martedì 22 giugno 2010

Robin Hood

Ridley Scott

Regola generale: può sempre capitare di andare a letto con una donna e avere una defaillance; ma uno se entrando in camera da letto si è vantato, “Preparati, cara, arriva il nuovo John C. Holmes”, poi si merita tutt'intero lo sbuffo di derisione. Fuor di metafora, Ridley Scott non ha fatto un piacere al suo “Robin Hood” dichiarando a destra e a manca che nessuno dei precedenti Robin Hood dello schermo gli sembra soddisfacente. Conseguenza inevitabile, ogni difetto del suo - che non è brutto, ma difetti ne ha - viene amplificato.
In Scott la narrazione ha spesso qualcosa di lutulento. Vale anche per “Robin Hood”, che lascia l'impressione di essere un film di quattro ore ridotto con l'accetta a due ore e mezzo (come “Le crociate”). Basta vedere come un elemento assai interessante, e assolutamente scottiano, quello delle figure mascherate che sono i giovani del villaggio fuggiti nella foresta per fare i bracconieri, venga sottoutilizzato buttandolo qua e là per frammenti sconnessi.
C'è una discrasia fra la pomposa seconda parte e la prima parte (sembrano due film malamente appiccicati l'uno all'altro), discrasia che investe tutto il punto di vista narrativo. Perché il “Robin Hood” di Scott - l'antefatto della leggenda quale la conosciamo - si regge nella prima parte sulla scelta di non giocare l'avventura in chiave eroica bensì realistica, nei limiti consentiti dal genere. I Robin Hood dello schermo sono sempre stati declinati in tono eroico (anche “Robin e Marian”, questa elegia agrodolce dell'età matura) o eroicomico (non penso alla parodia di Mel Brooks ma al cartoon disneyano). In Scott, i combattimenti non mancano ma sono come tenuti sotto controllo - laddove l'eroismo implicherebbe la celebrazione. Anche nelle pagine dell'assedio al castello vige il fascino storico del warfare medievale più che il brivido dell'azione eroica.
Scott ha sempre parlato di quanto lo appassioni costruire un'ambientazione, ed effettivamente il meglio di “Robin Hood” sta qui: nell'interesse del film per l'immediatezza, i piccoli dettagli della vita quotidiana. Più d'una volta lo svolgimento si attarda ad ascoltare una ballata: c'è nel film un'attenzione vagamente folkloristica di Scott per le canzoni. E c'è attenzione alla materialità degli atti: il grazioso rimpallo quasi comedy fra Robin e Lady Marion (che devono fingere di essere marito e moglie subito dopo essersi conosciuti) si traduce nella descrizione di Robin che in camera di lei dorme per terra abbracciato per scaldarsi a uno dei suoi cani. Il film è arioso nel descrivere la festa paesana in cui i compagni di Robin corteggiano tre contadine bellocce, i poveri campi lavorati dalle donne perché gli uomini sono in guerra, la cavalcata mattutina di Robin e Marion per il paese... Il piccolo villaggio affamato di Nottingham sembra diventare quell'Eden che inutilmente si cerca in tutto il cinema di Ridley Scott. Ci sono nel film alcuni dettagli molto ben trovati: il pelo pubico rimasto sulla lingua al futuro re Giovanni sorpreso dalla madre mentre fa l'amore, il (simbolico) sangue sull'ostrica che il re francese offre al sicario dopo essersi tagliato aprendola – e quei topolini medievali senza paura che si spingono sul tavolo a mangiare il cibo nei piatti. A volte Scott raggiunge una efficace dimensione pittorica (l'arrivo trionfale della nave a Londra). E a coronare il tutto, un bel dialogo (“Non possiamo ripagare la nostra fortuna con la malagrazia. Sarebbe un invito alle tenebre”).
Poi Scott si dimentica tutto: il film ha una brusca svolta con una seconda parte piuttosto pasticciata, con enormi buchi logici e uno svolgimento tirato per i capelli (Robin Hood inventore e paladino della Magna Charta). Dal realismo plebeo di questa storia di falsa identità si passa al solito action in costume. La pagina dell'arrivo in forze dei francesi sulla spiaggia, e della battaglia che segue, è delirante e deludente allo stesso tempo: perché ripete per filo e per segno lo sbarco in Normandia di “Salvate il soldato Ryan”; non è una citazione ma un rifacimento pedantesco (la stessa inquadratura dei corpi sott'acqua, la stessa inquadratura delle frecce che attraversano l'acqua al posto delle pallottole) di totale gratuità.
Ma bisogna restare fino alla fine - non solo perché l'avventura è pur sempre l'avventura, non solo perché i film per principio si guardano per intero (se proprio non sono schifezze all'italiana), ma perché la parte più bella di tutto "Robin Hood" sono i titoli di coda. Opera di Giuseppe Toccafondo, sono un film post-film che ne riprende con meditato capriccio le immagini e le rielabora nel classico modo “esplosivo” dell'autore - nel senso che il colore e la deformazione della figura in Toccafondo sembrano esplodere dalla figura stessa, come ali, escrescenze, fiammate. Se questo sembra ovvio quand'è applicato al sangue e ai movimenti convulsi, Toccafondo va più in là, rielabora con quella sua creatività inconfondibile qualsiasi figura stimoli la sua fantasia (anche il grande gufo di Eleonora d'Aquitania, un bell'animale che si sospetta essere fra i sacrificati del montaggio). Si ha perfino l'impressione che vi siano immagini non presenti nel montaggio finale (la decapitazione di un moro). Toccafondo ha la diabolica caratteristica di rendere mosso quello che è già mosso, di donare il movimento a ciò che è già movimento – di magnificare l'immagine filmica con un movimento di secondo grado.

domenica 20 giugno 2010

Le quattro volte

Michelangelo Frammartino

Evidenza del rumore: in un film costruito sul silenzio (degli uomini) il suono è fondamentale; la serie di quattro colpi ritmati della pala sulla copertura di terra della carbonaia - su cui si apre “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino - si mantiene sull'immagine delle montagne calabresi che segue. La mancanza di quel frastuono distraente ch'è costituito dalla parola (distraente perché spinge tutto il resto in secondo piano) isola il suono e ne ripropone a un tempo sia la nuda evidenza sia il significato. Smettere di parlare insegna ad ascoltare?
Quattro episodi, quattro stati dell'esistenza. Un vecchio capraio malato (non dimenticheremo il dettaglio del cane da pastore che torna indietro preoccupato quando il padrone sofferente si siede lungo il tratturo dopo il passaggio del gregge) si cura ingerendo polvere del pavimento della chiesa. Nota che a dargli la polvere, raccolta con un'immagine della Madonna, è la donna che pulisce in chiesa; l'elemento femminile come tramite implica una religiosità ancora più arcaica di quanto già vediamo? Poi il pastore perde la polvere - e muore. Uno stacco ci mostra il parto di una capra: per una morte, c'è una vita – è il flusso continuo dell'esistenza (l'umano, l'animale, il vegetale, il minerale), presente già nel titolo. Passiamo alla vita del capretto, dalla nascita fino a quando, uscito per la prima volta col gregge, si perde. Le inquadrature dal basso degli alberi mossi dal vento potrebbero essere una soggettiva animale – ma anche se no, l'immagine trasmette comunque un senso di arcana meraviglia della grandezza del mondo. La sera, il capretto si addormenta sotto un solenne abete bianco. Ci aspetteremmo a questo punto uno sviluppo drammatico, in negativo (morte del capretto) o in positivo (ritrova il gregge), ma non c'è. L'argomento del film è la totalità, non una storia individuale. Il racconto si sposta - dopo un accenno al passare delle stagioni - all'abete, che viene abbattuto, usato per una festa paesana, quindi segato a pezzi. Con essi si fabbrica il carbone di legna nella carbonaia dell'inizio; il carbone viene consegnato in paese, il fumo di un comignolo si perde sui tetti.
Per la verità alcune dichiarazioni di Frammartino sembrano spingere l'interpretazione in una dimensione misticheggiante, “pitagorica”, alludendo alla reincarnazione. Ma non siamo obbligati a seguirlo: la continuità della vita è già presente nelle immagini senza bisogno di collegamenti ulteriori (tanto più che evidentemente l'albero preesiste al capretto).
Quello di Frammartino è uno sguardo assoluto. Dopo il funerale del pastore, la bara viene inserita in un colombario del cimitero; la mdp coglie la sua chiusura da un punto di vista impossibile, dentro il loculo. Una simile “soggettiva vuota” si ha quando i pezzi dell'albero segato vengono portati via sul carboncino, e poi quando nella sequenza della carbonaia. “Le quattro volte” è affine al documentario ma va al di là del documentario: va più in basso, non in senso estetico ma nel senso di un livello più profondo e primitivo: dà la vera impressione di scavare alle radici dell'esistenza. Frammartino depura l'immediatezza in una solenne essenzialità. C'è qualcosa di arcaico e come di magico, c'è una risonanza, in questi gesti umani – così come nel belato insistente delle capre, ma anche nella dignità silenziosa del legno, nei riflessi argentei del carbone. C'è un significato nelle cose. Quando le lumache scappano dalla pentola in cui le teneva il capraio, questi butta dalla finestra il mattone che non ha tenuto fermo il coperchio: non “vale” (il friulano direbbe: no al è bon). Nota che questo mattone avrà un ruolo del pari disastroso quando sarà utilizzato in seguito, come ferma-ruota del camioncino. In questo film gli oggetti non sono astratti e interscambiabili come nel nostro mondo (dove un marxista potrebbe parlare dell'anonima equivalenza della merce).
La vita stessa sembra mettersi in scena come totalità; di conseguenza “Le quattro volte” è anche un film sui misteriosi nessi causali che intessono l'universo sotto il nome di caso. Ciò gli dà un senso magico – ma un magico radicato nella realtà. Nel bosco, una formica importuna si aggira sul viso del capraio malato. Poco dopo, vediamo perduto in terra il pacchetto della polvere “curativa”, coperto di formiche che addirittura arrivano a sollevarne un angolo. E questo ci ricorda la formica di prima: il concetto del film non è semplicemente di fotografare il reale ma di trasmettere un flusso potente e complessivo che è la vita; e lo fa anche con queste, che si potrebbero chiamare correspondances ma depurate di ogni significato decadente-simbolista. Potrebbe essere definito un documentario, ma in realtà è un'immersione della macchina da presa nella misteriosa dimensione del tutto e della durata.

Vendicami

Johnnie To

E' pur vero che il bellissimo “Vengeance” (“Vendicami” - ma conviene vederlo nella versione originale multilingue) non raggiunge il livello dei capolavori assoluti di Johnnie To, come i recenti “Election” o “Exiled”, ma non c'è da preoccuparsi: anche un film di To che non sia fra i suoi capolavori assoluti è comunque tre spanne sopra la media.
Il cinema di To è il cinema della scelta. I piani falliscono, il destino gioca le sue carte per scompigliare i progetti umani (o ironicamente per soccorrere: “PTU”); di fronte ai crudeli meccanismi del caso gli uomini hanno la sola scelta se restare fedeli o no alla proprie obbligazioni, prima fra tutte la solidarietà di gruppo (“The Mission”). L'onore in Johnnie To è importante come in John Woo, sebbene declinato in forme meno mistiche, molto più matter-of-fact.
Scritto dal fido collaboratore Wai Ka-fai, “Vengeance” (che si svolge tra Hong Kong e Macao) è l'omaggio di To a Jean-Pierre Melville. Una famiglia cinese viene massacrata da un gruppo di sicari; morti il marito e i due bambini, sopravvive gravemente ferita la moglie, che è francese. Suo padre, un ex gangster divenuto ristoratore, arriva da Parigi per vendicarla. Il suo nome è Frank Costello, e infatti in origine il film doveva essere interpretato da Alain Delon. Non è che Johnny Hallyday (chiuso nell'impermeabile, il volto scarno dagli occhi azzurri brucianti, il cappello abbassato) non realizzi una figura iconica; ma Delon avrebbe fornito la continuità visiva e mitologica - e possiamo solo immaginare quanto sarebbe stato grande nella parte, col suo volto gelato e i suoi occhi di tempesta. Delon (racconta To) dopo un primo parere favorevole si è tirato indietro. Peggio per lui: avrebbe aggiunto una perla alla sua collana di grandi film.
Straniero in terra straniera, Costello per di più sta per perdere completamente la memoria a causa di una vecchia pallottola nel cervello (“Che senso ha la vendetta quando hai dimenticato tutto?”, sentiamo chiedere nel film). Incappato per caso in un gruppo di gangster (come sempre Anthony Wong è magistrale, come sempre Lam Suet è adorabile, col suo consueto tocco umoristico) mentre svolgono un lavoretto come killer per un boss mafioso, li assume offrendo loro in cambio la proprietà del suo ristorante a Parigi.
Con uno di quegli scherzi del destino che tanto piacciono a Johnnie To, poeta della coincidenza, solo a vendetta iniziata gli uomini di Costello scoprono che il mandante della strage di quella famiglia era il loro stesso boss, Mr. Fung. Ma ormai sono legati a Costello; nota che il nome del ristorante di Costello a Parigi, svelato solo tardi nel film allo scopo di solennizzarlo, è Les Frères. E tutto esploderà in una potente sequenza di sparatoria al riparo di dietro enormi balle di carta straccia, punteggiata dallo svolazzare di pezzi di carta nel grande spiazzo ventoso – seguita da un folle prolungamento personale della vendetta, quasi fantastico e onirico.
Ritroviamo in “Vengeance” una sfilata di temi e motivi classici di Johnnie To. Dopo la cupa scena della ricostruzione dei fatti nella casa devastata, c'è una splendida sequenza in cui Costello, il gangster divenuto chef, prepara la pastasciutta e tutti mangiano insieme; una di quelle tipiche scene di To (se ne trova un esempio mirabile in “Exiled”) di sospensione festiva su cui però si proietta l'ombra della morte.
Come nel capitale “Expect the Unexpected” (che è un film di Patrick Yau, ma To l'ha prodotto e racconta di avervi molto messo mano), c'è una silenziosa pietà per quasi tutti: è il caso, più che un astratto male interiore, a muovere gli uomini come pedine; la malvagità cosciente e compiaciuta esiste (qui la incarna Mr. Fung, un demoniaco Simon Yam) ma è più rara che non si creda. Non che questo abbia importanza, al fondo delle cose: anche se c' un'umanità sepolta, bisogna comunque uccidere e morire. In una pagina sorprendente, il gruppetto dei vendicatori va a uccidere gli assassini – e li trova occupati a fare un picnic al parco insieme a mogli e figli, che ignorano l'occupazione dei mariti e padri. Allora i vendicatori si fermano e aspettano (“Non davanti a loro”, dice Anthony Wong) e i killer, che hanno capito, mandano una bambina a offrire da mangiare al gruppo... John Ford non avrebbe fatto di meglio.
Come sempre in To, questo momenti di reciproca comprensione non annulleranno il destino. Andati via mogli e figli, c'è l'inevitabile showdown, alla luce della luna che va e viene per la nuvolaglia: un alternarsi di momenti di gelo e di frenesia, il buio dove si trattiene il respiro spezzato dai lampi di luce delle pistole - e la nebbia di sangue che sprizza dai corpi colpiti, un'immagine frequente nell'ultimo To.
E ancora: una bicicletta che corre da sola sospinta dai proiettili, in una scena a Macao, si prolunga a Hong Kong in un frisbee che pare dotato di vita propria. Vien voglia di concludere che ormai nel cinema di To gli oggetti si muovono da soli; questo non deriva solo dalla balistica (pensiamo alla lattina di Red Bull in “Exiled”) ma è anche il perfezionamento di quel senso di sospensione e astrazione, da lui continuamente ricercato, di cui era incarnazione il misterioso bambino in bicicletta di “PTU”.
Al di là della sua caratteristica di device narrativo, l'amnesia incombente di Costello ci ricorda un tema assai importante nel cinema di To, esplorato ad esempio in “Running Out of Time” e nello splendido e sottovalutato “Yesterday Once More”: la malattia in fase terminale (ovvero qui la perdita dell'auto-identità, che è come una quieta morte) rende invulnerabili: poiché recide i legami della vita. E quindi lascia l'uomo libero e nudo di fronte alla sua mission, disegnata dai giochi del caso e dai sentimenti nobili dell'onore, dell'amicizia, della vendetta. E infine come qui, libero, dopo che la vendetta si è compiuta, di abbracciare - senza più memoria né dolore: innocente fra gli innocenti - una nuova famiglia di bambini.