Maestro
della messa in scena, Pupi Avati è un grandissimo evocatore. Nel suo
cinema tutto quello che vediamo è tangibile:
la concretezza di un viso, una frase buttata là, un gruppo (di
monache, per esempio); ma al di là delle persone umane, gli ambienti, i
paesaggi, gli interni, gli oggetti. Se devo trovare un parallelo per
la sua evidenza di messa in scena, mi sale alla mente un nome
insospettato, quello di Olmi. Da tutto ciò nascono quelle sue
atmosfere che anche nei film minori (e ce ne sono, in una produzione
così abbondante) restano impresse nella memoria. Non per la prima
volta vien da pensare che in un altro paese che l'asfittica Italia
Avati avrebbe avuto una carriera più ricca di riconoscimenti; ma è
un pensiero ozioso, perché il cinema di Avati è profondamente
nazionale, radicalmente legato all'aria dei nostri luoghi.
E
a quella del tempo. Avati è un poeta della memoria: quella stessa
capacità evocativa lo mette in grado di ricreare il passato con
vivezza ipnotica. Per la maggior parte il cinema di Avati si situa
sotto il segno della distanza:
distanza nello spazio (un mondo contadino o piccolo borghese oggi
svanito) e distanza nel tempo.
Senza
togliere nulla ai suoi numerosi film realistici, ora agrodolci e malinconici come Una gita
scolastica ora dolorosi e
drammatici come Il papà di Giovanna,
va detto che gli horror sono le perle più belle della sua collana.
Gli horror, dove Avati è capace di calare la materia del genere –
per esempio i morti viventi – in un inaspettato, corposo impasto di
realtà locale (penso per esempio all'eccezionale Zeder)
con un effetto di straniamento che anziché indebolirla la potenzia.
Avati sfrutta, com'è giusto, il potenziale evocativo dei vecchi
oggetti, dei dipinti semidimenticati, dei libri polverosi, della dimensione stessa del tempo andato (l'“horror antiquario” reso
grande da un Montague Rhodes James in letteratura); e parallelamente
ama sfruttare la tradizione orale, le superstizioni, i racconti
sussurrati accanto al focolare, le leggende locali, il passaparola
del gossip di paese: “una fola esoterica delle nostre campagne” è
il sottotitolo de L'arcano incantatore.
Il grumo pauroso dei suoi film si nutre della propria stessa
ambiguità.
Eccoci
a questo ammirevole Il signor Diavolo,
che segna un ritorno all'horror puro. Siamo nel 1952; un impacciato
giovane travet del Ministero di Grazia e Giustizia, il dottor Momenté
(fin dalla prima apparizione di Gabriele Lo Giudice lo si situa
ictu oculi in una lunga galleria
di analoghi personaggi avatiani), riceve finalmente un incarico
importante. Nel Veneziano un bambino, Carlo, ha ucciso con una
sassata in un occhio un coetaneo deforme, Emilio, convinto che sia il
diavolo. Momentè deve investigare non ufficialmente sul caso e fare
in modo che dell'accaduto non sia considerata moralmente responsabile
la “superstizione” della Chiesa cattolica – come vuole la madre
della vittima – danneggiando così la Democrazia Cristiana, di cui
il territorio è un serbatoio di voti. Senza voler svelare troppo
dello svolgimento, è d'obbligo segnalare (su ciò Avati gioca a
carte scoperte fin dal prologo) che il ragazzo mostruoso è
effettivamente posseduto dal diavolo; la scena in cui Emilio riceve
una visita di Carlo stando a letto, incredibilmente simile a un
grosso rospo gonfio, è memorabile. Quando Momenté viene sollevato
in malo modo dall'incarico, si incaponisce a continuare l'indagine
(“Sto commettendo una follia”) - e qui ritroviamo un tratto
ricorrente dei protagonisti avatiani, che si autoilludono, figurette
perse in un sogno.
E
perché “signor” Diavolo? Ma questo ha un fondamento etnologico
riconosciuto: come spiega l'enigmatico sacrestano Gino (Gianni
Cavina), “le persone cattive bisogna trattarle bene”; ovvero,
quelle potenze oscure che si temono vanno menzionate con prudente
rispetto (pensiamo alla “buona gente” in Irlanda). Siccome
abbiamo menzionato Gianni Cavina, è il caso di annotare che Il
signor Diavolo vede il ritorno
di molti visi avatiani, come Lino Capolicchio, Alessandro Haber,
Massimo Bonetti, Andrea Roncato (Il cuore grande delle
ragazze).
La
bella fotografia livida di Cesare Bastelli, altro regular
avatiano, dipinge un mondo di cupa autenticità, fedele alle atmosfere
fisiche, attenta ai particolari (cito solo il ragno che fugge dal
rogo del porcile, in alto a sinistra nell'inquadratura). Anche al di
là della nera vicenda diabolica, questo film è un altro tuffo di
Avati nel passato: la vita contadina di ragazzi all'inizio dei
Cinquanta, con le sue piccole gioie, i segreti inconfessabili, i suoi
terrori e le sue ossessioni, compresa la scoperta della sessualità
(lo sguardo desiderante sulla bella del paese); un mondo chiuso che
oggi ci appare poco meno arcaico del Settecento de L'arcano
incantatore; un mondo dove il
diavolo si aggira sulla terra in su e in giù (Giobbe, 1, 7), e può
presentarsi anche in chiesa.
Pupi
Avati è cattolico; già sappiamo che i film migliori di orrore
diabolico sono quelli di coloro che al demonio ci credono, Avati,
William Friedkin, Terence Fisher, per fare qualche nome. Anche per
questo Il signor Diavolo
non è semplicemente una costruzione ingegnosa, come il pur bello
Rosemary's Baby di
Polanski – regista peraltro che con Avati ha dei punti di contatto
– ma un freddo tuffo in una realtà possibile, che lascia
un'inquietudine che perdura dopo la visione.