sabato 24 giugno 2023

Emily

Frances O'Connor

Ci si lamenta spesso che il cinema d’oggi tratti gli spettatori come bambini; un benaccetto esempio opposto è il bel film biografico Emily, su Emily Brontë, l'autrice di Cime tempestose (con un’ottima interpretazione di Emma Mackey). Scritto e diretto da Frances O’Connor (che nel 1999 come attrice aveva interpretato Mansfield Park, tratto da un altro genio femminile dell’Ottocento, Jane Austen), Emily è un film ellittico, caratterizzato da un montaggio secco, diretto, verrebbe voglia di dire “militare”, nel passaggio da una scena all’altra. Una caratteristica del film è l’impiego insistito, psicologico del primissimo piano; c’è sempre una pregnanza di linguaggio, che va dall'uso della macchina a mano quando Emily seppellisce la maschera (in soggettiva della maschera stessa!) all'impiego del dettaglio quando la pupilla di Emily si dilata sotto l’effetto dell’oppio. Ma va citato anche l’eccellente uso del sonoro: vedi, per esempio, la bolla di silenzio che ingloba Emily dopo che la sorella le ha letto la lettera con la notizia della morte del suo ex amante segreto, e lei si allontana dal giardino; poi entra il suono del vento della brughiera sul suo svenimento in camera.
Un film storico per forza di cose deve smussare e semplificare (Emily Brontë non pubblicò la prima edizione di Cime tempestose sotto il suo nome, come vediamo qui, ma sarebbe stato assurdo costruire una scena per spiegarlo). E’ normale che Emily si prenda più di qualche libertà sul piano storico; quella imperdonabile è di sminuire la sorella Charlotte, la grande autrice di Jane Eyre (e pazienza poi per la terza sorella, Anne): sembra quasi che Emily sia la sola scrittrice in famiglia. Ma ciò che veramente importa a Frances O’Connor è di mettere in risalto la solitudine di Emily, spiritualmente isolata, soprannominata “la strana”, che si permette di scherzare sul sermone appena sentito e su Dio. L’impressionante scena in cui un gioco mettendosi una maschera per far indovinare chi si imita diventa, quando tocca a lei, quasi una seduta spiritica con l'evocazione della madre morta riprende l’elemento gotico di Cime tempestose, e non per caso. Al centro del film sta il rapporto di Emily col debole curato Weightman, suo indeciso amante, che l’abbandonerà, ma soprattutto quello col fratello Branwell (un po’ romanticizzato rispetto all’individuo sgradevole che era), scrittore fallito, pittore (questo nel film si vede poco), scioperato ammiratore di Shelley. pecora nera della famiglia, ma l’unico che la capisce, suo mentore circa la libertà di pensiero e suo complice in anarchiche avventure.
Il loro affetto assume, specialmente da parte di Branwell, tratti incestuosi (“my love”) e si capisce subito dove ci porta questo concetto: a Cime tempestose, a Heathcliff e Catherine, che non sono fratelli di sangue ma come fratello e sorella sono cresciuti insieme. Così, non solo in accenni minimi (la finestra aperta nel finale) ma nell’impianto generale il film contiene in filigrana il romanzo; e questo, realizzato senza forzare l'elemento biografico, è il suo tratto di originalità. Non appaiono quindi meramente illustrative le immagini della brughiera mentre vediamo Emily scrivere: il film sa trasmettere il senso del paesaggio, il genius loci, di cui Emily Brontë intesse con potenza la sua opera.

lunedì 19 giugno 2023

Denti da squalo

Davide Gentile

Realismo magico” non è solo un’etichetta per scrittori sudamericani superati ma ha un ruolo nella letteratura italiana (Massimo Bontempelli); se ne trova traccia pure in vari registi del giovane cinema italiano, fra cui Gabriele Mainetti, che è anche produttore di Denti da squalo, esordio nel lungometraggio di Davide Gentile.
Tratto da una sceneggiatura vincitrice al premio Solinas, Denti da squalo è un racconto di formazione, in cui il tredicenne Walter fa i conti con se stesso e con la perdita del padre. Costui, un ex malavitoso che aveva deciso di darsi a una vita onesta, è morto in un incidente sul lavoro; il ragazzino lo disprezza per questo mentre lo ammira per la sua vita precedente di “squalo”, cioè di “duro” che fa paura a tutti. Ma c’è anche uno squalo vero nel film, tenuto nella piscina della villa abbandonata di un leggendario boss locale, il Corsaro. Mentre Walter, in lite con sua madre, entra malgrado la giovane età in una banda di piccoli criminali del litorale romano, il rapporto empatico con lo squalo, al centro della storia, la dimensione “fiabesca” della villa, le apparizioni del padre morto trasportano il film in una dimensione fra il reale e l’irreale.
Se il dialogo è un po’ troppo consapevole, e alcune soluzioni narrative un po’ ovvie, il film possiede un'indubbia energia. Ovviamente l’elemento fantastico insito gli consente di risolvere un'impresa difficoltosa sul piano logico (la liberazione dello squalo) semplicemente giocando sull’ellissi. Davide Gentile, che ha lavorato a lungo nella pubblicità, sa girare, e mostra una buona direzione degli attori. I personaggi (Walter, la madre, l’amico teppista Carlo) non sono nuovissimi ma sono delineati con abilità. Va segnalato anche il bel montaggio, molto netto, molto funzionale, di Tommaso Gallone.

(Messaggero Veneto)

sabato 10 giugno 2023

Prigione 77

Alberto Rodriguez 

Il regista Alberto Rodriguez è noto da noi in particolare per La isla mínima, un bel thriller su due poliziotti che indagano su un serial killer nella Spagna più profonda. Rodriguez (sempre col suo co-sceneggiatore fisso Rafael Cobos) usa il cinema di genere come un pretesto per analizzare la società spagnola. Ora ritorna con l’interessante Prigione 77, un film carcerario a sfondo politico, basato su fatti veri.
Siamo nel 1976: arrestato per un furto in ditta, che ha commesso ma che un complice altolocato ha fatto apparire più grande, il giovane contabile Manuel (Miguel Herrán) precipita nell’inferno delle prigioni spagnole, fra corruzione e violenza delle guardie (se vuoi un materasso devi pagare, se protesti ti riempiono di botte). Franco è appena morto, si parla di democrazia, ma l'impianto carcerario rimane assolutamente franchista. I prigionieri politici vengono rilasciati ma per i comuni, “nada”. Nasce una sorta di sindacato dei prigionieri che chiede l'amnistia; però Manuel e il suo compagno di cella Pino, portati via di notte per trasferirli in un altro carcere che è un vero luogo di tortura, pagano il prezzo di una repressione feroce. 
Una strana mancanza del film è che ignora, non totalmente ma certo largamente, la risposta fuori, con manifestazioni di adesione e veglie nella strade davanti al carcere (eppure, che ci fossero, non lo dice solo la logica ma anche le fotografie – autentiche – dei titoli di coda).
La descrizione della vita interna della prigione dal punto di vista dei carcerati, e in particolare di Manuel che inizialmente non si ritiene uguale agli altri, è l’aspetto migliore del film (nel ruolo di Pino, ottimo Javier Gutiérrez, visto anche ne La isla mínima). Prigione 77 non è un thriller, come pure è stato detto: è un solido film di impegno sociale, realizzato con partecipazione e capacità descrittiva. I due sceneggiatori Rodriguez e Cobos vogliono ficcarci dentro tutto, come nei film del Marvel Cinematic Universe, ma finché la storia tiene, va tutto bene. Anche nella regia di Alberto Rodriguez, in Prigione 77 ritroviamo caratteristiche già presenti ne La isla mínima come l’uso del drone per inquadrature perpendicolari molto dall’alto, tali che il paesaggio sottostante diventa un reticolo (se viene in mente il David Lynch di Una storia vera, il riferimento non è tanto ozioso, perché La isla mínima mostrava che Lynch ha effettivamente un’influenza su Rodriguez).
Il problema si pone a tre quarti del film, quando una brusca svolta – ma brusca davvero – crea un vero cambio di paradigma nella logica dei generi. Manuel perde d’un colpo la fede nella lotta dell’associazione dei carcerati, e il film diventa un film di evasione dal carcere, con Manuel, Pino e altri che scavano la classica galleria – tutto concentrato nell’ultimo quarto di durata, anche con un’evidente accelerazione narrativa. Non sarebbe tanto un difetto in sé, ma questa sproporzione di tempo fra le due parti (sarebbero state necessari, per bilanciarsi, come minimo, un’ora e un quarto contro tre quarti d’ora) apre una grave falla sul piano dell’unità artistica.

sabato 3 giugno 2023

Rapito

Marco Bellocchio

Rapito è il miglior film di Marco Bellocchio fin dai tempi di Sangue del mio sangue – a parte il magnifico non-fiction Marx può aspettare – superando d’un balzo alcune opere interessanti ma meno convincenti (compreso, a minoritario parere di chi scrive, Esterno notte, decisamente inferiore rispetto al capolavoro sullo stesso caso Moro Buongiorno, notte del 2003). Più che gli ultimi film, Rapito appare come una summa convincente dei temi bellocchiani. E’ un film in costume su una storia vera che si svolge nell’arco di un quarto di secolo, dal 1858, cominciando nello Stato della Chiesa e finendo nella Roma italiana. Il cinema di Bellocchio è cinema di pulsioni e di rottura narrativa inserite nella bellezza assoluta della forma; come per esempio ne La balia, qui l'aderenza storica contribuisce a dare una griglia a questa dialettica. Com’è noto, il film è la storia del “rapimento di Stato” del bambino ebreo Edgardo Mortara. Una domestica cattolica lo aveva battezzato segretamente quand’era in culla; alcuni anni dopo, allontanata dalla famiglia Mortara per dei piccoli furti, ha rivelato il segreto (per soldi) al Santo Uffizio; e questo, dichiarando che il bambino ora è cristiano, lo strappa alla famiglia per allevarlo nella fede cattolica.
Appare già nei dettagli del rapimento del piccolo Edgardo (Enea Sala) – la corsa in carrozza nella notte, il viaggio in barca nella nebbia – quell’elemento gotico che è così presente in Bellocchio (ne è un manifesto, per fare un titolo, Il regista di matrimoni). Ma dal punto visivo – nella bellissima fotografia di Francesco Di Giacomo – bisogna segnalare innanzitutto l’uso ritornante di strutture architettoniche in esterni (facciate di chiese) o interni in inquadrature frontali, centrate, opprimenti, che riempiono lo schermo e schiacciano la vista. Queste inquadrature ossessive ben rappresentano il peso delle costruzioni psicologiche che pesano sulla vita dei personaggi. Anche dopo la morte del papa: vedi il “peso” visivo di Castel Sant’Angelo sullo sfondo, qui però in campo lungo, alla fine della scena della “bestemmia” e della fuga di Edgardo adulto (Leonardo Maltese) durante il funerale di Pio IX, sulla quale ritorneremo. Ovviamente lo stesso vale per il muro di Porta Pia, che però (con simbolismo un po’ ovvio ma forse inevitabile) crolla sotto le cannonate italiane del 20 settembre 1870.

Il rapimento del piccolo Edgardo diventa una lotta impari tra gli ebrei e la Chiesa, nonché un caso internazionale, con il papa Pio IX (Paolo Pierobon) che si contrappone al mondo, anche a parte di quello cattolico, in una specie di solipsismo sacro. Dall’altra parte stanno i coniugi Mortara (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi). Si crea perfino un elemento di tensione fra il padre e la madre, che ci fa temere (“temere” perché è impossibile non sentire un’adesione simpatetica) la rottura della famiglia. Non perché il padre abbia un atteggiamento compromissorio: ma riconosce con dolore un principio di realtà che le donne di Bellocchio non accettano mai.
Marco Bellocchio è in toto un figlio del Sessantotto, non per tematiche specifiche o perché ne riprenda l’ingenuità politica, ma per un principio mai mutato nel suo cinema: l’opposizione irriducibile alla “legge del Padre” e all’istituzione – a onta dei consigli “riformisti”, dallo psichiatra di Vincere al portavoce degli ebrei romani nel presente film. In tutto il suo cinema la donna, l’elemento femminile, è il grande portatore di questa irriducibilità. Qui la rappresenta Marianna Mortara, che nell’incontro con Edgardo gli strappa la catenella con la croce cristiana e la getta a terra (come già in un passaggio di Sangue del mio sangue).

Rapito è un film disperato: non perché è la cronaca di una prepotenza di Stato ma perché è il grido di una scissione, il lutto di un'anima, con la stessa forza, o quasi, di Vincere (dove essa si fondeva con la nevrosi di una nazione). Ci pone di fronte a un mistero: la trasformazione di Edgardo da rapito a credente – a iniziare dal rapporto col crocifisso, il primo segno della religione cristiana che lo ha colpito da piccolo. Va detto che un tema sotteso del film è la riflessione sulla potenza della parola, terribilmente importante in Bellocchio. Non è, quello di Edgardo, un lungo lavaggio del cervello, non è una sindrome di Stoccolma: è una fascinazione che inizia subito (le soggettive delle statue in chiesa non sono solo uno sguardo di scoperta).
Questa scissione dell’anima appare già nella strana duplicità del bambino, con la sua freddezza negli incontri coi genitori, che si rompe solo, a sorpresa, alla fine dell’incontro con la madre. Questo ci fa capire come il grande tema del cinema di Bellocchio, il riconoscimento impossibile, possa essere contenuto in realtà nel tema dell’identità.
Ritorna in Rapito l’elemento visionario che caratterizza il cinema di Bellocchio. Accennato nelle vignette satiriche che si animano, esplode nell’incubo di papa Pio IX su un gruppo di ebrei con addosso i taled, gli scialli rituali, che circondano il suo letto e lo circoncidono; nell’apparizione onirica dei genitori accanto al letto di Edgardo adulto, presagio di morte (“Edgardo, noi ce ne andiamo”, dice il padre nel sogno); soprattutto, nella vivificazione allucinatoria quando Edgardo bambino va di notte in chiesa, si arrampica fino alla grande statua del crocefisso, strappa i chiodi dalle mani e dai piedi, e dopo un intenso campo/controcampo il Cristo si anima, si alza, scende dalla croce, si toglie la corona di spine. Nel nome del padre conteneva un’allucinazione simile con la statua della Madonna. Solo che qui il Cristo volta le spalle e si allontana.

Il cinema di Bellocchio si situa in modo bruciante entro due poli: la Legge del Padre e la ribellione. Il personaggio di Edgardo è ancora più complesso perché si dibatte fra due Leggi e due figure di padri. Perché al centro del film stanno (ricordiamo che il cinema di Bellocchio è un cinema della ricerca/dell’uccisione del padre) stanno due figure di padri, paralleli e contrapposti: il padre carnale Mortara e il papa Pio IX. Sigmund Freud leggerebbe qualcosa (già lo fa il papa stesso) nella foga con cui Edgardo adulto, precipitandosi su di lui per baciargli la mano, lo fa cadere.
Non è per caso che il film sia così fortemente giocato sul parallelismo, per esempio nel montaggio parallelo della messa in latino cui assiste Edgardo e del rito ebraico in casa Mortara. Connesso al parallelismo è l’uso frequente della replica, non in modo intellettualistico ma piuttosto giocato in analogie nascoste. Alcuni esempi: nel gioco a nascondino dei seminaristi, Pio IX per scherzo prende Edgardo e lo nasconde sotto le proprie vesti; e questo è un raddoppiamento rispetto alla scena drammatica dell’inizio in cui era stata la madre a nasconderlo sotto la gonna sperando di sottrarlo alla cattura. Ancora: segue la scena dell’insurrezione di Bologna, aperta con suore e pretini in fuga che richiamano visualmente il gioco ad acchiapparella della precedente. E ancora: vediamo la caduta della statua di San Pietro abbattuta, e subito dopo, analogia ma anche diminutio, una caduta di Pio IX in preda a un attacco epilettico.

Abbiamo menzionato la ribellione. Essa compare nel gesto di Edgardo, subito dopo il rapimento, di recitare la preghiera ebraica nel letto di nascosto, e si esplicita alla fine dell’incontro con la madre: dove il bambino rimane distaccato come nell'incontro precedente col padre, anche quando lei gli strappa la croce; ma poi d'improvviso, con una subitaneità sconvolgente, corre da lei e grida che dice le preghiere ebraiche ogni sera e implora “Voglio tornare dai miei fratelli!”
Questo tuttavia rientrerebbe ancora nei canoni del realismo psicologico. Molto più importante è la stupefacente scena che ha luogo dopo un’ellissi di dieci anni, con Edgardo ora adulto e convintamente cattolico, dopo la presa di Roma e dopo che ha rifiutato di tornare alla famiglia (“Il battesimo mi ha salvato”). Ora Pio IX è morto; durante la traslazione della salma al Verano, nel 1881, la plebaglia attacca il corteo e vuole buttare il cadavere nel Tevere. Edgardo è nel corteo e si batte per difendere il carro funebre – importante il suo grido “E’ morto! E’ morto!” – ma poi all’improvviso cambia posizione e grida “Sì, lo buttiamo nel Tevere, ‘sto porco di un papa!”. Poi fugge. E’, questo, un momento centrale del film, dove si ripete quell’esplosione ricorrente nel cinema di Bellocchio che è la bestemmia. Un momento che che non rappresenta una rovesciamento di posizione del personaggio, il quale infatti rimane nella chiesa cattolica (cercherà persino di battezzare la madre in punto di morte), bensì, ancora, la sua scissione. Infatti, segue una sequenza conclusiva terribile. La madre è sul letto di morte (il padre è morto da tempo) ed Edgardo si presenta in casa Mortara per la prima volta. Ben accolto da fratelli e sorelle, viene portato in camera della madre, e fa per battezzarla con l'acqua santa. Lei gli ferma la mano: "Io sono nata ebrea e morirò ebrea"; si copre il viso, recita la preghiera ebraica e muore. 
La splendida inquadratura finale presenta, in un bilanciamento dell'immagine, la sintesi visuale di un'unità irrevocabilmente spezzata, attraverso un bellissimo surcadrage. Nell'apertura dello spazio a sinistra vediamo Edgardo (attaccato dal fratello) accasciato; in quello analogo a destra la camera della madre morta; e al centro in primo piano, ma non come elemento di mediazione, quel tavolo che nel corso del film ha rappresentato l'unità familiare (anche sotto il profilo religioso) ma ora è vuoto e abbandonato. 

Premesso che tutta la storia cinematografica di Bellocchio, da I pugni in tasca a Marx può aspettare, ce lo rivela come il più profondamente, e dolorosamente, autobiografico dei grandi registi italiani (non l’ovvietà mnemonica di Fellini, non il maledettismo un po’ compiaciuto di Pasolini, e neppure la Aufhebung quasi serena di Bertolucci): l’ipotesi è che Bellocchio veda in Edgardo qualcosa di analogo alla propria fascinazione – una repulsione che contiene un elemento di attrazione – verso il cattolicesimo e la sua pompa (fondamentale in questo senso era già Nel nome del padre). Questo regista ateo ha sempre sentita fortissima la presenza della religione cattolica – e qui possiamo ripensare non solo alla sua educazione dai Barnabiti ma alla madre religiosissima, ossessionata dal peccato, di cui ci racconta in Marx può aspettare. E’ uno dei tratti che lo apparentano a Buñuel. Ciò lancia forse una luce, a contrariis, sulla scissione di Edgardo? Quel ch’è certo, lo sguardo su questa scissione – che non arriva a risolverla, ma la presenta con una profondità che potremmo definire quasi shakespeariana – è la ricchezza maggiore di un film molto ricco.