One
Day, You Will Reach the Sea di Nakagawa Ryutaro, una potente
riflessione sui
sentimenti
correlata
allo tsunami del 2011, potrebbe essere il film migliore della
selezione 2022.
Con una narrazione decisa e un’intensità
ammirevole, eppure con leggerezza di tocco, il film parla
dell’identità, del non detto, dell’amore inespresso e della
perdita. E’ la cronaca “a posteriori” del rapporto fra la
timida Kotani Mana (Kishii Yukino) e la sua amica, la più sicura
Sumire (Hamabe Minami) (più sicura, ma per rapportarsi al mondo
esterno ha bisogno della videocamera con cui filma). “A posteriori”
perché Sumire è scomparsa nel grande tsunami, e quindi questo
viaggio nel tempo si svolge sotto l’ombra della morte.
Nota
che tanto le precise circostanze dell’accaduto quanto il tessuto
dei sentimenti si svelano a poco a poco, lungo il film, creando
un’autentica suspense del sentimento (sceneggiatura del regista da
un romanzo di Ayase Maru). Alla base c’è una quieta drammaticità
nella riflessione sulla possibilità (o meglio: le varie possibilità)
di fare i conti col lutto. Si parla di Sumire ma anche del lutto in
generale: una magnifica sequenza consiste nelle testimonianze di chi
ha perso persone care nello tsunami, filmate semplicemente a mezzo
busto a camera fissa. Ma in mezzo al dolore della perdita si ritrova
un elemento, molto giapponese, di consolazione.
La
fotografia di Ohuchi Tai è elegante senza essere leccata. Sul piano
narrativo bisogna menzionare la bellezza con cui scene che abbiamo
visto nella videocamera di Sumire riappaiono più tardi
“dall’esterno” mentre vengono filmate – lo stesso vale anche
per alcune scene oggettive – e il tempo (filmico) trascorso le
rende maggiormente significanti. Sul piano della regia menziono solo,
perché dà un’idea del modo di procedere leggero e allusivo di
Nakagawa, un dettaglio: la notizia, ricevuta da Mana al telefono,
della morte imprevista dell’amichevole capo del locale dove lavora
viene introdotta da un breve piano sequenza che notiamo proprio
perché non necessario (segue Mana lungo un corridoio) e così ci
mette sull'avviso, ci prepara alla svolta drammatica.
Non
c’è nulla di gridato; siamo più sulla linea dei classici; e anche
lo tsunami, alla fine, viene risolto con un’ellissi perfetta e
pudica, che apre alla seconda parte di
una sequenza a cartoni
animati, di tipo poetico,
che fa da cornice al film.
Il
brillante Love Nonetheless di Jojo Hideo è una commedia sentimentale
agrodolce, benché tenga l'elemento agro molto sottotraccia. Parla di
amore e di incertezza amorosa: non è casuale che nel film ritorni di
continuo la parola nande (“Perché?”) o domande simili. Non è
Rohmer, che può ricordare per la struttura, ma è agile e piacevole
(e divertente).
Koji,
libraio in un negozietto di libri usati, ha trent'anni ma di lui si è
innamorata la sedicenne Misaki che continua ad andarlo a trovare in
negozio e consegnargli lettere che finiscono sempre con “Per
favore, sposami”. Koji è da sempre innamorato di Ikka, che però
non l'ha mai calcolato. Ikka deve sposarsi con Ryosuke, e non sa che
lui la tradisce con la padrona del negozio di abiti da sposa.
Scoperte le tracce di un tradimento, Ryosuke limita i danni
inventando una bugia relativa a una suo compagna di lavoro; ma Ikka
decide di rendergli la pariglia con Koji. E'
una ronde di
incroci amorosi di
personaggi, con un fluido
spostamento di visuale: prima su Koji e Misaki, poi si sposta su Ikka
e Koji, poi torna su Koji e la
rediviva Misaki. Il film
riesce a creare una quieta suspense su questi destini, fra
ottimismo e tolleranza pessimista, con
un bel dialogo (grande la scena in chiesa col prete e il suo
“controcanto” dopo!) e
con ottimi
attori.
Un
uomo in rovina dice a sua figlia di aver riconosciuto per strada un
serial killer ricercato, e di volerlo catturare per la taglia. Poi
l’uomo scompare e la figlia si mette a cercarlo. Questo è il punto
di partenza del notevole Missing di Katayama Shinzo (che ha lavorato
in passato con Bong Joon-ho) – ma c’è molto di più da scoprire
e, potremmo dire, da vivere.
Racconto
crudele pervaso
di umorismo macabro,
Missing
ha punti di violenza visiva
ai limiti dello splatter; tanto più che nel film si nota fin
dall’inizio un’evidenza fisica dei rumori. Come molti film
d’oggi, ha una costruzione anacronica che nel suo svolgersi
all’indietro getta luce su quelle scene o dettagli che alla visione
ci sono sembrati bizzarri – o anche no, ma che nel prosieguo
assumono un diverso significato. La descrizione di Osaka, dove si
svolge, e del Giappone è cupa e squallida sotto tutti i punti di
vista. E la conclusione – dove si nota una sorta di imprevisto
omaggio all’antonioniano Blow-up
– è assolutamente desolata.
Popran
è diretto dallo Ueda Shinichiro di One Cut of the Dead, il
meta-film di zombi “in piano sequenza” che
trionfò al FEFF nel 2018 –
e poi in tutto il Giappone.
Il film è una commedia
piacevole, con ritmo veloce e tocchi indovinati.
Proprio
come il naso nel racconto omonimo di Gogol', qui c'è un'altra parte
del corpo che una mattina sparisce con disperazione del suo
possessore: il popran (il membro virile), lasciando solo un buco. Il
protagonista Tagami Akira, editore di manga pieno di sé, scopre ben
presto di non essere l'unico a soffrire di questa perdita. Una specie
di conferenza ci dà tutte le informazioni in merito: i popran volano
velocissimi, a catturarli si possono riattaccarle, ma dopo sei giorni
da soli muoiono di malnutrizione, quindi bisogna sbrigarsi. Al pari
delle altre vittime, Tagami si mette in caccia con reticella da
farfalle per recuperare il membro ribelle. Ueda (regista,
sceneggiatore e montatore del film) usa quest'idea assai divertente
come base per un racconto morale, alla Buzzati diremmo in Italia; e
questo non può essergli imputato a colpa perché è dichiarato fin
dalla prima scena, dove vediamo che Tagami è un mascalzone di
successo che ha licenziato il suo socio, ha abbandonato moglie e
figlia e non fa visita ai suoi genitori da dieci anni. Siccome
un'altra vittima ha colpe simili, se ne deduce che la perdita del
popran è una sorta di punizione per l'egoismo mostrato; e infatti
compare nei luoghi dove chi l'ha perso si è reso colpevole; per cui
Tagami fa un viaggio presso le persone cui ha fatto del male, alla
ricerca del proprio uccello. Lo condisce di bugie, dicendo che va a
caccia di avvistamenti di uno Skyfish, che è una leggenda
metropolitana, per documentazione. Tuttavia, il viaggio è comunque
un insegnamento per lui (delicatissimo l'incontro del protagonista
con la propria figlia, che ignora chi sia), anche se il film evita
scene strappalacrime di pentimento. Personalmente trovo affascinante
questa equiparazione del popran con la coscienza.
Naturalmente,
fin da quando sentiamo all'inizio che Tagami è un editore di manga
possiamo indovinare che vi è anche sottesa una linea metanarrativa:
sarebbe una buona idea per un manga, dice la segretaria quando Tagami
le racconta la vicenda come delirio; e alla fine Tagami si vede
proporre la sua stessa “malattia” come invenzione per un fumetto
da un giovane autore.
I
kaiju sono quelle creature gigantesche e pesantissime, il cui
capostipite è Godzilla, che zampettano fra i grattacieli
distruggendo Tokyo. Orbene,
quando noi diventiamo matti a dividere l'immondizia fra i vari
cassonetti e ricordarci in quale giorno vanno messi fuori, già ci
lamentiamo della nostra sorte, ma… e se dovessimo smaltire la
ciclopica carcassa in decomposizione di un kaiju morto? E’ questo
il problema con cui ha a che fare il governo giapponese nel film
satirico What to Do with the
Dead Kaiju? del provocatorio
– e ben noto al pubblico del FEFF
– Miki Satoshi. Su
questa questione il governo
giapponese annaspa, si divide, fa
mille riunioni con continui spostamenti,
si perde in piani
complicati, si dilania in lotte per il territorio politico fra enti,
agenzie, ministeri. Alcuni
dettagli sono perversamente
divertenti,
come il problema
politico-burocratico di dare un nome appropriato al tipo di fetore
emesso dalla carcassa (non
dimentichiamo che ad
annusare sono gli
elettori!); e seguono manifestazioni con cartelli da parte di chi non
è d’accordo. E poi, se
nel cadavere si
celassero pericoli peggiori
della puzza?
I
kaiju (per quel che ne sappiamo) non esistono; ma i moderni governi
ipertrofici sì. La satira politica, frammista a una sottotrama
avventurosa meno felice, di What to Do with the Dead Kaiju? non fa
che riprendere, estremizzandolo, un elemento satirico già presente
nell’ultimo Godzilla giapponese, Shin Godzilla di Anno Hideaki e
Higuchi Shinji, del 2016: era un film serio e drammatico, però anche
lì l’impaccio del governo giapponese di fronte all’attacco del
mega-dinosauro radioattivo (memorie dell’incidente di Fukushima!)
faceva sì che nel film i mostri enormi, goffi e pesantissimi fossero
due.
Hiroki
Ryuichi, lo sappiamo, si divide tra film “intellettuali” di alto
livello ed ambizione (River, Side Job.) e film di genere, più
commerciali e di ambizione minore (Policeman and Me). Un suo indubbio
difetto è che raramente riesce a costruire l'incrocio perfetto tra
questi due gruppi (un esempio riuscito è The Egoists). Noise, che appartiene al secondo gruppo, è un film non spiacevole ma
narrativamente forzato. Il modello è La congiura degli innocenti di
Hitchcock (qui però il morto è autentico): una menzogna coinvolge
sempre più gente, in un’isola impoverita che il protagonista sta
risollevando con una coltivazione di fichi pregiati. Qui arriva un
pazzo assassino (hitchcockianamente, che sia pazzo è evidente a
tutti ma che sia un assassino lo sanno solo gli spettatori). Il
protagonista Keita e i suoi amici Jun e Shin (giovane poliziotto)
credono che abbia rapito la figlia bambina di Keita; ne nasce una
colluttazione in cui il demente batte la testa e muore.
Ecco
un esempio delle forzature logiche del film: siamo nel campo
dell'incidente per legittima difesa (e anche se così non fosse, la
cosa più semplice sarebbe stata alterare un po' la verità); invece
i tre decidono di nascondere interamente l'accaduto, e di lì si
scatena una valanga di bugie – mentre arrivano due odiosi
poliziotti da fuori a investigare sul pazzo – che chiamano altre
vite. Il problema centrale di Noise è la sua incapacità di assumere
un tono. Hiroki ci immette alcuni momenti di commedia nera esagerata
del tutto scollegati dal resto, totalmente serio, e il film risulta
squilibrato. Il selvaggio overacting di alcuni attori, come il
burocrate in visita e la sindaca del paese, avrebbe avuto senso solo
in un film interamente costruito sul registro della commedia. Come
che sia, con una sorpresa finale il film si chiude sotto il segno di
un dolore universale che rientra molto nella visione di Hiroki.
Il
FEFF contiene sempre una piccola sezione di capolavori restaurati, e
qui non si può non menzionare il meraviglioso
Pale Flower (1964) di
Shinoda Masahiro, esponente della New Wave dell’epoca meno noto del
suo collega Oshima Nagisa. E’ un noir ambientato nel mondo
della yakuza, e basta la potenza dell’immagine di apertura – una
statua di donna nuda in atteggiamento drammatico in primo piano sullo
sfondo della stazione di Tokyo – per inchiodare lo spettatore, che
seguirà il film in stato quasi ipnotico nei suoi giochi di ombra
nera e lame di luce (l’incredibile fotografia – che è anche uno
degli utilizzi del formato scope più belli che abbia mai visto – è
di Kosugi Masao).
Lo
yakuza Muraki, appena uscito di prigione per aver accoltellato un
membro di una banda rivale, attraversa la stazione ed è, il suo, un
pensiero in voce over di nichilismo esistenziale (“uomini…
bizzarre creature”), che pone il tono di tutto il film. Muraki
incontra alla bisca clandestina una donna, Saeko, che gioca forte ed
è nichilista come lui, cercando emozioni sempre più forti. Tutti e
due si lasciano trascinare senza resistere da un destino di
accettazione del nulla (anche simboleggiato in una scena da un
negozio pieno di orologi).
Ci
sono nel film numerose sequenze di gioco d’azzardo che assume un
valore metafisico. Fra i due nasce un’attrazione e poi un amore non
dichiarato né dichiarabile da parte di nessuno dei due, che
continuano in una spirale distruttiva (oltre al gioco d’azzardo,
c’è una incredibile sequenza di gara di sorpassi a cento all’ora
in auto nella notte), e sullo sfondo c’è la tentazione di Saeko
verso la droga.
Il
racconto è severo, ellittico, spietatamente netto come in un film di
Samuel Fuller (per combinazione, presente al FEFF con un film in
retrospettiva), e il finale disperato è incredibilmente potente.
Oltre alla fotografia e al montaggio secco, nervoso, va menzionata la
magnifica score di un jazz dissonante. I due ottimi protagonisti sono
Ikebe Ryo e Kaga Mariko.