sabato 28 maggio 2022

Nostalgia

Mario Martone

Quando un film ci presenta una lunga camminata del protagonista – come quella di Pierfrancesco Favino all’inizio del notevole Nostalgia di Mario Martone – ha due possibili scelte: significare il personaggio che si muove nell’ambiente o all'opposto l’ambiente attraverso il movimento del personaggio. Qui è la seconda. Siamo a Napoli. Al Rione Sanità, dove è cresciuto, fa ritorno il protagonista, che ha l’ironico nome di Felice Lasco, dopo esserne stato assente per quarant'anni. Era fuggito quindicenne dopo che, durante un furto in appartamento assieme al suo miglior amico Oreste, quest’ultimo aveva ucciso un uomo.
Felice ha fatto fortuna e si è sposato al Cairo. Il motivo del viaggio è di rivedere la madre (Aurora Quattrocchi), vecchia e sola (la scena in cui lui le fa il bagno è estremamente intensa e pudica). Ma anche dopo la morte di lei Felice vuole restare. Perdersi in quelle strade e in quei vicoli, ritrovare l’atmosfera e la lingua di un tempo; nella bella interpretazione di Favino il suo parlare è marcato da un accento arabo, che via via nel film cede al riemergere di quello napoletano. “Ti ha preso la nostalgia”, gli dice al telefono la moglie egiziana. Il Rione Sanità inghiotte Filippo, ed è allo stesso tempo un labirinto brulicante di vita e una voragine. Dal punto di vista spaziale, è ossessiva nel film la presenza di zone alte viste dal basso (il mega-ponte intitolato a Maddalena Cerasuolo, i piani alti delle case accatastate, i passaggi elevati). E ossessiva è la presenza di occhi che sorvegliano; perché Oreste è diventato ‘O Malommo, capo del clan più violento e pericoloso del Rione, e teme che Felice parli di quell’antico delitto.
Chisto è ‘o paese mio”, prorompe Felice prima in arabo e poi in napoletano. Quel suo abbarbicarsi al Rione Sanità, dove vuole comprare casa e far venire la moglie, si svolge sotto l’ombra di due figure contrapposte, quella coraggiosamente manifesta del prete anticamorra don Luigi (Francesco Di Leva) e quella invisibile del boss (Tommaso Ragno) – una contrapposizione che rappresenta un fronteggiarsi di responsabilità morali: perché Felice non ha mai denunciato quello che ancora considera un fratello (ed ecco la rivelazione di un’antica fotografia di loro ragazzi, conservata nel portafoglio, che appare alla fine del film).
Se la sceneggiatura è a tratti (solo a tratti) un po’ programmatica, a elevare il film è la splendida regia “a sprazzi” di Mario Martone, che inanella in modo liberissimo i momenti narrativi (stupenda l’ellissi che inghiotte la morte della madre). Come ne L’amore molesto Martone tesse un gioco di inversioni e analogie fra il presente e il passato: il ritorno di Felice a Napoli è una ricerca del tempo perduto. Si illude su Oreste che nonostante gli “avvertimenti” cerca di rivedere. Ma il “fratello” non è più un fratello; il loro rancoroso incontro si svolge sotto il segno della sconfitta. “Siamo finiti tutti due in un cul di sacco”, dice Oreste, che vive come un prigioniero nel suo reame clandestino, fa sesso tristemente con le sue prostitute ed esce per le strade in felpa e cappuccio alzato come un barbone. Sempre più il film mentre va avanti incrocia drammaticamente i due uomini, in un montaggio parallelo che nel finale diventa un montaggio alternato, con al centro la morte. 
Felice – che tutti invitano ad andarsene per il suo bene – non è mai riuscito realmente a fuggire: non si fugge da Napoli (la nostalgia), non si fugge da se stessi: Felice non ha mai sepolto quel ragazzo che correva in moto con l’amico fraterno. Ma come ha famosamente scritto Thomas Wolfe, You Can't Go Home AgainNon
puoi tornare a casa”.

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