martedì 27 agosto 2019

Il signor Diavolo

Pupi Avati 

Maestro della messa in scena, Pupi Avati è un grandissimo evocatore. Nel suo cinema tutto quello che vediamo è tangibile: la concretezza di un viso, una frase buttata là, un gruppo (di monache, per esempio); ma al di là delle persone umane, gli ambienti, i paesaggi, gli interni, gli oggetti. Se devo trovare un parallelo per la sua evidenza di messa in scena, mi sale alla mente un nome insospettato, quello di Olmi. Da tutto ciò nascono quelle sue atmosfere che anche nei film minori (e ce ne sono, in una produzione così abbondante) restano impresse nella memoria. Non per la prima volta vien da pensare che in un altro paese che l'asfittica Italia Avati avrebbe avuto una carriera più ricca di riconoscimenti; ma è un pensiero ozioso, perché il cinema di Avati è profondamente nazionale, radicalmente legato all'aria dei nostri luoghi.
E a quella del tempo. Avati è un poeta della memoria: quella stessa capacità evocativa lo mette in grado di ricreare il passato con vivezza ipnotica. Per la maggior parte il cinema di Avati si situa sotto il segno della distanza: distanza nello spazio (un mondo contadino o piccolo borghese oggi svanito) e distanza nel tempo.
Senza togliere nulla ai suoi numerosi film realistici, ora agrodolci e malinconici come Una gita scolastica ora dolorosi e drammatici come Il papà di Giovanna, va detto che gli horror sono le perle più belle della sua collana. Gli horror, dove Avati è capace di calare la materia del genere – per esempio i morti viventi – in un inaspettato, corposo impasto di realtà locale (penso per esempio all'eccezionale Zeder) con un effetto di straniamento che anziché indebolirla la potenzia. Avati sfrutta, com'è giusto, il potenziale evocativo dei vecchi oggetti, dei dipinti semidimenticati, dei libri polverosi, della dimensione stessa del tempo andato (l'“horror antiquario” reso grande da un Montague Rhodes James in letteratura); e parallelamente ama sfruttare la tradizione orale, le superstizioni, i racconti sussurrati accanto al focolare, le leggende locali, il passaparola del gossip di paese: “una fola esoterica delle nostre campagne” è il sottotitolo de L'arcano incantatore. Il grumo pauroso dei suoi film si nutre della propria stessa ambiguità.
Eccoci a questo ammirevole Il signor Diavolo, che segna un ritorno all'horror puro. Siamo nel 1952; un impacciato giovane travet del Ministero di Grazia e Giustizia, il dottor Momenté (fin dalla prima apparizione di Gabriele Lo Giudice lo si situa ictu oculi in una lunga galleria di analoghi personaggi avatiani), riceve finalmente un incarico importante. Nel Veneziano un bambino, Carlo, ha ucciso con una sassata in un occhio un coetaneo deforme, Emilio, convinto che sia il diavolo. Momentè deve investigare non ufficialmente sul caso e fare in modo che dell'accaduto non sia considerata moralmente responsabile la “superstizione” della Chiesa cattolica – come vuole la madre della vittima – danneggiando così la Democrazia Cristiana, di cui il territorio è un serbatoio di voti. Senza voler svelare troppo dello svolgimento, è d'obbligo segnalare (su ciò Avati gioca a carte scoperte fin dal prologo) che il ragazzo mostruoso è effettivamente posseduto dal diavolo; la scena in cui Emilio riceve una visita di Carlo stando a letto, incredibilmente simile a un grosso rospo gonfio, è memorabile. Quando Momenté viene sollevato in malo modo dall'incarico, si incaponisce a continuare l'indagine (“Sto commettendo una follia”) - e qui ritroviamo un tratto ricorrente dei protagonisti avatiani, che si autoilludono, figurette perse in un sogno.
E perché “signor” Diavolo? Ma questo ha un fondamento etnologico riconosciuto: come spiega l'enigmatico sacrestano Gino (Gianni Cavina), “le persone cattive bisogna trattarle bene”; ovvero, quelle potenze oscure che si temono vanno menzionate con prudente rispetto (pensiamo alla “buona gente” in Irlanda). Siccome abbiamo menzionato Gianni Cavina, è il caso di annotare che Il signor Diavolo vede il ritorno di molti visi avatiani, come Lino Capolicchio, Alessandro Haber, Massimo Bonetti, Andrea Roncato (Il cuore grande delle ragazze).
La bella fotografia livida di Cesare Bastelli, altro regular avatiano, dipinge un mondo di cupa autenticità, fedele alle atmosfere fisiche, attenta ai particolari (cito solo il ragno che fugge dal rogo del porcile, in alto a sinistra nell'inquadratura). Anche al di là della nera vicenda diabolica, questo film è un altro tuffo di Avati nel passato: la vita contadina di ragazzi all'inizio dei Cinquanta, con le sue piccole gioie, i segreti inconfessabili, i suoi terrori e le sue ossessioni, compresa la scoperta della sessualità (lo sguardo desiderante sulla bella del paese); un mondo chiuso che oggi ci appare poco meno arcaico del Settecento de L'arcano incantatore; un mondo dove il diavolo si aggira sulla terra in su e in giù (Giobbe, 1, 7), e può presentarsi anche in chiesa.
Pupi Avati è cattolico; già sappiamo che i film migliori di orrore diabolico sono quelli di coloro che al demonio ci credono, Avati, William Friedkin, Terence Fisher, per fare qualche nome. Anche per questo Il signor Diavolo non è semplicemente una costruzione ingegnosa, come il pur bello Rosemary's Baby di Polanski – regista peraltro che con Avati ha dei punti di contatto – ma un freddo tuffo in una realtà possibile, che lascia un'inquietudine che perdura dopo la visione.