Mario Martone
Quando
un film ci presenta una lunga camminata
del protagonista – come
quella di Pierfrancesco
Favino all’inizio del
notevole Nostalgia di
Mario Martone – ha
due possibili scelte:
significare
il
personaggio che si muove
nell’ambiente o all'opposto
l’ambiente attraverso il
movimento del personaggio.
Qui è la seconda. Siamo a
Napoli. Al
Rione Sanità, dove è
cresciuto, fa ritorno il
protagonista, che ha l’ironico nome di Felice Lasco,
dopo esserne stato assente
per quarant'anni. Era fuggito quindicenne dopo che, durante un furto
in appartamento assieme al suo miglior amico Oreste, quest’ultimo
aveva ucciso un uomo.
Felice
ha fatto fortuna e si è sposato al Cairo. Il motivo del viaggio è
di rivedere la madre (Aurora Quattrocchi),
vecchia e sola (la
scena in cui lui le fa il
bagno è estremamente intensa e pudica).
Ma anche dopo
la morte di lei
Felice vuole
restare. Perdersi in quelle strade e in
quei vicoli, ritrovare
l’atmosfera e la
lingua di un tempo;
nella bella interpretazione di Favino il suo parlare è marcato da un
accento arabo, che via via nel film cede
al riemergere di quello napoletano.
“Ti ha preso la nostalgia”,
gli dice
al telefono la moglie egiziana. Il
Rione Sanità inghiotte Filippo, ed
è allo stesso tempo un labirinto brulicante di vita e una
voragine. Dal punto di
vista spaziale, è ossessiva
nel film la presenza di zone alte viste
dal basso (il mega-ponte
intitolato a Maddalena
Cerasuolo, i piani alti delle
case accatastate, i passaggi elevati). E
ossessiva è
la presenza di
occhi che sorvegliano; perché
Oreste è diventato ‘O Malommo, capo del clan più violento e
pericoloso del Rione,
e teme
che Felice parli di
quell’antico delitto.
“Chisto
è ‘o paese mio”, prorompe
Felice prima in arabo e poi in napoletano. Quel
suo abbarbicarsi al
Rione Sanità, dove vuole
comprare casa e far venire la moglie, si
svolge sotto l’ombra di due figure contrapposte, quella
coraggiosamente manifesta
del prete anticamorra don
Luigi (Francesco Di Leva) e quella invisibile
del boss (Tommaso Ragno) –
una
contrapposizione che rappresenta
un fronteggiarsi di
responsabilità morali: perché Felice non ha mai denunciato quello
che ancora considera un
fratello (ed
ecco la rivelazione di
un’antica fotografia di loro ragazzi, conservata nel portafoglio,
che appare alla
fine del film).
Se
la sceneggiatura è
a tratti (solo a tratti) un po’ programmatica, a
elevare il film è la
splendida regia “a sprazzi” di Mario Martone, che inanella in
modo liberissimo
i momenti narrativi (stupenda l’ellissi che inghiotte la morte
della madre). Come
ne L’amore molesto Martone
tesse un gioco
di inversioni e analogie fra il presente e il passato: il
ritorno di Felice a Napoli è
una ricerca del tempo perduto. Si
illude su Oreste che nonostante gli “avvertimenti” cerca
di rivedere. Ma
il “fratello” non è più
un fratello; il loro
rancoroso
incontro si svolge sotto il
segno della sconfitta. “Siamo
finiti tutti due in un cul di sacco”, dice
Oreste, che vive come un
prigioniero nel suo reame clandestino, fa sesso tristemente con le
sue prostitute ed
esce per le strade in felpa e cappuccio alzato come un barbone.
Sempre più il film mentre va
avanti incrocia drammaticamente i due uomini, in un montaggio
parallelo che nel finale diventa un montaggio alternato, con al
centro la morte.
Felice
– che tutti invitano ad
andarsene per il suo bene –
non è mai riuscito
realmente a fuggire: non si fugge da Napoli (la nostalgia), non si fugge da se stessi: Felice non ha mai sepolto quel
ragazzo che correva in moto con l’amico
fraterno. Ma come ha
famosamente scritto Thomas Wolfe, You Can't Go Home Again, “Non
puoi tornare a casa”.
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