate del Cinema Muto di Pordenone 2009
Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone restano sempre l'appuntamento numero uno per i veri amanti del cinema. Anche se l'edizione 2009 (3-10 ottobre) lascia l'idea che mancasse un punto focale, o meglio, quella costellazione di punti focali che altre volte avevano fornito un mirabile senso di completezza, un tout se tient da cui emergeva prepotentemente la meraviglia del muto come forma cinematografica.
Inutile dirlo, come ogni anno abbiamo visto film bellissimi. A differenza di altri anni, però, i punti alti della rassegna appartenevano quasi interamente a quel numero di classici che sono già noti almeno come nome a chi ha una media cultura cinematografica. Accanto ad alcuni eventi speciali nella stessa logica, come il folgorante “The Merry Widow” di Erich von Stroheim che ha aperto il festival, la rubrica delle cose memorabili dell'edizione 2009 è stata monopolizzata dalla sezione “Il canone rivisitato”. E sarebbe strano che no, visto che, riassunto in termini bruti, il concetto di questa sezione è: ripresentiamo una serie di capolavori riconosciuti e vediamo se sono ancora validi (risposta: sì) e come si inseriscono nell'attuale quadro di conoscenze. Così ecco il magnifico “Dom na trubnoi” di Boris Barnet, un maestro sovietico di puro genio - non da oggi, chi scrive spera di vederlo prima o poi celebrato integralmente a Udine/Pordenone in uno Sguardo dei Maestri che si meriterebbe assolutamente. Il commovente, purtroppo mutilo, “Gunnar Hedes saga” di Mauritz Stiller. “J'accuse” di Abel Gance, uno dei film in cui le condizioni produttive permisero al grande francese di soddisfare la sua aspirazione alla totalità. “Der Golem” di Paul Wegener, capolavoro dell'espressionismo “plastico” (ahimè punteggiato nella proiezione pordenonese da qualche risatina di quegli ignoranti e imbecilli che anche alle Giornate spuntano come funghi velenosi nel sottobosco). O quell'autentica lezione di cinema che è “Rotaie” di Mario Camerini. O “Du skal aere din hustru” di Carl Theodor Dreyer, con la sua magnifica costruzione dello spazio, seguito lo stesso giorno da un felice restauro di “Die Gezeichtenen”, sempre del sommo danese, che integra e riporta agli intendimenti originali la copia russa unica sopravvissuta.
Viene in taglio qui la menzione di un problema ricorrente delle Giornate: talvolta l'eccellenza delle scelte viene limitata o tarpata da una vaga bizzarria nelle scelte di “schedule”, ovvero di posizionamento dei film nel programma. Per esempio non si vede la logica di proiettare “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille (la versione muta del 1923, s'intende) di lunedì mattina; è vero che le Giornate sono pensate in primo luogo per un pubblico di accreditati che ha la possibilità di seguire tutto, ma d'altra parte quel pubblico è familiare con l'opera di De Mille, ed è anche al pubblico non specialistico del pomeriggio/sera che essa dovrebbe essere proposta.
La serata finale di sabato 10 è stata - spiace dirlo - la più unappealing che questo recensore ricordi da quando segue le Giornate, e sono un bel po' di anni. “Ukulelescope” è uno spettacolo della simpatica Ukulele Orchestra of Great Britain che accompagna coi propri chitarrini e qualche intervento vocale alcuni film muti scelti ad hoc. Niente contro l'ukulele, per carità, è un amabile strumento, ma non corrisponde esattamente ai fuochi d'artificio cinematografici che usualmente concludono le Giornate.
Fra i restauri, da segnalare una bellissima copia di “The Eagle” di Clarence Brown (sarebbe quell'Aquila Nera cosacca poi celebrata nel secondo dopoguerra dal nostro Riccardo Freda): un film d'avventura spiritosissimo, dove però la comedy non deborda mai nella parodia, interpretato con ironia da Rodolfo Valentino - ottima occasione per mostrare come Valentino possedesse una gamma interpretativa ben più vasta di quanto ancor oggi molti pensano (lo aiutano validamente le deliziose Vilma Banky, l'innamorata, e Louise Dresser, la zarina Caterina). Va citata poi la gustosissima commedia berlinese “Der Fürst von Pappenheim” di Richard Eichberg, col grande Curt Bois, ulteriormente impreziosita dall'essere presentata in una copia inglese con didascalie estremamente spiritose. Amabilmente risquée coi suoi accenni al libertinaggio e al travestitismo, avrebbe potuto assumersi la “Mission Impossible” di dialogare con “The Merry Widow” di Stroheim in apertura, assai meglio che la modesta commedia “Le bonheur conjugal!” vista in quell'occasione.
Quest'ultima è una produzione Albatros, una casa fondata in Francia da emigrati russi, che però dava alle sue produzioni un tono totalmente francese. Alla Albatros era dedicata un'altra delle sezioni del programma. Si tratta di film di buon livello, tra i quali il capolavoro è certamente la “Carmen” del 1926 di Jacques Feyder. Fra quelli visti, cito la piacevole commedia “Ce cochon de Morin” di Viatcheslav Touriansky, autore anche del bizzarro “La dame masquée”. Quest'ultimo è un dramma macchinoso e non troppo soddisfacente, con una netta frattura fra la prima parte sentimentale e la seconda “gialla” - talché nella voragine narrativa che si apre finiscono inghiottiti (fuor di metafora: spariscono) due dei personaggi principali. Il merito maggiore di questo film, e un punto di forza della Albatros in generale, sono le scenografie. “La dame masquée” è un magnifico catalogo di architettura e arredamento art déco, tanto che nel film mezza Parigi sembra opera dello stesso architetto: dalla grande casa della zia maligna a una chiesa (ma forse è una cappella privata della stessa casa, visto che dopo il matrimonio vi si brinda senza che il prete li cacci a scopate), a – perfino – un ristorante cinese!
Fra le altre sezioni spicca quella dedicata a Sherlock Holmes: un'ottima idea, anche se il materiale visto a volte è inferiore alle aspettative. La questione dei serial, presenti in questa sezione, è che dispiace vederne solo due o tre puntate. Quello su Fu-Manchu, per esempio, del 1923, meriterebbe una presentazione integrale; coi suoi occhi vivissimi e crudeli Harry Agar Jones non sfigura rispetto a Warner Oland, Boris Karloff e Christopher Lee, suoi successori (bianchi come lui) nel personaggio del supercriminale cinese. Il film di Sherlock Holmes più interessante è probabilmente “The Sign of the Four” di Maurice Elvey, che incrocia le investigazioni di Sherlock Holmes con l'iconografia dell'orientale malvagio che insidia la vergine bianca (Fu Manchu again!), concludendosi con una splendida sequenza di inseguimento sul Tamigi.
I dieci minuti del raffinatissimo “Monkey's Moon” (1929) di Kenneth Macpherson ci riportano a quell'avanguardia cinematografica e fotografica che sapeva vestire le immagini di rara bellezza, e che qui giustappone in montaggio una serie di ambienti e visioni su una non-trama relativa a un giorno d'estate prima del temporale e due scimmiette in fuga. La macchina da presa erratica e il montaggio libero servono anche, in modo sinestetico, a rendere la musica jazz cui allude il sax nella banda visuale. La sensazione prevalente è di ariosità estiva, di pigrizia, di rilassata disponibilità alla visione; eppure sembra sottilmente triste.
Come sempre le Giornate hanno offerto una ricca messe di brevi film del primo '900, alcuni notevolissimi, anche in alcuni casi per le meravigliose colorazioni a mano o au pochoir (“Le Fille aux oeufs d'or”, “Le Tour du monde d'un policier”, “Les Petits Pifferari”), caratterizzati da una sapienza narrativa ingenua e insieme raffinata, e talvolta da un piacevole tocco di erotismo naïf primo novecento. Una sorpresa particolarmente piacevole nella selezione è stato l'anonimo americano “Down on the Farm” del 1905. Fa da spunto un'idea semplicissima: alcune giovani donne di estrazione chiaramente medio-alto borghese saccheggiano un frutteto e vengono inseguite da un gruppo di contadini infuriati in un'autentica maratona campestre. Lotta di classe - e dei sessi - su strada, con la netta vittoria delle prime sui secondi. Ma l'aspetto narrativo si risolve in quello ginnico, l'inseguimento in gioco, e la corsa di queste belle e meno belle in ariosi abiti bianchi va oltre la situazione cinematografica per esprimere una joie de vivre che si vede nei loro visi ridenti rivolti alla macchina da presa.
Non si può chiudere, infine, senza menzionare una piccola gemma del 2008 presentata a latere (il suo rapporto col cinema muto essendo molto aleatorio). “Helsinki, ikuisesti” di Peter Von Bagh ripercorre un secolo di vita di Helsinki attraverso il cinema (e l'arte figurativa e la canzone), non solo con grande intensità e vivezza ma arricchendolo di osservazioni sull'immagine e sull'arte cinematografica che, ci sentiamo di dire, sono degne di Godard.
Inutile dirlo, come ogni anno abbiamo visto film bellissimi. A differenza di altri anni, però, i punti alti della rassegna appartenevano quasi interamente a quel numero di classici che sono già noti almeno come nome a chi ha una media cultura cinematografica. Accanto ad alcuni eventi speciali nella stessa logica, come il folgorante “The Merry Widow” di Erich von Stroheim che ha aperto il festival, la rubrica delle cose memorabili dell'edizione 2009 è stata monopolizzata dalla sezione “Il canone rivisitato”. E sarebbe strano che no, visto che, riassunto in termini bruti, il concetto di questa sezione è: ripresentiamo una serie di capolavori riconosciuti e vediamo se sono ancora validi (risposta: sì) e come si inseriscono nell'attuale quadro di conoscenze. Così ecco il magnifico “Dom na trubnoi” di Boris Barnet, un maestro sovietico di puro genio - non da oggi, chi scrive spera di vederlo prima o poi celebrato integralmente a Udine/Pordenone in uno Sguardo dei Maestri che si meriterebbe assolutamente. Il commovente, purtroppo mutilo, “Gunnar Hedes saga” di Mauritz Stiller. “J'accuse” di Abel Gance, uno dei film in cui le condizioni produttive permisero al grande francese di soddisfare la sua aspirazione alla totalità. “Der Golem” di Paul Wegener, capolavoro dell'espressionismo “plastico” (ahimè punteggiato nella proiezione pordenonese da qualche risatina di quegli ignoranti e imbecilli che anche alle Giornate spuntano come funghi velenosi nel sottobosco). O quell'autentica lezione di cinema che è “Rotaie” di Mario Camerini. O “Du skal aere din hustru” di Carl Theodor Dreyer, con la sua magnifica costruzione dello spazio, seguito lo stesso giorno da un felice restauro di “Die Gezeichtenen”, sempre del sommo danese, che integra e riporta agli intendimenti originali la copia russa unica sopravvissuta.
Viene in taglio qui la menzione di un problema ricorrente delle Giornate: talvolta l'eccellenza delle scelte viene limitata o tarpata da una vaga bizzarria nelle scelte di “schedule”, ovvero di posizionamento dei film nel programma. Per esempio non si vede la logica di proiettare “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille (la versione muta del 1923, s'intende) di lunedì mattina; è vero che le Giornate sono pensate in primo luogo per un pubblico di accreditati che ha la possibilità di seguire tutto, ma d'altra parte quel pubblico è familiare con l'opera di De Mille, ed è anche al pubblico non specialistico del pomeriggio/sera che essa dovrebbe essere proposta.
La serata finale di sabato 10 è stata - spiace dirlo - la più unappealing che questo recensore ricordi da quando segue le Giornate, e sono un bel po' di anni. “Ukulelescope” è uno spettacolo della simpatica Ukulele Orchestra of Great Britain che accompagna coi propri chitarrini e qualche intervento vocale alcuni film muti scelti ad hoc. Niente contro l'ukulele, per carità, è un amabile strumento, ma non corrisponde esattamente ai fuochi d'artificio cinematografici che usualmente concludono le Giornate.
Fra i restauri, da segnalare una bellissima copia di “The Eagle” di Clarence Brown (sarebbe quell'Aquila Nera cosacca poi celebrata nel secondo dopoguerra dal nostro Riccardo Freda): un film d'avventura spiritosissimo, dove però la comedy non deborda mai nella parodia, interpretato con ironia da Rodolfo Valentino - ottima occasione per mostrare come Valentino possedesse una gamma interpretativa ben più vasta di quanto ancor oggi molti pensano (lo aiutano validamente le deliziose Vilma Banky, l'innamorata, e Louise Dresser, la zarina Caterina). Va citata poi la gustosissima commedia berlinese “Der Fürst von Pappenheim” di Richard Eichberg, col grande Curt Bois, ulteriormente impreziosita dall'essere presentata in una copia inglese con didascalie estremamente spiritose. Amabilmente risquée coi suoi accenni al libertinaggio e al travestitismo, avrebbe potuto assumersi la “Mission Impossible” di dialogare con “The Merry Widow” di Stroheim in apertura, assai meglio che la modesta commedia “Le bonheur conjugal!” vista in quell'occasione.
Quest'ultima è una produzione Albatros, una casa fondata in Francia da emigrati russi, che però dava alle sue produzioni un tono totalmente francese. Alla Albatros era dedicata un'altra delle sezioni del programma. Si tratta di film di buon livello, tra i quali il capolavoro è certamente la “Carmen” del 1926 di Jacques Feyder. Fra quelli visti, cito la piacevole commedia “Ce cochon de Morin” di Viatcheslav Touriansky, autore anche del bizzarro “La dame masquée”. Quest'ultimo è un dramma macchinoso e non troppo soddisfacente, con una netta frattura fra la prima parte sentimentale e la seconda “gialla” - talché nella voragine narrativa che si apre finiscono inghiottiti (fuor di metafora: spariscono) due dei personaggi principali. Il merito maggiore di questo film, e un punto di forza della Albatros in generale, sono le scenografie. “La dame masquée” è un magnifico catalogo di architettura e arredamento art déco, tanto che nel film mezza Parigi sembra opera dello stesso architetto: dalla grande casa della zia maligna a una chiesa (ma forse è una cappella privata della stessa casa, visto che dopo il matrimonio vi si brinda senza che il prete li cacci a scopate), a – perfino – un ristorante cinese!
Fra le altre sezioni spicca quella dedicata a Sherlock Holmes: un'ottima idea, anche se il materiale visto a volte è inferiore alle aspettative. La questione dei serial, presenti in questa sezione, è che dispiace vederne solo due o tre puntate. Quello su Fu-Manchu, per esempio, del 1923, meriterebbe una presentazione integrale; coi suoi occhi vivissimi e crudeli Harry Agar Jones non sfigura rispetto a Warner Oland, Boris Karloff e Christopher Lee, suoi successori (bianchi come lui) nel personaggio del supercriminale cinese. Il film di Sherlock Holmes più interessante è probabilmente “The Sign of the Four” di Maurice Elvey, che incrocia le investigazioni di Sherlock Holmes con l'iconografia dell'orientale malvagio che insidia la vergine bianca (Fu Manchu again!), concludendosi con una splendida sequenza di inseguimento sul Tamigi.
I dieci minuti del raffinatissimo “Monkey's Moon” (1929) di Kenneth Macpherson ci riportano a quell'avanguardia cinematografica e fotografica che sapeva vestire le immagini di rara bellezza, e che qui giustappone in montaggio una serie di ambienti e visioni su una non-trama relativa a un giorno d'estate prima del temporale e due scimmiette in fuga. La macchina da presa erratica e il montaggio libero servono anche, in modo sinestetico, a rendere la musica jazz cui allude il sax nella banda visuale. La sensazione prevalente è di ariosità estiva, di pigrizia, di rilassata disponibilità alla visione; eppure sembra sottilmente triste.
Come sempre le Giornate hanno offerto una ricca messe di brevi film del primo '900, alcuni notevolissimi, anche in alcuni casi per le meravigliose colorazioni a mano o au pochoir (“Le Fille aux oeufs d'or”, “Le Tour du monde d'un policier”, “Les Petits Pifferari”), caratterizzati da una sapienza narrativa ingenua e insieme raffinata, e talvolta da un piacevole tocco di erotismo naïf primo novecento. Una sorpresa particolarmente piacevole nella selezione è stato l'anonimo americano “Down on the Farm” del 1905. Fa da spunto un'idea semplicissima: alcune giovani donne di estrazione chiaramente medio-alto borghese saccheggiano un frutteto e vengono inseguite da un gruppo di contadini infuriati in un'autentica maratona campestre. Lotta di classe - e dei sessi - su strada, con la netta vittoria delle prime sui secondi. Ma l'aspetto narrativo si risolve in quello ginnico, l'inseguimento in gioco, e la corsa di queste belle e meno belle in ariosi abiti bianchi va oltre la situazione cinematografica per esprimere una joie de vivre che si vede nei loro visi ridenti rivolti alla macchina da presa.
Non si può chiudere, infine, senza menzionare una piccola gemma del 2008 presentata a latere (il suo rapporto col cinema muto essendo molto aleatorio). “Helsinki, ikuisesti” di Peter Von Bagh ripercorre un secolo di vita di Helsinki attraverso il cinema (e l'arte figurativa e la canzone), non solo con grande intensità e vivezza ma arricchendolo di osservazioni sull'immagine e sull'arte cinematografica che, ci sentiamo di dire, sono degne di Godard.
giovedì 15 ottobre 2009
Whatever Works - Basta che funzioni
Woody Allen
C'è qualcosa di oraziano (Quinto Orazio Flacco) nel cinema di Woody Allen; e infatti “Whatever Works - Basta che funzioni” è una lezione di epicureismo oraziano per tempi disperati. Ricordiamo come già nel bellissimo “Vicky Cristina Barcelona” il nichilismo porti a un elogio della sessualità, grazie a quel tanto di felicità che regala, un attimo di consolazione nelle tenebre. Ora, le tenebre del nichilismo sono l'habitat mentale di Boris, anziano misantropo iper-pessimista - “la nostra è una specie fallita” - tale da far impallidire le sue varie incarnazioni alleniane precedenti (un'eccellente interpretazione di Larry David). Nobel mancato per la fisica anni prima, soggetto ad attacchi di panico in cui grida “the horror, the horror” come il Kurtz di Conrad, divorziato, zoppo per un tentato suicidio, vive insegnando gli scacchi a dei poveri bambini che tratta malissimo (“Scacco matto, stupida cimice”). E' convinto di essere un genio in un mondo di cretini, e non lo tiene certo nascosto.
Un giorno per ringhiosa generosità si prende in casa una giovanissima vagabonda morta di fame, Melodie (Evan Rachel Wood), gustoso prototipo della ex reginetta di bellezza ignorantella del deep South, in fuga dalla famiglia religiosa e moralista. Sempre tra insulti e villanie, Boris diventa il suo Pigmalione. Ma anche Melodie (nomen omen) gli dà qualcosa: lo cura dalla tristezza, se non sul piano filosofico, almeno su quello esistenziale. Morale, Boris se la sposa. Fine del primo atto (“Wathever Works” è uno dei più teatrali fra i film di Allen: con qualche aggiustamento minore, potrebbe benissimo esser recitato in palcoscenico). Nel secondo atto, arrivano dal Mississippi prima la mamma e poi il papà (divorziati) - con sviluppi totalmente imprevedibili. I due Southerners ultraconservatori, Marietta e John, trovano la propria verità sviluppando quella loro identità sessuale che avevano sempre negato: i loro nuovi gusti a letto farebbero venire i capelli dritti a Jerry Falwell e a Jimmy Carter, ma che importa: “basta che funzioni”. Intanto la “Mighty Aphrodite” (“La dea dell'amore” - una vera potenza nell'universo alleniano) continua a tessere...
Semplice e areo, con tutto il suo pessimismo filosofico “Whatever Works” è una delle commedie più sorridenti di Woody Allen: lontana per esempio dalle complicazioni tragicomiche che le scelte sessuali portano in “Vicky Cristina Barcelona”. Vedi come i due ex coniugi sono veloci a passare dalla parte della propria sessualità segreta. Per Marietta questo momento di transizione non viene neanche messo in scena ma affidato alla voce narrante di Boris. Si potrebbe pensare che questa rapidità così poco sofferta appartenga alla natura della commedia, che ama le transizioni improvvise e i capovolgimenti senza mediazioni; ed è vero. Ma appartiene anche a un altro dominio, che “Whatever Works” ci illustra attraverso le interpellazioni di Boris (di cui parleremo subito): l'onnipotenza del cinema.
Poiché quel che rende di punto in bianco possibile (complice, per Woody, l'amata New York) che due bifolchi integralisti trovino con un colpo di bacchetta magica la loro via all'eros è la magia del dispositivo cinematografico. Quello stesso che convince la gente a spendere i suoi soldi per venire a vedere le chiacchiere oziose di persone che non conosce - sic dixit Boris stesso, che all'inizio del film improvvisamente annuncia agli amici che “c'è una sala piena di gente che ci guarda”, e poi si rivolge direttamente agli spettatori. Woody Allen va pazzo per gli scherzi metanarrativi. Qui Boris ha repentini attacchi della consapevolezza di essere un personaggio; però ogni volta che interpella il pubblico tutti gli altri personaggi lo guardano come se fosse matto perché parla da solo. Ovvero, mentre di solito l'interpellazione critica (mette in crisi di credibilità) l'universo diegetico, qui è l'universo diegetico che critica (mette in crisi di credibilità) l'interpellazione.
La battuta più divertente su questo piano è nel finale, quando Boris, vantandosi di essere il solo a vedere noi spettatori, si autoincensa: “Io sono l'unico ad avere una visione d'insieme - ecco quello che chiamano genio”. Deliziosa arrischiata logica! Che mentre costruisce, fragile come un castello di carte, un doppio senso di “visione d'insieme”, identifica il personaggio col racconto, l'invenzione col dispositivo, e per questa via perviene a ricordarci che il vero genio è quello del cinema stesso.
(Il Nuovo FVG)
C'è qualcosa di oraziano (Quinto Orazio Flacco) nel cinema di Woody Allen; e infatti “Whatever Works - Basta che funzioni” è una lezione di epicureismo oraziano per tempi disperati. Ricordiamo come già nel bellissimo “Vicky Cristina Barcelona” il nichilismo porti a un elogio della sessualità, grazie a quel tanto di felicità che regala, un attimo di consolazione nelle tenebre. Ora, le tenebre del nichilismo sono l'habitat mentale di Boris, anziano misantropo iper-pessimista - “la nostra è una specie fallita” - tale da far impallidire le sue varie incarnazioni alleniane precedenti (un'eccellente interpretazione di Larry David). Nobel mancato per la fisica anni prima, soggetto ad attacchi di panico in cui grida “the horror, the horror” come il Kurtz di Conrad, divorziato, zoppo per un tentato suicidio, vive insegnando gli scacchi a dei poveri bambini che tratta malissimo (“Scacco matto, stupida cimice”). E' convinto di essere un genio in un mondo di cretini, e non lo tiene certo nascosto.
Un giorno per ringhiosa generosità si prende in casa una giovanissima vagabonda morta di fame, Melodie (Evan Rachel Wood), gustoso prototipo della ex reginetta di bellezza ignorantella del deep South, in fuga dalla famiglia religiosa e moralista. Sempre tra insulti e villanie, Boris diventa il suo Pigmalione. Ma anche Melodie (nomen omen) gli dà qualcosa: lo cura dalla tristezza, se non sul piano filosofico, almeno su quello esistenziale. Morale, Boris se la sposa. Fine del primo atto (“Wathever Works” è uno dei più teatrali fra i film di Allen: con qualche aggiustamento minore, potrebbe benissimo esser recitato in palcoscenico). Nel secondo atto, arrivano dal Mississippi prima la mamma e poi il papà (divorziati) - con sviluppi totalmente imprevedibili. I due Southerners ultraconservatori, Marietta e John, trovano la propria verità sviluppando quella loro identità sessuale che avevano sempre negato: i loro nuovi gusti a letto farebbero venire i capelli dritti a Jerry Falwell e a Jimmy Carter, ma che importa: “basta che funzioni”. Intanto la “Mighty Aphrodite” (“La dea dell'amore” - una vera potenza nell'universo alleniano) continua a tessere...
Semplice e areo, con tutto il suo pessimismo filosofico “Whatever Works” è una delle commedie più sorridenti di Woody Allen: lontana per esempio dalle complicazioni tragicomiche che le scelte sessuali portano in “Vicky Cristina Barcelona”. Vedi come i due ex coniugi sono veloci a passare dalla parte della propria sessualità segreta. Per Marietta questo momento di transizione non viene neanche messo in scena ma affidato alla voce narrante di Boris. Si potrebbe pensare che questa rapidità così poco sofferta appartenga alla natura della commedia, che ama le transizioni improvvise e i capovolgimenti senza mediazioni; ed è vero. Ma appartiene anche a un altro dominio, che “Whatever Works” ci illustra attraverso le interpellazioni di Boris (di cui parleremo subito): l'onnipotenza del cinema.
Poiché quel che rende di punto in bianco possibile (complice, per Woody, l'amata New York) che due bifolchi integralisti trovino con un colpo di bacchetta magica la loro via all'eros è la magia del dispositivo cinematografico. Quello stesso che convince la gente a spendere i suoi soldi per venire a vedere le chiacchiere oziose di persone che non conosce - sic dixit Boris stesso, che all'inizio del film improvvisamente annuncia agli amici che “c'è una sala piena di gente che ci guarda”, e poi si rivolge direttamente agli spettatori. Woody Allen va pazzo per gli scherzi metanarrativi. Qui Boris ha repentini attacchi della consapevolezza di essere un personaggio; però ogni volta che interpella il pubblico tutti gli altri personaggi lo guardano come se fosse matto perché parla da solo. Ovvero, mentre di solito l'interpellazione critica (mette in crisi di credibilità) l'universo diegetico, qui è l'universo diegetico che critica (mette in crisi di credibilità) l'interpellazione.
La battuta più divertente su questo piano è nel finale, quando Boris, vantandosi di essere il solo a vedere noi spettatori, si autoincensa: “Io sono l'unico ad avere una visione d'insieme - ecco quello che chiamano genio”. Deliziosa arrischiata logica! Che mentre costruisce, fragile come un castello di carte, un doppio senso di “visione d'insieme”, identifica il personaggio col racconto, l'invenzione col dispositivo, e per questa via perviene a ricordarci che il vero genio è quello del cinema stesso.
(Il Nuovo FVG)
Vincere
Marco Bellocchio
Non ha importanza, per intendere il capolavoro di Marco Bellocchio “Vincere”, il nudo fatto storico, se davvero Ida Dalser ebbe un figlio, Benito Albino, dal giovane Mussolini, se davvero vi fu un matrimonio, e via dicendo. Per usare la frase più citata del cinema di Bellocchio, l’immaginazione è superiore alla realtà (“Buongiorno, notte”). Quel che importa di “Vincere” è la sua lacerante discesa dentro l’assenza: il lutto di un’anima, la nevrosi di un paese.
Tracciando la cronaca del rapporto di Ida (Giovanna Mezzogiorno) con Benito Mussolini (Filippo Timi), il film interlinea il 1907 a Trento e il 1914 nella Milano del futurismo e dell’interventismo - vasto affresco visionario, nella magnifica foto di Daniele Ciprì, di una città onirica e spettrale, ardente della febbre della guerra che viene. La loro relazione porta alla nascita del figlio e a un matrimonio di guerra; poi Ida viene abbandonata, e di lì in poi perseguita Mussolini come un impotente spettro di Banquo; ma il regime fascista le toglie il bambino e chiude in manicomio sia lei che, una volta cresciuto, lui.
Il film, parole del regista, “affonda le sue radici nel melodramma”. Non solo a livello tematico e simbolico (il particolare del sangue che resta sulla mano di Ida dopo il primo incontro con Mussolini) ma anche discorsivo (pensiamo alla tenzone di inni opposti al cinema, o al coro sull’incendio della tipografia); ciò nella seconda parte è meno presente ma non si perde (lo richiama, ad esempio, la compagnia elegante che visita cantando il manicomio).
Un tratto per cui il contratto di credibilità del film (croyance) sembra incrinarsi è l’evidente dissomiglianza tra Filippo Timi e il Mussolini autentico, che è pure un personaggio di “Vincere” poiché vi appare in vari filmati di repertorio. Tuttavia, la scelta di far incarnare Mussolini in due corpi diversi è decisiva, perché radicalizza nel film la scissione tra il Mussolini conosciuto da Ida, vivente, accessibile, tangibile, carnale (il sesso, gli occhi, specchio dell’anima, la voce) e il Mussolini della separazione, lontano, inaccessibile, fantasmatico, non carnale (le sue apparizioni sono affidate alla riproduzione filmica, al b/n stinto e graffiato della pellicola). Questa trasformazione è un trasferimento sul piano fantasmatico, quindi una de-umanizzazione. E infatti culmina nella reificazione (il divenire cosa) di Mussolini come capoccione di pietra campeggiante nell’orfanotrofio, che il piccolo Benito Albino contempla e poi rovescerà.
La stessa qualità cinematografica leggermente sgranata accomuna i filmati di Mussolini e gli altri frammenti di film che Bellocchio splendidamente intesse in “Vincere” (fra cui “Maciste alpino”, “Saturnino Farandola”, “Christus”). Questi non sono mera ricostruzione “scenografica” bensì proiezioni dell’inconscio: come vediamo dalla scena della crocifissione del “Christus” di Giulio Antamoro proiettata, gigantesca, sul soffitto della chiesa-ospedale dove Mussolini giace ferito, che implica un’evidente fantasia di identificazione. O autentici rispecchiamenti della vicenda esistenziale, come “Il monello” di Chaplin proiettato al manicomio, mise en abyme della perdita (e del sogno di risarcimento) di Ida.
Che vuole Ida? Essere riconosciuta, cioè vista: quel riconoscimento impossibile nella ricerca del quale si bruciano i protagonisti bellocchiani; poi, sul sogno del riconoscimento lei elabora, fino alla fantasia di entrare a Villa Torlonia come moglie legittima al posto dell’usurpatrice Rachele. L’oggetto del desiderio è un fantasma. Il movimento del film di Bellocchio quindi si sposta dalla concretezza dei corpi all’inafferrabilità dei fantasmi. Dunque, un movimento malato: potremmo dire, rovesciando Freud, “dove c’era l’Io ci sarà l’Es”.
Quello che Ida, con tutto il suo caparbio coraggio, non accetta di ammettere è che lei non potrà mai essere una presenza per Mussolini, perché questo egomane (un imbonitore: non a caso il film si apre col più famoso dei suoi numeri di prestidigitazione dialettica, quello dell’orologio) non riconosce presenze attorno a sé: solo figure che accettano di confondersi nella sua ombra, come una Rachele quasi caricaturale, quasi macchietta romagnola, o come il suo sodale negli anni, che non a caso si chiama Fedele. Il mediocre piccolo borghese Mussolini sente oscuramente in Ida qualcosa di irriducibile alla propria misura (del resto è lei che ha scelto lui e non viceversa). “Vincere” è il motto di Mussolini ma, prima che un programma, esprime quella pulsione elementare che Gilles Deleuze individua all’origine del naturalismo: una oscura/oscena volontà profonda di prevalere, priva di un oggetto preciso (essere più di Napoleone, confessa lui a Ida). Nella prima parte del film, a una postura già “mussoliniana” del giovane Mussolini risponde un filmato di repertorio della futura folla osannante sotto il balcone di Palazzo Venezia - lo stesso che rivedremo alla fine come controcampo reale.
Il dramma della madre si rispecchia in quello del figlio. Tutto il cinema di Bellocchio è attraversato dal doloroso discorso dell’omicidio/dell’assenza/della ricerca del padre. Il figlio-non figlio di Mussolini, Benito Albino, lo uccide più volte in forme simboliche, prima attraverso il rovesciamento della statua, poi attraverso l’identificazione perversa di una parodia che diventerà via via più isterica e sfasciata. Perché il padre è un Père Ubu, un sanguinoso clown (lo vediamo istrioneggiare nel discorso su Roma antica e il Mediterraneo - tema di una sua celebre conferenza su cui si sdilinquirono gli adulatori) che incanta gli italiani. Ancora un punto nodale del cinema di Bellocchio è la rappresentazione; ed ecco il fascismo come grande rappresentazione, insieme buffonesca e tragica, basata su forti sottintesi erotici (vedi la suora eccitata sessualmente da Mussolini che rimprovera Ida al manicomio). Una nevrosi della persona ma anche una nevrosi dell’intera nazione: la fascinazione sessuale per Mussolini che attraversa il film non può non richiamare uno dei libri più profondi scritti sul fascismo, “Eros e Priapo” di Carlo Emilio Gadda.
In tutta la parte iniziale l’elemento centrale è l’energia demoniaca, fisica, del giovane Mussolini, che risucchia e vampirizza il film; Ida è solo un occhio che osserva ammaliato, un corpo che si offre; certo, anche un patrimonio che si prosciuga, ma pure questo sacrificio ha qualcosa di carnale (i soldi sulla scrivania, lei nuda sul letto, con un viso ferino). Si direbbe che Ida cominci a mostrare una personalità quando annuncia all’amante di essere incinta; e assume ai nostri occhi una propria psicologia dolente e indomabile quando è separata da Mussolini. Cioè la sua personalità si crea a partire da un’assenza, e per questo è una personalità scissa e infelice, interamente proiettata sul desiderio. Ma nondimeno - basta la sequenza del colloquio al manicomio, in cui lei soverchia i dottori - più viva e vitale di coloro che la circondano.
Prendiamo la notevole scena dell’incontro (dopo l’abbandono) all’esposizione futurista, dove Ida si solleva la gonna ed esibisce il pube nudo a Mussolini in visita. Sul piano diegetico è un segnale aggressivo (che trasferisce sul piano dei rapporti interpersonali lo zimm bamm bum dei futuristi) ma a livello più profondo è l’irruzione nel film di quella figura di donna dionisiaca, irriducibile alla coscienza maschile, che è figura ritornante nel cinema di Bellocchio (in questo senso il gesto di Ida è l’equivalente della torta in faccia tirata al magistrato in un film importante ma meno riuscito, “La condanna”). Per questo le pazze che berciano e corrono nella camerata dell’ospedale psichiatrico, all’arrivo di Ida, contrariamente alla plausibilità storica sono completamente nude. Attraverso il dramma di Ida “Vincere” recupera quell’alterità all’ordine, quell’irruzione dell’inconscio, che esplodeva nella follia e nella stregoneria de “La visione del sabba” - qui esplicitamente ricordato nell’inquadratura di Ida appesa alla grata del manicomio. Ida non può ricondursi alla saggezza di autoconservazione suggerita dallo psichiatra benintenzionato (“Questo è il tempo di tacere, il tempo di essere attori”) perché la sua ricerca ossessiva, il suo lutto, è irriducibile alle norme dell’“istituzione totale” - che non è il manicomio ma l’intero paese. Al fondo di questa ricerca c’è la morte.
Non ha importanza, per intendere il capolavoro di Marco Bellocchio “Vincere”, il nudo fatto storico, se davvero Ida Dalser ebbe un figlio, Benito Albino, dal giovane Mussolini, se davvero vi fu un matrimonio, e via dicendo. Per usare la frase più citata del cinema di Bellocchio, l’immaginazione è superiore alla realtà (“Buongiorno, notte”). Quel che importa di “Vincere” è la sua lacerante discesa dentro l’assenza: il lutto di un’anima, la nevrosi di un paese.
Tracciando la cronaca del rapporto di Ida (Giovanna Mezzogiorno) con Benito Mussolini (Filippo Timi), il film interlinea il 1907 a Trento e il 1914 nella Milano del futurismo e dell’interventismo - vasto affresco visionario, nella magnifica foto di Daniele Ciprì, di una città onirica e spettrale, ardente della febbre della guerra che viene. La loro relazione porta alla nascita del figlio e a un matrimonio di guerra; poi Ida viene abbandonata, e di lì in poi perseguita Mussolini come un impotente spettro di Banquo; ma il regime fascista le toglie il bambino e chiude in manicomio sia lei che, una volta cresciuto, lui.
Il film, parole del regista, “affonda le sue radici nel melodramma”. Non solo a livello tematico e simbolico (il particolare del sangue che resta sulla mano di Ida dopo il primo incontro con Mussolini) ma anche discorsivo (pensiamo alla tenzone di inni opposti al cinema, o al coro sull’incendio della tipografia); ciò nella seconda parte è meno presente ma non si perde (lo richiama, ad esempio, la compagnia elegante che visita cantando il manicomio).
Un tratto per cui il contratto di credibilità del film (croyance) sembra incrinarsi è l’evidente dissomiglianza tra Filippo Timi e il Mussolini autentico, che è pure un personaggio di “Vincere” poiché vi appare in vari filmati di repertorio. Tuttavia, la scelta di far incarnare Mussolini in due corpi diversi è decisiva, perché radicalizza nel film la scissione tra il Mussolini conosciuto da Ida, vivente, accessibile, tangibile, carnale (il sesso, gli occhi, specchio dell’anima, la voce) e il Mussolini della separazione, lontano, inaccessibile, fantasmatico, non carnale (le sue apparizioni sono affidate alla riproduzione filmica, al b/n stinto e graffiato della pellicola). Questa trasformazione è un trasferimento sul piano fantasmatico, quindi una de-umanizzazione. E infatti culmina nella reificazione (il divenire cosa) di Mussolini come capoccione di pietra campeggiante nell’orfanotrofio, che il piccolo Benito Albino contempla e poi rovescerà.
La stessa qualità cinematografica leggermente sgranata accomuna i filmati di Mussolini e gli altri frammenti di film che Bellocchio splendidamente intesse in “Vincere” (fra cui “Maciste alpino”, “Saturnino Farandola”, “Christus”). Questi non sono mera ricostruzione “scenografica” bensì proiezioni dell’inconscio: come vediamo dalla scena della crocifissione del “Christus” di Giulio Antamoro proiettata, gigantesca, sul soffitto della chiesa-ospedale dove Mussolini giace ferito, che implica un’evidente fantasia di identificazione. O autentici rispecchiamenti della vicenda esistenziale, come “Il monello” di Chaplin proiettato al manicomio, mise en abyme della perdita (e del sogno di risarcimento) di Ida.
Che vuole Ida? Essere riconosciuta, cioè vista: quel riconoscimento impossibile nella ricerca del quale si bruciano i protagonisti bellocchiani; poi, sul sogno del riconoscimento lei elabora, fino alla fantasia di entrare a Villa Torlonia come moglie legittima al posto dell’usurpatrice Rachele. L’oggetto del desiderio è un fantasma. Il movimento del film di Bellocchio quindi si sposta dalla concretezza dei corpi all’inafferrabilità dei fantasmi. Dunque, un movimento malato: potremmo dire, rovesciando Freud, “dove c’era l’Io ci sarà l’Es”.
Quello che Ida, con tutto il suo caparbio coraggio, non accetta di ammettere è che lei non potrà mai essere una presenza per Mussolini, perché questo egomane (un imbonitore: non a caso il film si apre col più famoso dei suoi numeri di prestidigitazione dialettica, quello dell’orologio) non riconosce presenze attorno a sé: solo figure che accettano di confondersi nella sua ombra, come una Rachele quasi caricaturale, quasi macchietta romagnola, o come il suo sodale negli anni, che non a caso si chiama Fedele. Il mediocre piccolo borghese Mussolini sente oscuramente in Ida qualcosa di irriducibile alla propria misura (del resto è lei che ha scelto lui e non viceversa). “Vincere” è il motto di Mussolini ma, prima che un programma, esprime quella pulsione elementare che Gilles Deleuze individua all’origine del naturalismo: una oscura/oscena volontà profonda di prevalere, priva di un oggetto preciso (essere più di Napoleone, confessa lui a Ida). Nella prima parte del film, a una postura già “mussoliniana” del giovane Mussolini risponde un filmato di repertorio della futura folla osannante sotto il balcone di Palazzo Venezia - lo stesso che rivedremo alla fine come controcampo reale.
Il dramma della madre si rispecchia in quello del figlio. Tutto il cinema di Bellocchio è attraversato dal doloroso discorso dell’omicidio/dell’assenza/della ricerca del padre. Il figlio-non figlio di Mussolini, Benito Albino, lo uccide più volte in forme simboliche, prima attraverso il rovesciamento della statua, poi attraverso l’identificazione perversa di una parodia che diventerà via via più isterica e sfasciata. Perché il padre è un Père Ubu, un sanguinoso clown (lo vediamo istrioneggiare nel discorso su Roma antica e il Mediterraneo - tema di una sua celebre conferenza su cui si sdilinquirono gli adulatori) che incanta gli italiani. Ancora un punto nodale del cinema di Bellocchio è la rappresentazione; ed ecco il fascismo come grande rappresentazione, insieme buffonesca e tragica, basata su forti sottintesi erotici (vedi la suora eccitata sessualmente da Mussolini che rimprovera Ida al manicomio). Una nevrosi della persona ma anche una nevrosi dell’intera nazione: la fascinazione sessuale per Mussolini che attraversa il film non può non richiamare uno dei libri più profondi scritti sul fascismo, “Eros e Priapo” di Carlo Emilio Gadda.
In tutta la parte iniziale l’elemento centrale è l’energia demoniaca, fisica, del giovane Mussolini, che risucchia e vampirizza il film; Ida è solo un occhio che osserva ammaliato, un corpo che si offre; certo, anche un patrimonio che si prosciuga, ma pure questo sacrificio ha qualcosa di carnale (i soldi sulla scrivania, lei nuda sul letto, con un viso ferino). Si direbbe che Ida cominci a mostrare una personalità quando annuncia all’amante di essere incinta; e assume ai nostri occhi una propria psicologia dolente e indomabile quando è separata da Mussolini. Cioè la sua personalità si crea a partire da un’assenza, e per questo è una personalità scissa e infelice, interamente proiettata sul desiderio. Ma nondimeno - basta la sequenza del colloquio al manicomio, in cui lei soverchia i dottori - più viva e vitale di coloro che la circondano.
Prendiamo la notevole scena dell’incontro (dopo l’abbandono) all’esposizione futurista, dove Ida si solleva la gonna ed esibisce il pube nudo a Mussolini in visita. Sul piano diegetico è un segnale aggressivo (che trasferisce sul piano dei rapporti interpersonali lo zimm bamm bum dei futuristi) ma a livello più profondo è l’irruzione nel film di quella figura di donna dionisiaca, irriducibile alla coscienza maschile, che è figura ritornante nel cinema di Bellocchio (in questo senso il gesto di Ida è l’equivalente della torta in faccia tirata al magistrato in un film importante ma meno riuscito, “La condanna”). Per questo le pazze che berciano e corrono nella camerata dell’ospedale psichiatrico, all’arrivo di Ida, contrariamente alla plausibilità storica sono completamente nude. Attraverso il dramma di Ida “Vincere” recupera quell’alterità all’ordine, quell’irruzione dell’inconscio, che esplodeva nella follia e nella stregoneria de “La visione del sabba” - qui esplicitamente ricordato nell’inquadratura di Ida appesa alla grata del manicomio. Ida non può ricondursi alla saggezza di autoconservazione suggerita dallo psichiatra benintenzionato (“Questo è il tempo di tacere, il tempo di essere attori”) perché la sua ricerca ossessiva, il suo lutto, è irriducibile alle norme dell’“istituzione totale” - che non è il manicomio ma l’intero paese. Al fondo di questa ricerca c’è la morte.
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