domenica 16 ottobre 2016

Antonella Peresson e le Valli del Natisone


Le Valli del Natisone sono un'area del Friuli, percorse dal fiume Natisone e altri corsi d'acqua, di lingua e cultura slovena. Possiedono un folklore particolarissimo e affascinante, che popola i suoi recessi e i suoi torrenti di creature preternaturali – con una forte componente nera e paurosa. Le krivapete, abitatrici della natura, donne con i piedi rivolti all'indietro, ora dispensatrici di saggi consigli ora pericolose; le vesne, che rapiscono i bambini; le torke, che di notte assaltano e divorano le massaie sole all'arcolaio; gli skrati, spiriti di bambini non battezzati, col loro cappuccio o berretto rosso; la morà, che rappresenta un esempio di proto-vampiro, vagamente affine al friulano cjalcjut; i belandanti o balavantari (il nome è un'ovvia derivazione dai benandanti, famosi per il saggio di Ginzburg), che mangiano uomini e bestie e poi li ricompongono dalle ossa; e non dimentichiamo quel misterioso serpente, il lintver.
Il cupo folklore delle Valli del Natisone ha affascinato la pittrice Antonella Peresson. I suoi dipinti sono stati esposti nella mostra dal titolo “...di acque, di pietre, di suoni… Il fiume racconta” a Cividale del Friuli (dal 14 al 23 ottobre nei weekend), insieme alla documentazione fotografica dei raffinati lavori di stone balancing di Luca Zaro, il tutto accompagnato dai bei versi di Milena Gazza. Aggiungo che l'inaugurazione ha visto la performance dal vivo di Luca Zaro e la recitazione di Milena Gazza accompagnata dalle musiche di Maria Francesca Gussetti.
Le rocce del Natisone – più le guardi, più ci vedi un mondo di un'altra epoca”, dice Antonella. E lo scopo del suo lavoro, nato da lunghi giri nelle Valli, è appunto di cogliere e trasmettere il genius loci.
Ora, la pittura di Antonella Peresson è sempre una pittura figurativa che tende verso l'astrazione. Nella sua pennellata densa, materica, carica e sensuale (di pura tradizione veneta, tutta coloristica e tattile), i nudi femminili si fondono con l'acqua e la terra. Il nudo femminile, perché rappresenta la donna originaria nella sua opulenza generosa – ciò che, per inciso, riflette l'interesse di Antonella per l'entità preistorica della Grande Madre.
Le figure non si inseriscono nel paesaggio ma vi si trasfondono. Le rocce e l'acqua, che sono le componenti primarie dei dipinti, non ospitano personaggi mitici, bensì questi si trasformano in esse. Il bruno e l'ocra della roccia, il turchese e il bianco dell'acqua. Quest'acqua fredda e tumultuosa non ha la tranquillità della trasparenza; è materiale, pesante, scorre in colori smaltati. Perché Antonella non è impressionista; semmai si può cogliere un tratto di simbolismo. Ricrea l'acqua nella sua mente come un eterno fluire della materia (c'è anche un piccolo bellissimo quadro in cui il movimento verticale di caduta dell'acqua travolge l'intero dipinto in una caduta vorticosa di colori). La trasparenza e l'iridescenza proprie dell'acqua sembrano concentrarsi nelle creature mitiche cui la sorgente dà vita e che nelle stesso tempo presiedono ad essa; ora sono corpi vivi, che in quest'acqua si bagnano, ora è l'acqua stessa che modella un corpo.
L'acqua, ma anche, nella sua cupa durezza, la roccia. Torrenti escono da gole, aperture vaginali, modellate da rocce che assumono aspetti mostruosi: vi si incarnano antiche presenze pietrificate. Ed è proprio la fusione di roccia e di creatura, tanto che non sapresti dire dove finisca questa e cominci quella, che potenzia la visione del genius loci, e la sottrae a quella sorta di limitatezza che apparterrebbe alla rappresentazione referenziale, o peggio, all'illustrazione. Se l'acqua è vivente e veloce, la pietra è lenta: il suo tempo si conta in secoli. E se le creature d'acqua appaiono nei quadri vive e vibranti, i mostri di pietra che si confondono con le rocce della montagna sono congelati in un tempo che non è il nostro.
Questi posti sono pericolosi”. Ci si intuisce, fissata sulla tela, la presenza di quella specie di timor panico che i latini chiamavano reverentia. Ma merita aggiungere che, anche lontano dalle ombre cupe e dal mondo mitico segreto delle Valli, una percezione panica dell'universo però in senso trionfale è la caratteristica e la ricchezza di tutta l'opera di Antonella Peresson.

giovedì 6 ottobre 2016

Pets - La vita segreta degli animali

Chris Renaud & Yarrow Cheney

La Illumination Entertainment (proprietà Universal) ha avuto un meritato successo con Cattivissimo me, e ha imposto i Minions fra le figure più amate dell'animazione e del merchandising; anche se, come mostra il film omonimo, in veste di protagonisti i Minions sembrano reggere solo nella dimensione del cortometraggio. Come che sia, la I. E. è ben lontana dal raggiungere la grandezza, diciamo, della Pixar.
Ragion di più per salutare un suo ritorno alla grande col bellissimo Pets – Vita da animali (The Secret Life of Pets), di Chris Renaud e Yarrow Cheney, che è superiore anche a Cattivissimo me e segna il capolavoro a tutt'oggi della ditta. Aggiungo subito che è consigliabile vederlo in 3D: un 3D bellissimo (senza fare spoiler, dirò che il momento migliore è connesso alle bisce), esaltato nella doppia declinazione dell'oggetto che si protende verso lo spettatore e dell'oggetto che entra in campo dal lato della mdp, “sopra la testa dello spettatore”, come per esempio un pittorico volo d'uccelli. New York è accarezzata dallo sguardo del film con una tale adesione, un calore alla Woody Allen, che questo film può entrare a far parte dei classici sulla Grande Mela, anche se la vicenda potrebbe svolgersi in qualsiasi metropoli occidentale… forse. Forse, perché c'è nei suoi pelosi personaggi una certa brusca saggezza streetwise, un certo cinismo urbano, che appare assolutamente newyorkese (devo precisare che non ho visto la versione doppiata, e spero renda merito all'originale).
Il concetto base è che quando noi umani lasciamo i nostri animali da soli (e la loro grande domanda esistenziale è “Dove vanno tutto il giorno?”) loro vivono una vita segreta che non ci immaginiamo; evadono dalle case, organizzano party, mettono musica rock sull'impianto stereo, guardano in tv la telenovela latinoamericana – e qui la cagnetta traduce in forma canina, come girare su se stessa per l'eccitazione, le tipiche reazioni delle telespettatrici.
Il protagonista, il terrier Max, ha una brutta sorpresa quando la padrona gli porta in casa Duke, un cagnone enorme che all'inizio sembra amichevole ma poi si rivela un prepotente; il maldestro tentativo di Max di liberarsi dell'intruso mette in moto il film. Deliziosa, per inciso, l'idea di una slurpata di amicizia di Duke che, essendo in soggettiva, lascia una traccia di saliva sull'obiettivo della mdp. Ovvero, quello che in passato sarebbe stato un errore e oggi ha un semplice valore retorico (pensiamo agli spruzzi di sangue sulla mdp in tanti film) qui viene replicato come disegno, cioè come strizzata d'occhio allo spettatore: meta-cartoon.
I due cani finiscono in un mare di guai, comprendenti l'incontro con una memorabile accolita di animali rivoluzionari capitanati da un coniglio psicopatico. Sono gli “sciacquonati”, gli ex pets di cui i padroni si sono liberati – e sì, c'è pure il coccodrillo buttato via da piccolo nello sciacquone e cresciuto nelle fogne, come vuole la leggenda metropolitana americana. La moralità e la mitologia rivoluzionaria di questi reietti sono delineate con minuzioso umorismo (“pet” e “padrone” sono per loro il peggiore degli insulti).
Il cuore del film, il suo punto nodale, è la descrizione di una cultura altra che è quella degli animali. Qui val la pena di ricordare il raffinato uso dell'anacronismo concettuale che rende esilarante il romanzo Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, col suo trapassare istantaneo tra ignoranza e conoscenza, tra la mente dell'ominide e quella dell'uomo colto contemporaneo. In Pets troviamo qualcosa di molto simile. Perché queste bestiole hanno una loro cultura “ad altezza di animale”, ma in essa si inseriscono concetti complessi. Esempio, l'amica gatta parla con sarcasmo di “cane alfa”; oppure, i due cani sanno di discendere dai lupi, quasi avessero letto Konrad Lorenz, ma di fronte alle difficoltà nell'orientarsi si chiedono se non sia una leggenda. La comicità nasce dalla contraddizione tra la “cultura animale” con le sue incomprensioni – lo “sguardo dal basso” – e il bagaglio concettuale alto che vi spunta. Non è una novità, certo, ma non ricordo altri casi nel cinema scritti così bene.
Sul piano del dialogo, Pets è una screwball comedy. Sul piano dell'azione, è un vero rollercoaster avventuroso, con un ottimo uso dei tempi, molto mosso – dove è assai presente la paura dell'acqua, di annegare. Non manca un intermezzo di tipo fantastico, il sogno canino di un musical di salsicce viventi, tra Busby Berkeley ed Esther Williams. Mentre una pagina alta mette in relazione la ricerca dell'antico padrone di Duke con l'esitazione che tutti proviamo davanti ai rapporti sentimentali col che ci fa capire poeticamente qualcosa.
Basta quanto detto per capire che il film si basa su un umorismo a molti livelli. Da quello facile da comprendere per i bambini, lo splastick immediato o certe semplici situazioni (la vergogna della gatta quando, filmata dagli animali dopo essersi sporcata di cibo a un party, si ritrova su YouTube – e qui umani e animali guardano gli schermi e ridono allo stesso modo), si passa ai vari livelli di complessità dello humour verbale, fino alle citazioni cinefile che passano sopra la testa dei bambini per deliziare gli spettatori adulti (niente spoiler, ma la più bella è quando viene riciclata a bell'effetto una delle battute più celebri del cinema americano).
E a costo di scocciare l'addetto alle pulizie che compare implacabile nei multisala appena compaiono i titoli di coda… restate per tutta la durata dei titoli, in modo da godervi l'episodietto post-credits!