Le Valli del Natisone sono un'area del Friuli, percorse dal fiume Natisone e altri corsi d'acqua, di lingua e cultura slovena. Possiedono un folklore particolarissimo e affascinante, che popola i suoi recessi e i suoi torrenti di creature preternaturali – con una forte componente nera e paurosa. Le krivapete, abitatrici della natura, donne con i piedi rivolti all'indietro, ora dispensatrici di saggi consigli ora pericolose; le vesne, che rapiscono i bambini; le torke, che di notte assaltano e divorano le massaie sole all'arcolaio; gli skrati, spiriti di bambini non battezzati, col loro cappuccio o berretto rosso; la morà, che rappresenta un esempio di proto-vampiro, vagamente affine al friulano cjalcjut; i belandanti o balavantari (il nome è un'ovvia derivazione dai benandanti, famosi per il saggio di Ginzburg), che mangiano uomini e bestie e poi li ricompongono dalle ossa; e non dimentichiamo quel misterioso serpente, il lintver.
Il
cupo folklore delle
Valli
del Natisone ha
affascinato la pittrice Antonella Peresson. I
suoi dipinti
sono stati esposti nella
mostra dal titolo “...di
acque, di pietre, di suoni… Il fiume racconta” a
Cividale del Friuli (dal 14
al 23
ottobre nei
weekend), insieme alla
documentazione fotografica dei raffinati
lavori di stone
balancing di Luca
Zaro, il
tutto accompagnato
dai bei versi di Milena
Gazza. Aggiungo
che l'inaugurazione ha visto la performance dal vivo di Luca Zaro e
la recitazione di Milena
Gazza accompagnata dalle
musiche di Maria Francesca
Gussetti.
“Le
rocce del Natisone – più le guardi, più ci vedi un mondo di
un'altra epoca”, dice Antonella. E lo scopo del suo lavoro, nato da
lunghi giri nelle Valli, è appunto di cogliere e trasmettere il
genius loci.
Ora,
la pittura di Antonella Peresson
è sempre una pittura
figurativa che tende verso l'astrazione. Nella sua pennellata densa,
materica, carica e sensuale (di
pura tradizione veneta, tutta
coloristica e tattile), i
nudi femminili si fondono con l'acqua e la terra. Il nudo femminile,
perché rappresenta la donna originaria nella sua opulenza generosa –
ciò che, per inciso,
riflette l'interesse di Antonella per l'entità
preistorica
della Grande Madre.
Le
figure non si inseriscono nel paesaggio ma vi si trasfondono. Le
rocce e l'acqua, che sono le componenti primarie dei dipinti, non
ospitano personaggi mitici, bensì questi si trasformano in
esse. Il bruno e l'ocra della roccia, il turchese e il bianco
dell'acqua. Quest'acqua fredda e tumultuosa non ha la tranquillità
della trasparenza; è materiale, pesante, scorre in colori smaltati.
Perché Antonella non è impressionista; semmai si può cogliere un
tratto di simbolismo. Ricrea l'acqua nella sua mente come un eterno
fluire della materia (c'è anche un piccolo bellissimo quadro in cui
il movimento verticale di caduta dell'acqua travolge l'intero
dipinto in una caduta vorticosa di colori). La trasparenza e
l'iridescenza proprie dell'acqua sembrano concentrarsi nelle creature
mitiche cui la sorgente dà vita e che nelle stesso tempo presiedono
ad essa; ora sono corpi vivi, che in quest'acqua si bagnano, ora è
l'acqua stessa che modella un corpo.
L'acqua,
ma anche, nella sua cupa durezza, la roccia. Torrenti
escono da gole, aperture vaginali, modellate da rocce che assumono
aspetti mostruosi: vi si incarnano antiche presenze pietrificate. Ed
è proprio la
fusione di
roccia e di creatura, tanto che non sapresti dire dove finisca questa
e cominci quella, che potenzia la visione del
genius loci, e
la sottrae a quella
sorta di limitatezza che
apparterrebbe alla
rappresentazione
referenziale,
o peggio, all'illustrazione. Se
l'acqua è vivente e veloce, la pietra è lenta: il suo tempo si
conta in secoli. E se le creature d'acqua
appaiono nei quadri vive e
vibranti, i mostri di pietra che si confondono con le rocce della
montagna sono congelati in un tempo che non è il nostro.
“Questi
posti sono pericolosi”. Ci
si intuisce, fissata sulla
tela, la
presenza di quella specie di
timor panico che i latini
chiamavano reverentia. Ma
merita aggiungere che, anche
lontano dalle ombre cupe e dal mondo mitico segreto delle Valli, una
percezione panica
dell'universo –
però in senso trionfale –
è la caratteristica e la
ricchezza di tutta l'opera di
Antonella Peresson.