Marc Forster
Quasi quasi, sembra dire “Quantum of Solace”, si stava meglio una volta quando il nemico era chiaro. La Spectre, con Ernst Stavro Blofeld e il suo gatto persiano, o la SMERSH. Oggi ci sono sempre le carogne (i finti ecologisti della Quantum, alla caccia - ecco un particolare interessante - del nuovo tesoro che è l’acqua), però davanti ai loro giochi sporchi il nostro mondo si compromette, amici e nemici si confondono, e in particolare gli americani - spaccati al loro interno fra buoni e cattivi - fanno la figura degli imbecilli.
Non c’era da aspettarsi molto dal regista Marc Forster, ma il nuovo film di James Bond, certamente tutt’altro che un capolavoro, non merita tutto il male che ne è stato detto. La sceneggiatura è un po’ troppo sovraccarica e confusa per un film bondiano, ma l’action non è male e il montaggio di Matt Chesse e Richard Pearson è degno di nota, assai veloce ma senza per questo offuscare l’azione (come per esempio certi passaggi de “La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone”). Di più, vi sono in “Quantum of Solace” due sequenze eccellenti, nelle quali l’azione narrativa si incrocia e si riflette elegantemente - mediante analogie, contrasti, rimandi, rime - con un’azione esterna di tipo “cerimoniale”: Bond che insegue un traditore fra la folla di Siena mentre si corre il Palio, Bond che porta lo scompiglio fra i cospiratori durante una messa in scena della “Tosca”. L’effetto è veramente rinfrescante.
Sì, però, hanno ripetuto tutti, non è Bond. Non va a letto con la bella del film, non beve Martini “agitato, non mescolato”, eccetera eccetera. Non per fare il bastian contrario, ma vorrei suggerire che questo sequel di “Casino Royale” è meno “sbondizzato” di quanto sembri. In primo luogo: anche se si tratta di un film disgustosamente casto (forse il primo 007 in cui i credits, con le dune di sabbia a forma di donna nuda, sono più erotici del resto), è vero che Bond non combina nulla con Camille (Olga Kurylenko) ma si porta a letto Strawberry Fields (Gemma Arterton), la Bond Girl nr. 2 del film (che poi finisce anche uccisa, con una citazione di “Goldfinger”): quindi l’onore maschile e bondiano è salvo. Quanto all’incompetenza in campo alcoolico, è solo un inner joke per rammentarci il tradimento - quello sì! - di “Casino Royale” (giustificabile solo se osserviamo che in quel momento 007 era “very upset”. Non ignoro che attraverso la giustificazione narrativa passa una ridefinizione dell’immagine: faccio solo notare che essa non era così gratuita).
Bisogna aggiungere che il Bond cinematografico, nel suo turbinare di corpi e facce (Bondenstein?), è sempre stato emozionalmente meno complesso rispetto a quello letterario di Ian Fleming. Ebbene, Daniel Craig sarà poco raffinato, ma offre un’incarnazione credibile a “quel volto duro, quasi crudele” (Fleming) del Bond dei romanzi; la sua cupezza sottende una sorta di disperazione che ben riesce a evocare il grumo di vulnerabilità che il Comandante Bond, in Fleming, tiene ben celata sotto la durezza esteriore.
“Quantum of Solace” è una storia (beh! lo scheletro di una storia) di ambiguità - “Non conosciamo mai nessuno a fondo, non è vero?” - e di vendetta. Sempre molto piacevole, quest’ultima, come motore dell’azione al cinema: così troveremo la giustizia almeno sullo schermo - specie noi dell’Italia, dove anche il più immondo degli assassini trova sempre un magistrato moralmente complice pronto a rimetterlo in liberà o dargli una condanna risibile. Bond al contrario, con una trovata narrativa che vale tutto il film, abbandona il supercriminale (Mathieu Amalric) in pieno deserto con la sola scorta di una lattina di olio da macchina (che poi lui, apprendiamo, berrà per disperazione). Questo, Roger Moore non lo avrebbe mai fatto; Sean Connery l’avrebbe ritenuta una buona idea ma uno spreco di tempo, e gli avrebbe sparato in fronte; Timothy Dalton non ci avrebbe manco pensato; Pierce Brosnan sì ma gli sceneggiatori non gliel’avrebbero lasciato fare; a George Lazenby gliel’avrebbe proibito il suo agente. Ma il Bond di Ian Fleming l’avrebbe fatto senza esitazioni, e anche in questo, quindi, Daniel Craig gli si riavvicina.
(Il Nuovo FVG)
domenica 23 novembre 2008
sabato 8 novembre 2008
WALL-E
Andrew Stanton
L’evoluzione tecnica e artistica del cartoon digitale ha un nome: Pixar. Già era una meraviglia “Ratatouille”, ma adesso “WALL-E” rappresenta un gradino superiore nello “state of the art” dell'industria: anche a parte la stupefacente pregnanza espressiva e il senso del movimento, possiede un contenuto poetico che nei momenti migliori non sarebbe indegno di un Chaplin digitale.
Questa storia d’amore tra due robot è un capolavoro di umanizzazione delle macchine, ben oltre l’analogo precedente exploit della Pixar “Cars”. I cartoni animati non recitano, lo sappiamo, vengono disegnati, ma in questo caso viene spontaneo parlare di recitazione, proprio come inconscio omaggio al livello altissimo dell'animazione - che, in nella sua tridimensionalità digitale, non priva mai WALL-E della sua corposità metallica di parallelepipedo cingolato. Nell’espressività dei suoi occhi, nella verità delle sue mani meccaniche, leggiamo perfettamente sentimenti e intenzioni. Grandezza della modulazione minima dell'espressività! Più che di umanizzazione, dovremmo parlare di trasposizione. Vale per WALL-E, vale ancor più per la quasi impossibile astrazione della sua compagna, tecnicamente più evoluta, EVE (in maiuscole perché i loro nomi sono acronimi). Ma com’è che riconosciamo subito EVE come una “lei”? Schemi mentali assai primitivi operano qui. Dal fatto che è una forma ovale, tutta di curve bianche e lisce (mentre WALL-E è angoloso, terragno, scrostato). Vale a dire: nel futuro dei tempi abbiamo ritrovato la Venere paleolitica.
Come tutti sanno, WALL-E è l’ultimo robot rimasto sulla Terra, travolta dalla spazzatura e abbandonata dagli uomini, col compito di pressarla e depositarla, ad infinitum. Il paesaggio terrestre del trionfo dell'immondizia, coi suoi grattacieli di cubi di spazzatura pressata, si fonde con l'immaginario del paesaggio post-atomico: l'eco-catastrofe ha sostituito la distruzione atomica come incubo futuribile. Il film trova accenti poetici nella malinconica mania di WALL-E di raccogliere relitti del passato perduto (gag sublime: trovando un prezioso anello nel suo astuccio, affascinato dal meccanismo di chiusura butta via il diamante e tiene la scatoletta). Fra queste, una videocassetta del musical “Hello, Dolly!” che sarà la colonna sonora e l’ispirazione ideale del buffo e difficile corteggiamento - nel quale i robot non parlano: in tutta la prima parte “WALL-E” è quasi un film muto.
Deliziosa - e profondamente femminile invero - l'aria sprezzante di EVE agli inizi del corteggiamento. L’amore fra l'umile robot spazzaturaio fine XXI secolo e la raffinata sonda volante del 2700 rappresenta quel “mismatch” sociale che sta alla base del mélo, e della commedia sentimentale, che ne è il rovesciamento ottimistico. Il concetto è sempre quello di Lilli e il Vagabondo: il randagio e la principessa; con la moderna differenza di una superiorità femminile non solo in termini di classe e di educazione ma anche di potenza. Superbo il gesto da pistolero western di EVE (che come carattere è alquanto fumantina) dopo avere disintegrato un masso grande come una casa per avere sentito un rumore - e WALL-E dietro i resti tutto tremante!
Quando EVE riparte con la piantina trovata, WALL-E la segue clandestino nello spazio raggiungendo la nave spaziale Axiom. Sul piano dell’ingegneria di questa il film è chiaramente debitore a “Star Wars”; ma quando sentiamo “Il bel Danubio blu” drizziamo ovviamente le orecchie e più tardi, nella ribellione del capitano che si alza in piedi, le note di “Also Sprach Zarathustra” (con ironico rovesciamento) ci risolvono il dubbio: sì, è tenuto presente anche “2001”. La descrizione satirica della futura umanità come ciccioni sul lettino serviti dalle macchine integra una vera e propria distopia (completa di linguaggio orwelliano: “il 700° anniversario della nostra quinquennale crociera”). Pur nutrita di bei tocchi di romanticismo, la seconda parte è più avventurosa; e il film possiede una qualità angosciosa (la caduta nel pozzo, gli umani che scivolano in massa dai lettini, la perdita della memoria da parte di WALL-E - ma anche, nella prima parte, l'atterraggio dell'astronave) superiore a “Ratatouille” o a “Cars”. Ma tutto va a finir bene, e non lasceremo “WALL-E” senza menzionare i superbi titoli di coda: che applicandola ai nostri eroi ripercorrono la storia del disegno (graffiti preistorici, stilizzazione egizia, poi greca, poi mosaico romano ecc.) come metafora di un’evoluzione.
(Il Nuovo FVG)
L’evoluzione tecnica e artistica del cartoon digitale ha un nome: Pixar. Già era una meraviglia “Ratatouille”, ma adesso “WALL-E” rappresenta un gradino superiore nello “state of the art” dell'industria: anche a parte la stupefacente pregnanza espressiva e il senso del movimento, possiede un contenuto poetico che nei momenti migliori non sarebbe indegno di un Chaplin digitale.
Questa storia d’amore tra due robot è un capolavoro di umanizzazione delle macchine, ben oltre l’analogo precedente exploit della Pixar “Cars”. I cartoni animati non recitano, lo sappiamo, vengono disegnati, ma in questo caso viene spontaneo parlare di recitazione, proprio come inconscio omaggio al livello altissimo dell'animazione - che, in nella sua tridimensionalità digitale, non priva mai WALL-E della sua corposità metallica di parallelepipedo cingolato. Nell’espressività dei suoi occhi, nella verità delle sue mani meccaniche, leggiamo perfettamente sentimenti e intenzioni. Grandezza della modulazione minima dell'espressività! Più che di umanizzazione, dovremmo parlare di trasposizione. Vale per WALL-E, vale ancor più per la quasi impossibile astrazione della sua compagna, tecnicamente più evoluta, EVE (in maiuscole perché i loro nomi sono acronimi). Ma com’è che riconosciamo subito EVE come una “lei”? Schemi mentali assai primitivi operano qui. Dal fatto che è una forma ovale, tutta di curve bianche e lisce (mentre WALL-E è angoloso, terragno, scrostato). Vale a dire: nel futuro dei tempi abbiamo ritrovato la Venere paleolitica.
Come tutti sanno, WALL-E è l’ultimo robot rimasto sulla Terra, travolta dalla spazzatura e abbandonata dagli uomini, col compito di pressarla e depositarla, ad infinitum. Il paesaggio terrestre del trionfo dell'immondizia, coi suoi grattacieli di cubi di spazzatura pressata, si fonde con l'immaginario del paesaggio post-atomico: l'eco-catastrofe ha sostituito la distruzione atomica come incubo futuribile. Il film trova accenti poetici nella malinconica mania di WALL-E di raccogliere relitti del passato perduto (gag sublime: trovando un prezioso anello nel suo astuccio, affascinato dal meccanismo di chiusura butta via il diamante e tiene la scatoletta). Fra queste, una videocassetta del musical “Hello, Dolly!” che sarà la colonna sonora e l’ispirazione ideale del buffo e difficile corteggiamento - nel quale i robot non parlano: in tutta la prima parte “WALL-E” è quasi un film muto.
Deliziosa - e profondamente femminile invero - l'aria sprezzante di EVE agli inizi del corteggiamento. L’amore fra l'umile robot spazzaturaio fine XXI secolo e la raffinata sonda volante del 2700 rappresenta quel “mismatch” sociale che sta alla base del mélo, e della commedia sentimentale, che ne è il rovesciamento ottimistico. Il concetto è sempre quello di Lilli e il Vagabondo: il randagio e la principessa; con la moderna differenza di una superiorità femminile non solo in termini di classe e di educazione ma anche di potenza. Superbo il gesto da pistolero western di EVE (che come carattere è alquanto fumantina) dopo avere disintegrato un masso grande come una casa per avere sentito un rumore - e WALL-E dietro i resti tutto tremante!
Quando EVE riparte con la piantina trovata, WALL-E la segue clandestino nello spazio raggiungendo la nave spaziale Axiom. Sul piano dell’ingegneria di questa il film è chiaramente debitore a “Star Wars”; ma quando sentiamo “Il bel Danubio blu” drizziamo ovviamente le orecchie e più tardi, nella ribellione del capitano che si alza in piedi, le note di “Also Sprach Zarathustra” (con ironico rovesciamento) ci risolvono il dubbio: sì, è tenuto presente anche “2001”. La descrizione satirica della futura umanità come ciccioni sul lettino serviti dalle macchine integra una vera e propria distopia (completa di linguaggio orwelliano: “il 700° anniversario della nostra quinquennale crociera”). Pur nutrita di bei tocchi di romanticismo, la seconda parte è più avventurosa; e il film possiede una qualità angosciosa (la caduta nel pozzo, gli umani che scivolano in massa dai lettini, la perdita della memoria da parte di WALL-E - ma anche, nella prima parte, l'atterraggio dell'astronave) superiore a “Ratatouille” o a “Cars”. Ma tutto va a finir bene, e non lasceremo “WALL-E” senza menzionare i superbi titoli di coda: che applicandola ai nostri eroi ripercorrono la storia del disegno (graffiti preistorici, stilizzazione egizia, poi greca, poi mosaico romano ecc.) come metafora di un’evoluzione.
(Il Nuovo FVG)
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martedì 4 novembre 2008
Vicky Cristina Barcelona
Woody Allen
Certo la forma-romanzo non è ignota a Woody Allen, che in anni giovanili la esplorava nelle sue parodie per il New Yorker (riverberate sullo schermo nell’amabile parodia tolstoiana di “Amore e guerra”). Ora con “Vicky Cristina Barcelona” ci propone un film in cui essa è assunta direttamente come forma costitutiva. Infatti la caratteristica fondante di “Vicky Cristina Barcelona” è la voce narrante, neutra ed esterna: che va al di là dell'utilizzo vicario, o di incorniciatura, cui siamo abituati nel cinema per divenire vero processo generativo del racconto sullo schermo: voce perfettamente romanzesca. Non risponde soltanto alla semplice funzionalità narrativa (“Arrivarono a destinazione la mattina presto”; “E venne il mattino in cui il futuro marito di Vicky arrivò da New York”); non solo si concede passaggi gnomici (“Come molti uomini creativi Juan Antonio aveva bisogno di vivere sempre con una donna”); di più, incarna la focalizzazione onnisciente classica (“Quella sera le due donne ebbero difficoltà a addormentarsi”), penetra nei pensieri dei personaggi (“Si tolse dalla testa ogni folle e stupida fantasia”; “Ben non seppe resistere e le prese la mano”), non senza il gusto costante dell’ironia. Tutto ciò appartiene a un territorio letterario preciso: Jane Austen e in generale il novel of manners inglese classico. “Vicky Cristina Barcelona” è una commedia - non nel senso della ricerca dell’effetto comico ma per lo sguardo dall'alto sui personaggi - per la quale film of manners non sarebbe una cattiva definizione. Il suo argomento specifico ruota sul rapporto fra i sentimenti e le scelte matrimoniali - più austeniano di così!
Il film si apre sull’arrivo (e si chiuderà sulla partenza) di Vicky e Cristina a Barcellona. La prima è lì per un master sull'identità catalana; la seconda ha appena girato un cortometraggio che “cerca di spiegare perché l'amore è difficile da definire”. Ecco il tema profondo del film di Allen, sotteso a quello della scelta; ed è uno dei temi base della sua opera. In questo senso, concretizzato dalla presenza della voce narrante (che però allora era la voce soggettiva e ricordante di Woody), “Vicky Cristina Barcelona” ricorda “Io e Annie”.
Il privilegio della voce narrante ci illustra velocemente la differenza delle due. Cristina (Scarlett Johansson) cerca l'amore e accetta la sofferenza come parte ineliminabile della passione: “So solo quello che non voglio” (un concetto importante, visto che il narratore lo ripeterà come marca definitiva nella conclusione). Vicky (Rebecca Hall) ha pianificato una tranquilla vita familiare col noioso e ricco Doug: l’orrido fidanzato - che se visita Siviglia è felice di trovare amici newyorchesi per giocare a bridge tutto il giorno - è il classico filisteo del romanzo ottocentesco d'amore e matrimonio. La sua ristrettezza mentale fa da risposta sarcastica all’acribia delle ricerche di Vicky sull’identità catalana. E' quel tipo di americanus vulgaris ch'era incarnato satiricamente (ma con più affetto) da Tony Roberts nei primi film di Woody, “Provaci ancora Sam”, “Io e Annie”.
Le due ragazze s’imbattono nel pittore Juan Antonio (Javier Bardem). L'eleganza del gioco di inquadrature e montaggio nella conversazione nella galleria d'arte non smentisce un film tecnicamente assai notevole: vedi il ristretto e intelligente uso dell'iride, il montaggio lucido e veloce, la bella scansione delle inquadrature nella scena dell’incontro fra Vicky e Juan Antonio di fronte alla fontana. “Il trucco è di godersi la vita accettando che non abbia alcun significato”, dice lui. Qui, sub specie sexualitatis, rientra la grande preoccupazione del cinema alleniano, il senso della vita; il nichilismo epicureo di Juan Antonio corrisponde ironicamente al nichilismo tragicomico di Allen stesso (“Non solo Dio è morto, ma provate a trovare un idraulico durante il weekend”). Va detto che il personaggio, dal cuore disponibile e ancora innamorato dell'ex moglie, è molto più umano e sanguigno di quanto non sia parso a qualche recensore.
Il pittore fa loro delle proposte: Cristina è subito interessata, Vicky rifiuta con orrore moraleggiante (nell’interpretazione di Rebecca Hall ritroviamo il balbettare un po’ nevrotico di tante donne alleniane - un po' alla Mia Farrow, sebbene con più sicurezza). Ma ambedue cederanno al suo fascino, e Cristina si troverà coinvolta in un rapporto a tre col pittore e la sua squilibrata ex moglie Maria Elena (Penelope Cruz). Per entrambe si porrà il problema della scelta. Bruciarsi in una passione dolorosa o rifugiarsi nella sicurezza di un matrimonio grigio?
Due donne, ma, fin dal titolo, un’entità singola, in cui si sdoppia il problema della scelta (esistenziale e sessuale e quindi matrimoniale e quindi - specie ahimè per la donna - determinante della vita futura). Woody Allen è sempre stato attratto dal raddoppiamento, che, presente fin dal titolo in un film piacevole ma non particolarmente brillante, “Melinda e Melinda”, ritorna in larga parte del suo cinema, da “Pallottole su Broadway” ad “Anything Else”, fino alla sontuosa, elaborata, solenne costruzione di doppi e rimandi in uno dei suoi capolavori assoluti, “Crimini e misfatti”.
E Barcellona come entra nel quadro? Perché la triade “Vicky Cristina Barcelona” del titolo? A un certo punto del film, parlando del ménage à trois, Maria Elena dice a Cristina “Tu sei l’elemento che mancava” (infatti, sparita lei, l’amore degli altri due crolla di nuovo). In altre parole, il catalizzatore. Appunto, Barcellona è per le due americane il catalizzatore della scelta. Et pour cause: l’Europa per gli americani è sempre stata il luogo mitico della seduzione. Il concetto d’Europa nel film alleniano ricorda molto la narrativa di Henry James - che quindi possiamo mettere accanto a Jane Austen fra i suoi numi ispiratori.
Questo piccolo e fulminante capolavoro di scarso successo è, a mio parere, il miglior film di Woody Allen fin dai tempi di “Harry a pezzi”. Per la sua saggezza sulle scelte della vita (saggezza perfino estrema: tutti noi nel nostro quotidiano amiamo illuderci di non trovarci di fronte a scelte così nette), “Vicky Cristina Barcelona” è l’opera di un vecchio che sa. Ma mi è capitato sopra di citare due volte “Io e Annie”, un film giovanile (oltre che di svolta): “Vicky Cristina Barcelona” potrebbe annunciare per Woody una seconda giovinezza artistica.
(Il Nuovo FVG)
Certo la forma-romanzo non è ignota a Woody Allen, che in anni giovanili la esplorava nelle sue parodie per il New Yorker (riverberate sullo schermo nell’amabile parodia tolstoiana di “Amore e guerra”). Ora con “Vicky Cristina Barcelona” ci propone un film in cui essa è assunta direttamente come forma costitutiva. Infatti la caratteristica fondante di “Vicky Cristina Barcelona” è la voce narrante, neutra ed esterna: che va al di là dell'utilizzo vicario, o di incorniciatura, cui siamo abituati nel cinema per divenire vero processo generativo del racconto sullo schermo: voce perfettamente romanzesca. Non risponde soltanto alla semplice funzionalità narrativa (“Arrivarono a destinazione la mattina presto”; “E venne il mattino in cui il futuro marito di Vicky arrivò da New York”); non solo si concede passaggi gnomici (“Come molti uomini creativi Juan Antonio aveva bisogno di vivere sempre con una donna”); di più, incarna la focalizzazione onnisciente classica (“Quella sera le due donne ebbero difficoltà a addormentarsi”), penetra nei pensieri dei personaggi (“Si tolse dalla testa ogni folle e stupida fantasia”; “Ben non seppe resistere e le prese la mano”), non senza il gusto costante dell’ironia. Tutto ciò appartiene a un territorio letterario preciso: Jane Austen e in generale il novel of manners inglese classico. “Vicky Cristina Barcelona” è una commedia - non nel senso della ricerca dell’effetto comico ma per lo sguardo dall'alto sui personaggi - per la quale film of manners non sarebbe una cattiva definizione. Il suo argomento specifico ruota sul rapporto fra i sentimenti e le scelte matrimoniali - più austeniano di così!
Il film si apre sull’arrivo (e si chiuderà sulla partenza) di Vicky e Cristina a Barcellona. La prima è lì per un master sull'identità catalana; la seconda ha appena girato un cortometraggio che “cerca di spiegare perché l'amore è difficile da definire”. Ecco il tema profondo del film di Allen, sotteso a quello della scelta; ed è uno dei temi base della sua opera. In questo senso, concretizzato dalla presenza della voce narrante (che però allora era la voce soggettiva e ricordante di Woody), “Vicky Cristina Barcelona” ricorda “Io e Annie”.
Il privilegio della voce narrante ci illustra velocemente la differenza delle due. Cristina (Scarlett Johansson) cerca l'amore e accetta la sofferenza come parte ineliminabile della passione: “So solo quello che non voglio” (un concetto importante, visto che il narratore lo ripeterà come marca definitiva nella conclusione). Vicky (Rebecca Hall) ha pianificato una tranquilla vita familiare col noioso e ricco Doug: l’orrido fidanzato - che se visita Siviglia è felice di trovare amici newyorchesi per giocare a bridge tutto il giorno - è il classico filisteo del romanzo ottocentesco d'amore e matrimonio. La sua ristrettezza mentale fa da risposta sarcastica all’acribia delle ricerche di Vicky sull’identità catalana. E' quel tipo di americanus vulgaris ch'era incarnato satiricamente (ma con più affetto) da Tony Roberts nei primi film di Woody, “Provaci ancora Sam”, “Io e Annie”.
Le due ragazze s’imbattono nel pittore Juan Antonio (Javier Bardem). L'eleganza del gioco di inquadrature e montaggio nella conversazione nella galleria d'arte non smentisce un film tecnicamente assai notevole: vedi il ristretto e intelligente uso dell'iride, il montaggio lucido e veloce, la bella scansione delle inquadrature nella scena dell’incontro fra Vicky e Juan Antonio di fronte alla fontana. “Il trucco è di godersi la vita accettando che non abbia alcun significato”, dice lui. Qui, sub specie sexualitatis, rientra la grande preoccupazione del cinema alleniano, il senso della vita; il nichilismo epicureo di Juan Antonio corrisponde ironicamente al nichilismo tragicomico di Allen stesso (“Non solo Dio è morto, ma provate a trovare un idraulico durante il weekend”). Va detto che il personaggio, dal cuore disponibile e ancora innamorato dell'ex moglie, è molto più umano e sanguigno di quanto non sia parso a qualche recensore.
Il pittore fa loro delle proposte: Cristina è subito interessata, Vicky rifiuta con orrore moraleggiante (nell’interpretazione di Rebecca Hall ritroviamo il balbettare un po’ nevrotico di tante donne alleniane - un po' alla Mia Farrow, sebbene con più sicurezza). Ma ambedue cederanno al suo fascino, e Cristina si troverà coinvolta in un rapporto a tre col pittore e la sua squilibrata ex moglie Maria Elena (Penelope Cruz). Per entrambe si porrà il problema della scelta. Bruciarsi in una passione dolorosa o rifugiarsi nella sicurezza di un matrimonio grigio?
Due donne, ma, fin dal titolo, un’entità singola, in cui si sdoppia il problema della scelta (esistenziale e sessuale e quindi matrimoniale e quindi - specie ahimè per la donna - determinante della vita futura). Woody Allen è sempre stato attratto dal raddoppiamento, che, presente fin dal titolo in un film piacevole ma non particolarmente brillante, “Melinda e Melinda”, ritorna in larga parte del suo cinema, da “Pallottole su Broadway” ad “Anything Else”, fino alla sontuosa, elaborata, solenne costruzione di doppi e rimandi in uno dei suoi capolavori assoluti, “Crimini e misfatti”.
E Barcellona come entra nel quadro? Perché la triade “Vicky Cristina Barcelona” del titolo? A un certo punto del film, parlando del ménage à trois, Maria Elena dice a Cristina “Tu sei l’elemento che mancava” (infatti, sparita lei, l’amore degli altri due crolla di nuovo). In altre parole, il catalizzatore. Appunto, Barcellona è per le due americane il catalizzatore della scelta. Et pour cause: l’Europa per gli americani è sempre stata il luogo mitico della seduzione. Il concetto d’Europa nel film alleniano ricorda molto la narrativa di Henry James - che quindi possiamo mettere accanto a Jane Austen fra i suoi numi ispiratori.
Questo piccolo e fulminante capolavoro di scarso successo è, a mio parere, il miglior film di Woody Allen fin dai tempi di “Harry a pezzi”. Per la sua saggezza sulle scelte della vita (saggezza perfino estrema: tutti noi nel nostro quotidiano amiamo illuderci di non trovarci di fronte a scelte così nette), “Vicky Cristina Barcelona” è l’opera di un vecchio che sa. Ma mi è capitato sopra di citare due volte “Io e Annie”, un film giovanile (oltre che di svolta): “Vicky Cristina Barcelona” potrebbe annunciare per Woody una seconda giovinezza artistica.
(Il Nuovo FVG)
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