Quantum mutatus ab
illo... Ritroviamo
ossessioni e suggestioni di tutto il cinema di Ridley Scott, ma
immiserite e involgarite, in “Prometheus”: che rispetto al suo
capolavoro “Alien” del 1979 si situa a mezza strada fra prequel e
reboot
(infatti sulla linea del tempo i fatti di “Prometheus” vengono
molto prima di “Alien”, però la tecnologia è più avanzata:
vedi i computer). In “Prometheus” si ritrovano infatti le
tradizionali tematiche del cinema di Ridley Scott: in primo luogo la
ricerca impossibile di un Eden sognato. E' per trovare risposte sul
piano religioso che la scienziata Elizabeth Shaw (Noomi Rapace) va,
assieme all'umbratile compagno Charlie, sull'astronave Prometheus
(siamo alla fine del nostro secolo) alla ricerca dei misteriosi
“Ingegneri”, che hanno lasciato un messaggio nelle pitture e
sculture preistoriche e protostoriche di tutto il mondo, e sono i
supposti creatori dell'umanità.
Un
altro tema fisso di Scott è la terribilità insostenibile della
visione (spesso, ma non qui, declinato al passato); esso trova
un'illustrazione metaforica in una delle immagini più riuscite della
filmografia scottiana, all'interno di un contesto che non la merita:
quando Charlie guardandosi allo specchio si vede dentro l'occhio dei
piccoli vermi, che sono l'inizio della contaminazione.
La
colpa del fallimento è fondamentalmente della sceneggiatura puerile
di Jon Spaiths e Damon Lindelof (“Cowboys & Aliens”). Questi
due danno ragione postuma a Greimas, che aveva ridotto le figure
drammatiche ad attanti e funzioni: i personaggi del film sono pure
funzioni narrative, malamente rivestite di pelle umana.
Basta
vedere all'inizio come, a una semplice autopresentazione di cortesia
a tavola, il tatuato Fifield risponde incazzosamente che lui è lì
per i soldi e non per fare amicizia; poteva risparmiare tempo e dire
solo: “Ai sensi della sceneggiatura, io sono il Rompipalle”.
Infatti nel prosieguo non fa altro che rompere: non perché vi sia un
qualunque motivo ma perché deve assolvere onestamente a un ruolo. Il
personaggio più burattinesco di tutti è Miss Vickers (Charlize
Theron), che fin dall'inizio è non solo gelida ma ostile in maniera
incomprensibile. Isterismo? No, sceneggiatura. Che aveva bisogno di
un personaggio femminile di Bitch (“stronza”) e l'ha scaraventato
nel film nudo e crudo.
Di
conseguenza in “Prometheus” trionfano tanto la banalità dei
personaggi quanto l'implausibilità o incomprensibilità dei loro
comportamenti. Si può anche accettare che, mentre il team di
scienziati esplora la costruzione aliena - in realtà una nave
spaziale - il tatuato e il suo sodale, spaventati da un ologramma di
alieni visibilmente antico (nervi fragilini, per il 2093!), mollino
rumorosamente la compagnia per tornare alla base. Tanto si perdono:
serve a far partire le scene di mostri. Ma la verosimiglianza va a
farsi benedire quando da un corso d'acqua spunta un biscione
biancastro ritto come un cobra, primo elemento di vita visto sul
pianeta, e uno dei due (che fino a un attimo prima erano
spaventatissimi) va a fargli ghiri-ghiri-ghiri col ditino. Al cinema
l'implausibilità è ammissibile - è un caso limite della famosa
“sospensione volontaria dell'incredulità” - ma a patto che il
racconto la faccia sottoscrivere per logica illusionistica interna.
Per esempio, l'ultimo “Batman” di Christopher Nolan ha tutti i
difetti del mondo, ma almeno riesce a farci credere a quello che
racconta, anche quando le spara grosse (il pozzo-prigione).
Ma
insomma, dirà a questo punto il paziente lettore: diamo per assodato
che la costruzione dei personaggi e la loro interazione denunciano
un'incompetenza tale che in confronto qualsiasi filmetto di
fantascienza di serie B degli anni '50 sembra Kubrick; al di là di
questo, “Prometheus” vale qualcosa?
Purtroppo no. Tutta la
ricchezza e e tutto il cupo fascino che caratterizzavano il vecchio
“Alien” sono andati perduti; le deboli tracce di quel film
annegano in uno svolgimento manierato e impacciato, nonostante
l'ansia di porre rispecchiamenti fra i due film (il “rapporto”
finale). Scott rispolvera tutta una serie di problematiche
filosofico-religiose, ma esse restano a un livello di verbosa
superficialità. Perfino la suspense è solo una pallida ombra del
vecchio film. Accanto agli Alien-Alien già noti (ormai pressoché
babau), l'unica novità è l'invenzione di alieni umanoidi, cattivi
pure questi - il che, se ci pensiamo, è una banalizzazione rispetto
a quella gelida ondata di diversità biologica, vera alien/ità, che
amplificava la solitudine assoluta dello spazio nel primo film.
Potremmo ammirare la
resistenza fisica di Noomi Rapace, che corre e salta, benché con
l'ausilio di sostanze, dopo essersi fatta asportare con taglio
cesareo un Alien grosso come un feto umano - se non fosse troppo
evidente che questo è per trasformarla in una Sigourney Weaver di
complemento. In un cast diviso fra imbarazzanti e imbarazzati,
l'interprete più convincente è Michael Fassbender nella parte di un
androide (e sì, la sua demise
rispecchia puntualmente quella di Ian Holm in “Alien” - c'era da
dubitarne?).
Certamente “Prometheus”
offre un'imagery
piacevole, a tratti perfino notevole; ma è fondamentalmente una
rimasticatura di quello che aveva inventato Giger per “Alien”.
Giger-ismi e Alien-ismi a parte, restano da ricordare belle immagini
del pianeta: non per nulla le sole scene veramente soddisfacenti del
film sono gli esterni in campo lungo e lunghissimo.
Dopo
la sua prima, grande stagione Ridley Scott ci ha abituati a
improvvisi zigzag fra bravura e mediocrità (certe volte addirittura
nello stesso film: “Robin Hood”). Qui però siamo interamente nel
secondo caso. Aspettiamo fiduciosi la prossima volta.