Martin Scorsese
I morti parlano ai vivi sulla triste isola di Shutter Island, nella baia di Boston, dove sorge il manicomio di Ashecliff per pazzi criminali. Una ricoverata, Rachel Solando, assassina dei suoi tre bambini, è misteriosamente evasa. L'agente FBI Teddy Daniels (un grande Leonardo Di Caprio, somigliante a Orson Welles da giovane) e il suo nuovo collega Chuck (Mark Ruffalo, notevole in una parte tutta sotto le righe) vi si recano per investigare. Siamo nel 1954; le ombre della guerra e dei campi di sterminio gridano ancora nella memoria del protagonista, che è entrato con le prime truppe americane a Dachau, e si intrecciano con la sua tragedia familiare: la moglie è morta in un incendio scatenato dal piromane Laeddis.
Il bellissimo noir di Martin Scorsese si apre su una nebbia bianca che invade lo schermo. Ne spunta la prua del battello che porta i due agenti all'isola - e sembra la nave che porta nell'Ade. I morti parlano ai vivi: Dolores, la moglie morta, appare a Teddy, dapprima in sogno, in una scena che ricorda molto David Lynch; come in Lynch i morti trasmettono suggerimenti oscuri (“Lei è ancora qui”). Poi compare sempre più spesso, tra sogni e allucinazioni, man mano che la sanità mentale di Teddy sembra andare in rovina. Compare anche una bambina che fonde in sé le vittime di Rachel Solando e quelle di Dachau, e seguita a ripetergli “Avresti potuto salvarmi”, “Perché non mi hai salvata?”
Il riferimento immediato è ai grandi film “manicomiali”, “La fossa dei serpenti” di Litvak, gli incubi di Lang e di Rossen (“Lilith”), e soprattutto “Il corridoio della paura” di Fuller. Il realismo espressionista scorsesiano incrocia le atmosfere decadenti dell'horror contemporaneo in questa cupa ambientazione, frutto dello splendido lavoro scenografico di Dante Ferretti. L'evasione di Rachel Solando si rivela di una “gotica” impossibilità. I prigionieri dispensano oscuri sorrisi, i testimoni paiono imbeccati, gli psichiatri in carica (Ben Kingsley, Max Von Sydow) sono paradigmi di ambiguità. L'indagine assume i contorni della paranoia: il sospetto è che il manicomio sia fidanzato dalla HUAC (quella del maccartismo) e dai servizi segreti, e che vi si svolgano esperimenti diabolici sui pazzi, tesi a creare una razza di perfetti assassini. Teddy in realtà è sull'isola per investigare su questo - e anche per trovare Laeddis, l'incendiario, che sospetta essere lì. Ma non sarà che i suoi avversari lo hanno attirato sull'isola proprio per farlo sparire dichiarandolo pazzo? Giacché il paradosso della pazzia è che il contrario è indimostrabile: ai pazzi non si crede, qualunque cosa dicano. Forse gli stanno già somministrando di nascosto sostanze psicotrope. E può fidarsi di Chuck? Nell'indagine-incubo di Teddy si situano sullo stesso piano gli ambigui brandelli di una verità nascosta, i sogni e le allucinazioni che lo tormentano.
Il film di Scorsese a cui “Shutter Island” è più vicino è evidentemente “Al di là della vita”, del 1999: il tema è lo stesso, il senso di colpa per omissione, la sofferenza per non aver potuto salvare le vittime (e v'erano già in “Al di là della vita” le apparizioni allucinatorie dei morti). A torto poco amato dalla critica, “Shutter Island” è in realtà un film iper-scorsesiano, e non solo per l'interesse constante del regista per la nevrosi e i personaggi ossessivi. Anche l'impulso autodistruttivo dei personaggi scorsesiani raramente ha trovato nel cinema del maestro un'illustrazione così compiuta - come non citare la toccante ambiguità della scena finale?
Il cinema di Scorsese aspira sempre alla totalità: il suo modo narrativo è spiraliforme. Così qui Scorsese, partendo dalla psicologia contorta del protagonista, allarga la visione all'evocazione dei sanguinosi orrori del Novecento. Accanto alla guerra civile americana, che in effetti anticipò la guerra totale novecentesca (e costituì per l'America la perdita dell'innocenza, anche questo uno dei temi base scorsesiani), il film evoca tutte le atrocità del totalitarismo: i Lager nazisti, i gulag sovietici, i campi di prigionia nordcoreani - l'universo concentrazionario di cui il manicomio di Ashecliff sembra essere una replica sperimentale in terra americana. Nonché i mali a venire, come la bomba H, su cui si impunta il delirio aggressivo di un ricoverato. Ecco dunque ritornare nel film l'angosciata riflessione di Scorsese sul perdono e la grazia; addirittura assistiamo a una pagina di tentazione diabolica, quando il capo delle guardie costringe Teddy a una discussione sulla violenza sostenendo che loro sono entrambi dei violenti e che “Dio ci ha dato la violenza per compierla in Suo onore”. Il suo ragionamento si chiude con una battuta molto significativa: “Noi due ci conosciamo da secoli”.
Se già questo basta per considerare “Shutter Island” un film assai rilevante, adesso però tocca affrontare l'ultimo punto - avvertendo il lettore che quanto segue è lo spoiler degli spoiler, per chi non ha visto il film o non ha letto il romanzo di Dennis Lehane da cui è tratta l'eccellente sceneggiatura di Laeta Kalogridis.
Perché tutto questo complotto che si svolge nel manicomio è un delirio di Teddy, che era un agente FBI ma da due anni è uno dei ricoverati, in preda a un'amnesia traumatica per aver ucciso la moglie dopo che questa impazzita aveva ucciso i loro tre figli (la sequenza del flashback “reale” è fra le più terribili del cinema di Scorsese). Teddy in realtà si chiama Laeddis. E' uno psicotico violento, e la sua indagine non era che un role play terapeutico, messo in scena dal direttore del manicomio come estremo tentativo prima di doverlo sottoporre a lobotomia. Chuck in realtà è lo psichiatra di Daniels/Laeddis, da lui non riconosciuto nel suo delirio. Vediamo Teddy sparare al direttore ma poi vediamo quest'ultimo vivo e vegeto: la scena serve a darci un punto d'appoggio oggettivo nella visione.
E' consigliabile vedere “Shutter Island” due volte: così si può cogliere la sua estrema abilità nei dettagli. Ad esempio accorgersi di come Chuck sorvegli e controlli Teddy nel corso dell'indagine. Un particolare indovinatissimo: all'inizio del film, quando consegnano le armi, Chuck mostra un evidente impaccio con la fondina, cosa che per un agente FBI sarebbe strana - ma non per uno psichiatra che ne recita il ruolo. Tutto viene ridefinito; l'interazione dei pazienti e delle guardie con Teddy è significativa, molte battute cambiano di significato al pari degli sguardi. Alla luce della nostra nuova conoscenza, la scena folle della moltiplicazione di ratti sulla scogliera è chiaramente un'allucinazione – e qui Scorsese ha giocato sul carattere ultra-espressivo del cinema contemporaneo, che solo poteva farla accettare come realtà. Ci accorgiamo anche che la figura allucinatoria di Dolores è paradossalmente nel giusto quando supplica Teddy di andarsene dall'isola (“Questo posto sarà la tua fine”) - poiché la guarigione del protagonista significherà la fine della sua attuale personalità.
Dunque “Shutter Island” si basa su quello che potremmo chiamare il “principio del Ponte di Owl Creek”, dal famoso racconto di Ambrose Bierce (un prigioniero sta per essere impiccato; la corda si rompe e lui fugge; tutto intorno a lui ha un alone di stranezza; raggiunge sua moglie e sta per abbracciarla quando scoppia un accecante lampo di luce bianca: “il suo corpo col collo spezzato dondolava lentamente dal ponte di Owl Creek”). Ne è stato tratto un cortometraggio, “La Rivière du Hibou”, che mi spiace di non conoscere, ma lo stesso meccanismo di radicale ridefinizione finale della realtà sta alla base di “Jacob's Ladder” (“Allucinazione perversa”), il miglior film di Adrian Lyne, e d'un discreto numero di altri film.
E' la figlia di Teddy (di nome Rachel!) la bambina che gli appariva nelle allucinazioni. Tutto il dolore collettivo si fonde col dolore privato del delitto e delle atrocità inconsapevoli commesse dalla pazzia - con l'orrore di vivere in assoluto. Così l'eterno tema della teodicea (come può Dio consentire il male?) entra in primo piano; ed è questo che ci interessa, più che il gioco “enigmistico” di inserire particolari che risultano significativi a una seconda visione. Ed è per questo, per la forza della concezione e della realizzazione, che “Shutter Island” è un grande Scorsese - una disperata elegia.
domenica 28 marzo 2010
martedì 16 marzo 2010
Alice in Wonderland
Tim Burton
Proprio come “Vent'anni dopo” di Alexandre Dumas non è “I tre moschettieri” (gli eroi sono cambiati col tempo, lasciandosi alle spalle lo spensierato entusiasmo della giovinezza), così “Alice in Wonderland” di Tim Burton non è, a dispetto del titolo, “Alice nel Paese delle Meraviglie”. E' il “Tredici anni dopo” di Alice Kingsleigh (il vero cognome Liddell è stato cambiato per toglierla dalla dimensione storica reale) che, diciannovenne, torna nel Sottomondo (da bambina lo chiamava Paese delle Meraviglie), non più come intrusa ma come salvatrice profetizzata. E' un post-“Alice”: un'“Alice” razionalizzata. L'universo del film mantiene il carattere fantastico dell'universo di Lewis Carroll ma ne rifiuta completamente la caratteristica principale, il nonsense. Così, se volete ritrovare il nonsense carrolliano al cinema, dovete rivolgervi allo splendido cartoon Disney del 1951 (mi scuso di non conoscere il film live action di Norman McLeod del 1933), non certo qui.
E' un'operazione lecita? Al cinema, come in guerra e in amore, tutto è lecito; però, come in guerra e in amore, è sempre giusto chiedersi se ne valeva la pena. L'“Alice in Wonderland” di Burton, di produzione Disney, è sicuramente piacevole, in entrambe le versioni (la migliore è quella in 2D), ma il problema è un altro: è che non se ne esce con la precisa sensazione di avere visto un capolavoro o quanto meno un film memorabile, come accade per quasi tutte le opere di Tim Burton - come le ultime, “La sposa cadavere” e “Sweeney Todd”.
Si direbbe che la sceneggiatura dell'autrice disneyana Linda Woolverton (“Il re leone”) sia un palinsesto sul quale si leggono ancora le tracce di una scrittura precedente, ovvero l'interpretazione (tradizionale) del Sottomondo come “doppio” allucinatorio della realtà vittoriana in cui Alice malvolentieri vive. La futura suocera ha i tratti della Regina Rossa (l'episodio delle rose bianche, la crudeltà verso i conigli); le due gemelle rimandano a Tweedledum e Tweedledee (qui Panco Pinco e Pinco Panco). In questo senso è interessante notare come Alice abbia qualcosa di entrambe le regine, la buona e la cattiva: come campione della Regina Bianca partecipa dell'essenza di lei (quando appare in armatura alla fine, sembrano sorelle), ma cala la spada sul Jabberwock (qui il Ciciarampa) col classico grido della Regina Rossa: “Tagliamogli la testa!” In questa storia di crescita, non è casuale che la nave su cui Alice parte per la Cina alla fine si chiami Wonder.
Tuttavia sotto questa chiave di lettura, e alquanto in conflitto con essa, abbiamo un'interpretazione del Sottomondo come una sorta di altra dimensione (la scoperta di Alice nell'ultimo colloquio col Bruco: quello che credeva un sogno era un ricordo). Non dimentichiamo che in Burton, più che l'elemento allucinatorio, è centrale il concetto di trespassing da una dimensione all'altra (l'albero fra le cui radici si apre il buco in cui cade Alice ricorda immediatamente l'Albero dei Morti de “Il mistero di Sleepy Hollow”).
Solo che qui la scelta razionalizzante diventa riduzionistica. I personaggi perdono la loro aura chimerica e folle senza guadagnare granché in cambio. Guardate il Dodo, oppure il Ghiro spadaccino, banalissimo, che sembra uscito da un film della serie “Shrek”; pure Tweedledum e Tweedledee sono imprevedibilmente fiacchi. Probabilmente il maggior fallimento è la figura del Cappellaio Matto, che qui diventa una specie di capo della resistenza lealista con problemi psichici da trauma (lo shock dell'attacco della Regina Rossa col Jabberwock). L'impressione è che Johnny Depp - non aiutato da un makeup più vistoso che realmente interessante - fallisca nel tentativo di dare al personaggio quella qualità amara e fantastica che ricerca. I suoi improvvisi scoppi di rabbia e di pazzia sono solo una pallida ombra delle sue creature lunari burtoniane, da Edward Scissorhands a Sweeney Todd. E la mediocrità della “deliranza” (la sua danza di vittoria) sarà voluta? Il momento migliore di Depp nel film è quando recita con epica solennità l'immortale poesia “Jabberwocky” di Carroll - non completa, anche perché non si adatterebbe bene al contesto (a titolo di curiosità: nella poesia si dice chiaramente che l'uccisore del Jabberwock è maschio).
Molto più riuscita la Regina Rossa, visivamente ispirata a Bette Davis nel ruolo della Grande Elisabetta, con una testa enorme (“bulbosa”, vien detto nel film): Helena Bonham-Carter realizza con una raffinata interpretazione una figura in cui ferocia e fragilità si uniscono (quindi uno dei classici mostri crepuscolari burtoniani). Ottima anche la Regina Bianca, inquietante creatura di neve, splendidamente disegnata (al biancore di veste e capelli e pallore contrastano le unghie, sopracciglia e labbra nere) e ispirata probabilmente alle fate e regine fatate del cinema muto. La sua dolcezza quasi eccessiva nasconde un lato di bizzarria diabolica che balugina solo nella scena della preparazione del disgustoso filtro per Alice.
La computer graphics, eccezionalmente buona, conferisce al film un realismo assoluto. Il Coniglio Bianco è un personaggio altrettanto tangibile che Alice, e lo stesso vale per i tre mostri (tutti arruolati dalla poesia “Jabberwocky”). Ora, Tim Burton da un lato non è affatto un regista allusivo, indeterminato, misty (infatti nelle sue animazioni preferisce al cartoon la corporeità dei pupazzi); ama le raffigurazioni concrete (“Il mistero di Sleepy Hollow”); dall'altro, deve fuggire una tentazione che lo accompagna sempre, ed è l'eccesso di realismo, quello che rovinava “Planet of the Apes”. Questa sua “Alice” non avrà forse un realismo eccessivo per l'uomo che in “Mars Attacks!” aveva fatto muovere i marziani in una falsa stop motion realizzata al computer? Facciamo un semplice esercizio di fantasia: immaginiamoci questa “Alice”, con la sua sceneggiatura, realizzata con pupazzi animati come “La sposa cadavere”. Vedete che d'improvviso tutto va a posto?
Resta da dire qualcosa a proposito della versione tridimensionale. Il problema è il mezzo. Di solito si dice che il 3D dà la sensazione della profondità al cinema. In realtà il 3D dà la sensazione della profondità non entro la scena bensì fra i differenti strati di cui si compone la scena: fra il primo piano, sentito come illusoriamente vicino agli occhi, e il backdrop. Addirittura ne consegue una sensazione di appiattimento. Storicamente il passaggio dal muto al sonoro, mentre apriva una nuova dimensione al cinema, comportò agli inizi un impoverimento del linguaggio cinematografico. Per il 3D - ammesso che duri - tocca fare la stessa considerazione.
Proprio come “Vent'anni dopo” di Alexandre Dumas non è “I tre moschettieri” (gli eroi sono cambiati col tempo, lasciandosi alle spalle lo spensierato entusiasmo della giovinezza), così “Alice in Wonderland” di Tim Burton non è, a dispetto del titolo, “Alice nel Paese delle Meraviglie”. E' il “Tredici anni dopo” di Alice Kingsleigh (il vero cognome Liddell è stato cambiato per toglierla dalla dimensione storica reale) che, diciannovenne, torna nel Sottomondo (da bambina lo chiamava Paese delle Meraviglie), non più come intrusa ma come salvatrice profetizzata. E' un post-“Alice”: un'“Alice” razionalizzata. L'universo del film mantiene il carattere fantastico dell'universo di Lewis Carroll ma ne rifiuta completamente la caratteristica principale, il nonsense. Così, se volete ritrovare il nonsense carrolliano al cinema, dovete rivolgervi allo splendido cartoon Disney del 1951 (mi scuso di non conoscere il film live action di Norman McLeod del 1933), non certo qui.
E' un'operazione lecita? Al cinema, come in guerra e in amore, tutto è lecito; però, come in guerra e in amore, è sempre giusto chiedersi se ne valeva la pena. L'“Alice in Wonderland” di Burton, di produzione Disney, è sicuramente piacevole, in entrambe le versioni (la migliore è quella in 2D), ma il problema è un altro: è che non se ne esce con la precisa sensazione di avere visto un capolavoro o quanto meno un film memorabile, come accade per quasi tutte le opere di Tim Burton - come le ultime, “La sposa cadavere” e “Sweeney Todd”.
Si direbbe che la sceneggiatura dell'autrice disneyana Linda Woolverton (“Il re leone”) sia un palinsesto sul quale si leggono ancora le tracce di una scrittura precedente, ovvero l'interpretazione (tradizionale) del Sottomondo come “doppio” allucinatorio della realtà vittoriana in cui Alice malvolentieri vive. La futura suocera ha i tratti della Regina Rossa (l'episodio delle rose bianche, la crudeltà verso i conigli); le due gemelle rimandano a Tweedledum e Tweedledee (qui Panco Pinco e Pinco Panco). In questo senso è interessante notare come Alice abbia qualcosa di entrambe le regine, la buona e la cattiva: come campione della Regina Bianca partecipa dell'essenza di lei (quando appare in armatura alla fine, sembrano sorelle), ma cala la spada sul Jabberwock (qui il Ciciarampa) col classico grido della Regina Rossa: “Tagliamogli la testa!” In questa storia di crescita, non è casuale che la nave su cui Alice parte per la Cina alla fine si chiami Wonder.
Tuttavia sotto questa chiave di lettura, e alquanto in conflitto con essa, abbiamo un'interpretazione del Sottomondo come una sorta di altra dimensione (la scoperta di Alice nell'ultimo colloquio col Bruco: quello che credeva un sogno era un ricordo). Non dimentichiamo che in Burton, più che l'elemento allucinatorio, è centrale il concetto di trespassing da una dimensione all'altra (l'albero fra le cui radici si apre il buco in cui cade Alice ricorda immediatamente l'Albero dei Morti de “Il mistero di Sleepy Hollow”).
Solo che qui la scelta razionalizzante diventa riduzionistica. I personaggi perdono la loro aura chimerica e folle senza guadagnare granché in cambio. Guardate il Dodo, oppure il Ghiro spadaccino, banalissimo, che sembra uscito da un film della serie “Shrek”; pure Tweedledum e Tweedledee sono imprevedibilmente fiacchi. Probabilmente il maggior fallimento è la figura del Cappellaio Matto, che qui diventa una specie di capo della resistenza lealista con problemi psichici da trauma (lo shock dell'attacco della Regina Rossa col Jabberwock). L'impressione è che Johnny Depp - non aiutato da un makeup più vistoso che realmente interessante - fallisca nel tentativo di dare al personaggio quella qualità amara e fantastica che ricerca. I suoi improvvisi scoppi di rabbia e di pazzia sono solo una pallida ombra delle sue creature lunari burtoniane, da Edward Scissorhands a Sweeney Todd. E la mediocrità della “deliranza” (la sua danza di vittoria) sarà voluta? Il momento migliore di Depp nel film è quando recita con epica solennità l'immortale poesia “Jabberwocky” di Carroll - non completa, anche perché non si adatterebbe bene al contesto (a titolo di curiosità: nella poesia si dice chiaramente che l'uccisore del Jabberwock è maschio).
Molto più riuscita la Regina Rossa, visivamente ispirata a Bette Davis nel ruolo della Grande Elisabetta, con una testa enorme (“bulbosa”, vien detto nel film): Helena Bonham-Carter realizza con una raffinata interpretazione una figura in cui ferocia e fragilità si uniscono (quindi uno dei classici mostri crepuscolari burtoniani). Ottima anche la Regina Bianca, inquietante creatura di neve, splendidamente disegnata (al biancore di veste e capelli e pallore contrastano le unghie, sopracciglia e labbra nere) e ispirata probabilmente alle fate e regine fatate del cinema muto. La sua dolcezza quasi eccessiva nasconde un lato di bizzarria diabolica che balugina solo nella scena della preparazione del disgustoso filtro per Alice.
La computer graphics, eccezionalmente buona, conferisce al film un realismo assoluto. Il Coniglio Bianco è un personaggio altrettanto tangibile che Alice, e lo stesso vale per i tre mostri (tutti arruolati dalla poesia “Jabberwocky”). Ora, Tim Burton da un lato non è affatto un regista allusivo, indeterminato, misty (infatti nelle sue animazioni preferisce al cartoon la corporeità dei pupazzi); ama le raffigurazioni concrete (“Il mistero di Sleepy Hollow”); dall'altro, deve fuggire una tentazione che lo accompagna sempre, ed è l'eccesso di realismo, quello che rovinava “Planet of the Apes”. Questa sua “Alice” non avrà forse un realismo eccessivo per l'uomo che in “Mars Attacks!” aveva fatto muovere i marziani in una falsa stop motion realizzata al computer? Facciamo un semplice esercizio di fantasia: immaginiamoci questa “Alice”, con la sua sceneggiatura, realizzata con pupazzi animati come “La sposa cadavere”. Vedete che d'improvviso tutto va a posto?
Resta da dire qualcosa a proposito della versione tridimensionale. Il problema è il mezzo. Di solito si dice che il 3D dà la sensazione della profondità al cinema. In realtà il 3D dà la sensazione della profondità non entro la scena bensì fra i differenti strati di cui si compone la scena: fra il primo piano, sentito come illusoriamente vicino agli occhi, e il backdrop. Addirittura ne consegue una sensazione di appiattimento. Storicamente il passaggio dal muto al sonoro, mentre apriva una nuova dimensione al cinema, comportò agli inizi un impoverimento del linguaggio cinematografico. Per il 3D - ammesso che duri - tocca fare la stessa considerazione.
venerdì 5 marzo 2010
Invictus - L'invincibile
Clint Eastwood
Gli americani dicono che la differenza fra un paese libero e una dittatura è che nel primo, se senti bussare alle cinque del mattino, sai che è il lattaio. Clint Eastwood e il suo sceneggiatore Anthony Peckham devono essersene ricordati per una bella scena all'inizio di “Invictus”. Montaggio alternato: le guardie del corpo di Mandela (neo-eletto Presidente del Sudafrica dopo anni di prigionia) lo accompagnano al lavoro, un furgone corre nella città notturna, nel nerissimo buio eastwoodiano. Momento di allarme quando si incrociano! Poi il furgone li supera e butta giù il pacco dei giornali nuovi da vendere. Ecco il compito di Mandela: far sì che un furgone in corsa non faccia paura.
Due paesi separati dentro uno stesso paese, due destini che devono diventare un destino solo, pena il distruggersi l'un l'altro. Mandela (Morgan Freeman) si inventa una riconciliazione attraverso un'alta impresa: “Questa nazione ha fame di grandezza”. Punta sulla squadra di rugby degli Springbok - detestata dai negri come simbolo dell'apartheid - e sul suo capitano François Pienaar (Matt Damon) affinché vincano la coppa del mondo 1995 (ospitata dal Sudafrica) unificando nella vittoria bianchi e neri. Così il parallelismo insito nel concetto stesso di “Invictus” s'incarna in due personaggi e due destini personali, Mandela e Pienaar (che poi il gigantesco Freeman rubi la scena al pur bravo Damon, questo non può essere negato) - fino al vasto e sinfonico capitolo finale che mostra ed esalta l'unità costruita (François ai suoi uomini stanchi durante la partita finale mentre risuona l'urlo degli spettatori: “Li sentite? Ascoltate il vostro paese!”). “Invictus” è anche grande cinema sportivo. Le partite di rugby, filmate con fluide riprese a mano e in steadycam, sono emozionanti; Eastwood - come mostra tutta la sua opera, e segnatamente “Million Dollar Baby” - sa rendere magnificamente la fisicità della mischia: i grugniti, il sangue, gli spruzzi di saliva, le zolle di terra che volano.
Un racconto articolato, tanto semplice per concezione quanto ricco di sfumature, è realizzato in sequenze di pura classicità; in verità “Invictus” è un film che avrebbe potuto firmare John Ford – vale anche per il rapporto di Mandela con la segretaria Brenda (Adjoa Andoh), che gli fa da sparring partner sul piano spettacolare. Nella figura di Mandela ritroviamo due sfaccettature tipiche dell'eroe eastwoodiano. La prima è l'indomabilità. “Sono il padrone del mio destino / Il capitano della mia anima”, recita la poesia amata da Mandela (“Invictus” di William Ernest Henley, 1875) che ritorna nel film, esplodendo con forza nella scena della visita degli Springboks al vecchio campo di prigionia; François si ferma nella piccola cella di Mandela ed entra il flashback, realizzato modernamente con la compresenza delle due linee temporali (quindi è anche una visualizzazione soggettiva). Il secondo carattere è la solitudine. Gli eroi eastwoodiani, senza eccezione, sono dei solitari; nel film ritroviamo i loro tratti, la malinconia e il senso di colpa dovuti alla separazione dalle persone amate (anche se la figura imbarazzante di Winnie Mandela è messa fra parentesi). E la solitudine del leader, nonostante l'affetto che lo circonda: per il semplice motivo che vola più alto.
Non per nulla Mandela nel loro primo incontro chiede a François qual è la sua filosofia della leadership. “Invictus” è precisamente un film sulle qualità del leader e le sue responsabilità (una parola chiave nel cinema di Eastwood). L'uomo cui è stato affidato il bastone del comando è tale perché ha una visione, vede sopra le teste dei suoi simili, e ha l'obbligo di portare avanti la sua visione anche contro i loro dubbi. “Visto che mi avete eletto vostra guida, lasciatevi guidare da me”, dice Mandela ai suoi compagni di partito quando vorrebbero mettere al bando gli Springbok. C'è qualcosa di monarchico in “Invictus”: ma è la grande tradizione americana, in cui il Presidente è un re non coronato.
Questo film è anche una lezione di politica in senso alto (fin dall'appello di Mandela agli impiegati bianchi, i discorsi nel film sono solenni e bellissimi). Morgan Freeman è quanto mai carismatico (in fin dei conti, l'uomo ha interpretato due volte Dio!) ma allo stesso tempo delinea un personaggio di estrema umanità: vediamo Mandela con una luce di divertimento negli occhi mentre porta avanti i suoi progetti - golpe e lione, direbbe Machiavelli - con piccole astuzie (imparare a memoria i nomi dei giocatori per conquistarseli, accogliere al primo incontro l'intimorito François dicendogli “Che grande onore, sono emozionato”); astuzie che non son altro che il mezzo attraverso cui si realizza la grande visione.
Un'importante realizzazione del film è dunque di aver reso la figura di Mandela come un uomo superiore senza per questo averne fatto un santino. Eastwood si diverte anche a mostrarcelo a una festa che fa il galletto con la bellona negra con cui balla, e le dice d'invidiare il padre che praticava la poligamia. Questo carattere di umanità fornisce la base su cui possono svilupparsi gli innalzamenti lirici e drammatici senza provocare l'“effetto monumento”. Così “Invictus” sfugge a quella tendenza alla Madame Tussaud che rischiano i film celebrativi - per esempio il “Malcolm X” di Spike Lee.
Il momento in cui vediamo iniziare a formarsi l'unità nazionale attorno agli Springbok è quando il loro bus riparte dalla township nera dove si è conquistato per la prima volta gli applausi, e la mdp in panoramica inquadra il cartello “One Team One Country”. Eastwood passa quasi subito a un panorama sudafricano dall'alto, in campo lunghissimo con una nitida messa a fuoco, e un aereo in volo, che porta gli Springbok alla prima partita. Poco più tardi vediamo una ripresa analoga, con un elicottero (Mandela va a fare gli auguri alla squadra). E' un modo originale di portare al culmine la solennità della narrazione trasformando metaforicamente l'altezza ideale in vastità spaziale - dove la presenza della macchina (aereo, elicottero) serve a mediare ancorando la metafora all'elemento umano. Controprova: l'aereo che passerà sopra lo stadio mostrando una scritta augurale dipinta sulla pancia (Eastwood ci costruisce una scena di suspense post-11 settembre; nella realtà storica le guardie del corpo erano state avvertite) è inquadrato in volo senza la nitidezza solennizzante degli altri totali.
“Invictus” è il miglior film che Eastwood abbia fatto dopo “Million Dollar Baby” e il grande distico su Iwo Jima: perché è il più classico, il più pulito, il più lineare e diretto. Come l'umanista John Ford, cui questo film fa pensare, l'umanista Eastwood sa filmare allo stesso modo le grandissime e le piccole cose: accanto allo scontro sportivo e al dramma di un paese che cambia pelle, il sorriso commosso della cameriera negra dei Pienaar quando François porta anche a lei oltre che ai genitori il biglietto omaggio per la finale, o le buffonerie degli uomini della sicurezza bianchi e neri che per la prima volta giocano a rugby insieme. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.
Gli americani dicono che la differenza fra un paese libero e una dittatura è che nel primo, se senti bussare alle cinque del mattino, sai che è il lattaio. Clint Eastwood e il suo sceneggiatore Anthony Peckham devono essersene ricordati per una bella scena all'inizio di “Invictus”. Montaggio alternato: le guardie del corpo di Mandela (neo-eletto Presidente del Sudafrica dopo anni di prigionia) lo accompagnano al lavoro, un furgone corre nella città notturna, nel nerissimo buio eastwoodiano. Momento di allarme quando si incrociano! Poi il furgone li supera e butta giù il pacco dei giornali nuovi da vendere. Ecco il compito di Mandela: far sì che un furgone in corsa non faccia paura.
Due paesi separati dentro uno stesso paese, due destini che devono diventare un destino solo, pena il distruggersi l'un l'altro. Mandela (Morgan Freeman) si inventa una riconciliazione attraverso un'alta impresa: “Questa nazione ha fame di grandezza”. Punta sulla squadra di rugby degli Springbok - detestata dai negri come simbolo dell'apartheid - e sul suo capitano François Pienaar (Matt Damon) affinché vincano la coppa del mondo 1995 (ospitata dal Sudafrica) unificando nella vittoria bianchi e neri. Così il parallelismo insito nel concetto stesso di “Invictus” s'incarna in due personaggi e due destini personali, Mandela e Pienaar (che poi il gigantesco Freeman rubi la scena al pur bravo Damon, questo non può essere negato) - fino al vasto e sinfonico capitolo finale che mostra ed esalta l'unità costruita (François ai suoi uomini stanchi durante la partita finale mentre risuona l'urlo degli spettatori: “Li sentite? Ascoltate il vostro paese!”). “Invictus” è anche grande cinema sportivo. Le partite di rugby, filmate con fluide riprese a mano e in steadycam, sono emozionanti; Eastwood - come mostra tutta la sua opera, e segnatamente “Million Dollar Baby” - sa rendere magnificamente la fisicità della mischia: i grugniti, il sangue, gli spruzzi di saliva, le zolle di terra che volano.
Un racconto articolato, tanto semplice per concezione quanto ricco di sfumature, è realizzato in sequenze di pura classicità; in verità “Invictus” è un film che avrebbe potuto firmare John Ford – vale anche per il rapporto di Mandela con la segretaria Brenda (Adjoa Andoh), che gli fa da sparring partner sul piano spettacolare. Nella figura di Mandela ritroviamo due sfaccettature tipiche dell'eroe eastwoodiano. La prima è l'indomabilità. “Sono il padrone del mio destino / Il capitano della mia anima”, recita la poesia amata da Mandela (“Invictus” di William Ernest Henley, 1875) che ritorna nel film, esplodendo con forza nella scena della visita degli Springboks al vecchio campo di prigionia; François si ferma nella piccola cella di Mandela ed entra il flashback, realizzato modernamente con la compresenza delle due linee temporali (quindi è anche una visualizzazione soggettiva). Il secondo carattere è la solitudine. Gli eroi eastwoodiani, senza eccezione, sono dei solitari; nel film ritroviamo i loro tratti, la malinconia e il senso di colpa dovuti alla separazione dalle persone amate (anche se la figura imbarazzante di Winnie Mandela è messa fra parentesi). E la solitudine del leader, nonostante l'affetto che lo circonda: per il semplice motivo che vola più alto.
Non per nulla Mandela nel loro primo incontro chiede a François qual è la sua filosofia della leadership. “Invictus” è precisamente un film sulle qualità del leader e le sue responsabilità (una parola chiave nel cinema di Eastwood). L'uomo cui è stato affidato il bastone del comando è tale perché ha una visione, vede sopra le teste dei suoi simili, e ha l'obbligo di portare avanti la sua visione anche contro i loro dubbi. “Visto che mi avete eletto vostra guida, lasciatevi guidare da me”, dice Mandela ai suoi compagni di partito quando vorrebbero mettere al bando gli Springbok. C'è qualcosa di monarchico in “Invictus”: ma è la grande tradizione americana, in cui il Presidente è un re non coronato.
Questo film è anche una lezione di politica in senso alto (fin dall'appello di Mandela agli impiegati bianchi, i discorsi nel film sono solenni e bellissimi). Morgan Freeman è quanto mai carismatico (in fin dei conti, l'uomo ha interpretato due volte Dio!) ma allo stesso tempo delinea un personaggio di estrema umanità: vediamo Mandela con una luce di divertimento negli occhi mentre porta avanti i suoi progetti - golpe e lione, direbbe Machiavelli - con piccole astuzie (imparare a memoria i nomi dei giocatori per conquistarseli, accogliere al primo incontro l'intimorito François dicendogli “Che grande onore, sono emozionato”); astuzie che non son altro che il mezzo attraverso cui si realizza la grande visione.
Un'importante realizzazione del film è dunque di aver reso la figura di Mandela come un uomo superiore senza per questo averne fatto un santino. Eastwood si diverte anche a mostrarcelo a una festa che fa il galletto con la bellona negra con cui balla, e le dice d'invidiare il padre che praticava la poligamia. Questo carattere di umanità fornisce la base su cui possono svilupparsi gli innalzamenti lirici e drammatici senza provocare l'“effetto monumento”. Così “Invictus” sfugge a quella tendenza alla Madame Tussaud che rischiano i film celebrativi - per esempio il “Malcolm X” di Spike Lee.
Il momento in cui vediamo iniziare a formarsi l'unità nazionale attorno agli Springbok è quando il loro bus riparte dalla township nera dove si è conquistato per la prima volta gli applausi, e la mdp in panoramica inquadra il cartello “One Team One Country”. Eastwood passa quasi subito a un panorama sudafricano dall'alto, in campo lunghissimo con una nitida messa a fuoco, e un aereo in volo, che porta gli Springbok alla prima partita. Poco più tardi vediamo una ripresa analoga, con un elicottero (Mandela va a fare gli auguri alla squadra). E' un modo originale di portare al culmine la solennità della narrazione trasformando metaforicamente l'altezza ideale in vastità spaziale - dove la presenza della macchina (aereo, elicottero) serve a mediare ancorando la metafora all'elemento umano. Controprova: l'aereo che passerà sopra lo stadio mostrando una scritta augurale dipinta sulla pancia (Eastwood ci costruisce una scena di suspense post-11 settembre; nella realtà storica le guardie del corpo erano state avvertite) è inquadrato in volo senza la nitidezza solennizzante degli altri totali.
“Invictus” è il miglior film che Eastwood abbia fatto dopo “Million Dollar Baby” e il grande distico su Iwo Jima: perché è il più classico, il più pulito, il più lineare e diretto. Come l'umanista John Ford, cui questo film fa pensare, l'umanista Eastwood sa filmare allo stesso modo le grandissime e le piccole cose: accanto allo scontro sportivo e al dramma di un paese che cambia pelle, il sorriso commosso della cameriera negra dei Pienaar quando François porta anche a lei oltre che ai genitori il biglietto omaggio per la finale, o le buffonerie degli uomini della sicurezza bianchi e neri che per la prima volta giocano a rugby insieme. “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.
Il concerto
Radu Mihaileanu
Nel cinema di Radu Mihaileanu (“Train de vie”, “Vai e vivrai”, “Il concerto”) è centrale il concetto del travestimento: il paradosso della furbizia per cui il piccolo uomo (che coincide con l'ebreo, vittima predestinata) si difende con le armi dell'imbroglio. I bersagli naturali di Mihaileanu sono i regimi totalitari, et pour cause: trasformano le realtà individuali in colpe collettive, a spese della classica figura dell'uomo onesto che non chiederebbe altro che di fare il suo lavoro.
Nella cupa URSS di Brežnev, Andrej ha perso il posto di direttore d'orchestra al Teatro Bolšoj per avere difeso i musicisti ebrei che il leader comunista antisemita voleva cacciare. Nella nuova Russia, vive facendo le pulizie al teatro. Intercetta un fax che invita l'orchestra del Bolšoj a suonare al Théâtre du Châtelet di Parigi, ed ecco il piano: raggrupperà i vecchi membri della sua antica orchestra e andranno a Parigi a suonare Čajkovskij spacciandosi per l'orchestra ufficiale.
Se “Il concerto”, film piacevolissimo, appare meno memorabile di “Train de vie” è per via della minore portata della truffa: quella di “Train de vie” era di un estremismo sfacciato (gli ebrei che si travestono per metà da nazisti e si auto-deportano su un treno per fuggire), passibile di essere sviluppato in modi sempre più pirotecnici (i finti deportati e i finti nazisti pregano insieme in una radura, spiati da partigiani che non ci capiscono nulla: “forse sono nazisti ebrei”). Ne “Il concerto” la truffa, sebbene comicamente assurda, non ha la stessa follia da Barone di Münchhausen dell'altro film.
La grande capacità di Mihaileanu è il bozzetto: sviluppandolo ci offre un quadro satirico assai divertente della Russia d'oggi, con i nouveaux riches mafiosi (bella la pagina del matrimonio superkitsch che finisce in sparatoria), gli oligarchi amici di Putin, i nostalgici del comunismo che affittano comparse per le loro manifestazioni, il piccolo mondo ebraico, gli zingari, la gente che si arrangia come può (grandi i due anziani che doppiano i film porno con torbidi gemiti emessi lavorando a maglia). Quando l'azione si sposta a Parigi il bozzettismo diventa un po' troppo divagante, anche se resta gradevole, e s'inserisce con una certa pesantezza il tema del rapporto fra Andrej e la famosa violinista Anne-Marie, da lui richiesta per il concerto. Se dico pesantezza è perché qui la sceneggiatura soffre di una carenza logica. L'ostilità della segretaria-agente di Anne-Marie verso Andrej serve a deviare lo spettatore sulla falsa pista che la violinista sia figlia illegittima di loro due; ma quando arriva la rivelazione della vera paternità, non ha più senso. Va aggiunto che la rivelazione offre l'occasione per un'immagine - i due vecchi musicisti ebrei soli nella neve nel gulag - che ricopre la stessa carica simbolica dell'inquadratura dell'ebreo in un piccolissimo recinto del lager alla fine di “Train de vie”.
Va da sé che, dopo mille pericoli e mille recuperi in extremis, per quest'orchestra raffazzonata sarà un trionfo mondiale (interessanti, sul piano del linguaggio, i flash-forward che durante il concerto mostrano e anticipano i viaggi trionfali dell'orchestra in seguito). Il film nel finale dà giustamente larghissimo spazio al Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij. Non solo una “metafora musicale “ (Mihaileanu) in cui si realizza quella fraternità che sta come utopia alla base della sua opera - ma anche una pagina musicale trascinante. Una delle figure più fosche del Novecento, V.I. Lenin, diceva di diffidare della grande musica perché ti fa venir voglia di abbracciare la gente mentre invece bisogna picchiarla sulla zucca. Nel suo rovesciamento psicopatico, ci aveva azzeccato.
Nel cinema di Radu Mihaileanu (“Train de vie”, “Vai e vivrai”, “Il concerto”) è centrale il concetto del travestimento: il paradosso della furbizia per cui il piccolo uomo (che coincide con l'ebreo, vittima predestinata) si difende con le armi dell'imbroglio. I bersagli naturali di Mihaileanu sono i regimi totalitari, et pour cause: trasformano le realtà individuali in colpe collettive, a spese della classica figura dell'uomo onesto che non chiederebbe altro che di fare il suo lavoro.
Nella cupa URSS di Brežnev, Andrej ha perso il posto di direttore d'orchestra al Teatro Bolšoj per avere difeso i musicisti ebrei che il leader comunista antisemita voleva cacciare. Nella nuova Russia, vive facendo le pulizie al teatro. Intercetta un fax che invita l'orchestra del Bolšoj a suonare al Théâtre du Châtelet di Parigi, ed ecco il piano: raggrupperà i vecchi membri della sua antica orchestra e andranno a Parigi a suonare Čajkovskij spacciandosi per l'orchestra ufficiale.
Se “Il concerto”, film piacevolissimo, appare meno memorabile di “Train de vie” è per via della minore portata della truffa: quella di “Train de vie” era di un estremismo sfacciato (gli ebrei che si travestono per metà da nazisti e si auto-deportano su un treno per fuggire), passibile di essere sviluppato in modi sempre più pirotecnici (i finti deportati e i finti nazisti pregano insieme in una radura, spiati da partigiani che non ci capiscono nulla: “forse sono nazisti ebrei”). Ne “Il concerto” la truffa, sebbene comicamente assurda, non ha la stessa follia da Barone di Münchhausen dell'altro film.
La grande capacità di Mihaileanu è il bozzetto: sviluppandolo ci offre un quadro satirico assai divertente della Russia d'oggi, con i nouveaux riches mafiosi (bella la pagina del matrimonio superkitsch che finisce in sparatoria), gli oligarchi amici di Putin, i nostalgici del comunismo che affittano comparse per le loro manifestazioni, il piccolo mondo ebraico, gli zingari, la gente che si arrangia come può (grandi i due anziani che doppiano i film porno con torbidi gemiti emessi lavorando a maglia). Quando l'azione si sposta a Parigi il bozzettismo diventa un po' troppo divagante, anche se resta gradevole, e s'inserisce con una certa pesantezza il tema del rapporto fra Andrej e la famosa violinista Anne-Marie, da lui richiesta per il concerto. Se dico pesantezza è perché qui la sceneggiatura soffre di una carenza logica. L'ostilità della segretaria-agente di Anne-Marie verso Andrej serve a deviare lo spettatore sulla falsa pista che la violinista sia figlia illegittima di loro due; ma quando arriva la rivelazione della vera paternità, non ha più senso. Va aggiunto che la rivelazione offre l'occasione per un'immagine - i due vecchi musicisti ebrei soli nella neve nel gulag - che ricopre la stessa carica simbolica dell'inquadratura dell'ebreo in un piccolissimo recinto del lager alla fine di “Train de vie”.
Va da sé che, dopo mille pericoli e mille recuperi in extremis, per quest'orchestra raffazzonata sarà un trionfo mondiale (interessanti, sul piano del linguaggio, i flash-forward che durante il concerto mostrano e anticipano i viaggi trionfali dell'orchestra in seguito). Il film nel finale dà giustamente larghissimo spazio al Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij. Non solo una “metafora musicale “ (Mihaileanu) in cui si realizza quella fraternità che sta come utopia alla base della sua opera - ma anche una pagina musicale trascinante. Una delle figure più fosche del Novecento, V.I. Lenin, diceva di diffidare della grande musica perché ti fa venir voglia di abbracciare la gente mentre invece bisogna picchiarla sulla zucca. Nel suo rovesciamento psicopatico, ci aveva azzeccato.
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