Marco Bellocchio
Rapito
è il miglior film di Marco Bellocchio fin dai tempi di Sangue del
mio sangue – a parte il magnifico non-fiction Marx può aspettare –
superando d’un balzo alcune opere interessanti ma meno convincenti
(compreso, a minoritario parere di chi scrive, Esterno notte,
decisamente inferiore rispetto al capolavoro sullo stesso caso Moro
Buongiorno, notte del 2003). Più
che gli ultimi film, Rapito appare come una summa convincente dei temi
bellocchiani. E’ un film in costume su una storia vera che si
svolge nell’arco di un quarto di secolo, dal 1858, cominciando
nello Stato della Chiesa e finendo nella Roma italiana. Il cinema di
Bellocchio è cinema di pulsioni e di rottura narrativa inserite
nella bellezza assoluta della forma; come per esempio ne La balia, qui l'aderenza storica contribuisce a dare una griglia a questa
dialettica. Com’è noto, il film è la storia del “rapimento di
Stato” del bambino ebreo Edgardo Mortara. Una domestica cattolica
lo aveva battezzato segretamente quand’era in culla; alcuni anni
dopo, allontanata dalla famiglia Mortara per dei piccoli furti, ha
rivelato il segreto (per soldi) al Santo Uffizio; e questo,
dichiarando che il bambino ora è cristiano, lo strappa alla famiglia
per allevarlo nella fede cattolica.
Appare
già nei dettagli del rapimento del piccolo Edgardo (Enea Sala) –
la corsa in carrozza nella notte, il viaggio in barca nella nebbia –
quell’elemento gotico che è così presente in Bellocchio (ne è un
manifesto, per fare un titolo, Il regista di matrimoni). Ma dal punto
visivo – nella bellissima fotografia di Francesco Di Giacomo –
bisogna segnalare innanzitutto l’uso ritornante di strutture
architettoniche in esterni (facciate di chiese) o interni in
inquadrature frontali, centrate, opprimenti, che riempiono lo schermo
e schiacciano la vista. Queste inquadrature ossessive ben
rappresentano il peso delle costruzioni psicologiche che pesano sulla
vita dei personaggi. Anche dopo la morte del papa: vedi il “peso”
visivo di Castel Sant’Angelo sullo sfondo, qui però in campo
lungo, alla fine della scena della “bestemmia” e della fuga di
Edgardo adulto (Leonardo Maltese) durante il funerale di Pio IX,
sulla quale ritorneremo. Ovviamente lo stesso vale per il muro di
Porta Pia, che però (con simbolismo un po’ ovvio ma forse
inevitabile) crolla sotto le cannonate italiane del 20 settembre
1870.
Il
rapimento del piccolo Edgardo diventa una lotta impari tra gli ebrei
e la Chiesa, nonché un caso internazionale, con il papa Pio IX
(Paolo Pierobon) che si contrappone al mondo, anche a parte di quello
cattolico, in una specie di solipsismo sacro. Dall’altra parte
stanno i coniugi Mortara (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi). Si
crea perfino un elemento di tensione fra il padre e la madre, che ci
fa temere (“temere” perché è impossibile non sentire
un’adesione simpatetica) la rottura della famiglia. Non perché il
padre abbia un atteggiamento compromissorio: ma riconosce con dolore
un principio di realtà che le donne di Bellocchio non accettano mai.
Marco
Bellocchio è in toto un figlio del Sessantotto, non per tematiche
specifiche o perché ne riprenda l’ingenuità politica, ma per un
principio mai mutato nel suo cinema: l’opposizione irriducibile
alla “legge del Padre” e all’istituzione – a onta dei
consigli “riformisti”, dallo psichiatra di Vincere al portavoce
degli ebrei romani nel presente film. In tutto il suo cinema la
donna, l’elemento femminile, è il grande portatore di questa
irriducibilità. Qui la rappresenta Marianna Mortara, che
nell’incontro con Edgardo gli strappa la catenella con la croce
cristiana e la getta a terra (come già in un passaggio di Sangue del mio
sangue).
Rapito
è un film disperato: non perché è la cronaca di una prepotenza di
Stato ma perché è il grido di una scissione, il lutto di un'anima,
con la stessa forza, o quasi, di Vincere (dove essa si fondeva con la
nevrosi di una nazione). Ci pone di fronte a un mistero: la
trasformazione di Edgardo da rapito a credente – a iniziare dal
rapporto col crocifisso, il primo segno della religione cristiana che
lo ha colpito da piccolo. Va detto che un tema sotteso del film è la
riflessione sulla potenza della parola, terribilmente importante in
Bellocchio. Non è, quello di Edgardo, un lungo
lavaggio del cervello, non è una sindrome di Stoccolma: è una
fascinazione che inizia subito (le soggettive delle statue in chiesa
non sono solo uno sguardo di scoperta).
Questa
scissione dell’anima appare già nella strana duplicità del
bambino, con la sua freddezza negli incontri coi genitori, che si
rompe solo, a sorpresa, alla fine dell’incontro con la madre.
Questo ci fa capire come il grande tema del cinema di Bellocchio, il
riconoscimento impossibile, possa essere contenuto in realtà nel
tema dell’identità.
Ritorna
in Rapito l’elemento visionario che caratterizza il cinema di
Bellocchio. Accennato nelle vignette satiriche che si animano,
esplode nell’incubo di papa Pio IX su un gruppo di ebrei con
addosso i taled, gli scialli rituali, che circondano il suo letto e
lo circoncidono; nell’apparizione onirica dei genitori accanto al
letto di Edgardo adulto, presagio di morte (“Edgardo, noi ce ne
andiamo”, dice il padre nel sogno); soprattutto, nella
vivificazione allucinatoria quando Edgardo bambino va di notte in
chiesa, si arrampica fino alla grande statua del crocefisso, strappa
i chiodi dalle mani e dai piedi, e dopo un intenso campo/controcampo
il Cristo si anima, si alza, scende dalla croce, si toglie la corona
di spine. Nel nome del padre conteneva un’allucinazione simile con
la statua della Madonna. Solo che qui il Cristo volta le spalle e si
allontana.
Il
cinema di Bellocchio si situa in modo bruciante entro due poli: la
Legge del Padre e la ribellione. Il personaggio di Edgardo è ancora
più complesso perché si dibatte fra due Leggi e due figure di
padri. Perché al centro del film stanno (ricordiamo che il cinema di
Bellocchio è un cinema della ricerca/dell’uccisione del padre)
stanno due figure di padri, paralleli e contrapposti: il padre
carnale Mortara e il papa Pio IX. Sigmund Freud leggerebbe qualcosa
(già lo fa il papa stesso) nella foga con cui Edgardo adulto,
precipitandosi su di lui per baciargli la mano, lo fa cadere.
Non
è per caso che il film sia così fortemente giocato sul
parallelismo, per esempio nel montaggio parallelo della messa in
latino cui assiste Edgardo e del rito ebraico in casa Mortara.
Connesso al parallelismo è l’uso frequente della replica, non in modo intellettualistico ma piuttosto giocato in
analogie nascoste. Alcuni esempi: nel gioco a nascondino dei
seminaristi, Pio IX per scherzo prende Edgardo e lo nasconde sotto le
proprie vesti; e questo è un raddoppiamento rispetto alla scena
drammatica dell’inizio in cui era stata la madre a nasconderlo
sotto la gonna sperando di sottrarlo alla cattura. Ancora: segue la
scena dell’insurrezione di Bologna, aperta con suore e pretini in
fuga che richiamano visualmente il gioco ad acchiapparella della
precedente. E ancora: vediamo la caduta della statua di San Pietro
abbattuta, e subito dopo, analogia ma anche diminutio, una caduta di
Pio IX in preda a un attacco epilettico.
Abbiamo
menzionato la ribellione. Essa compare nel gesto di Edgardo, subito
dopo il rapimento, di recitare la preghiera ebraica nel letto di
nascosto, e si esplicita alla fine dell’incontro con la madre: dove
il bambino rimane distaccato come nell'incontro precedente col padre,
anche quando lei gli strappa la croce; ma poi d'improvviso, con una
subitaneità sconvolgente, corre da lei e grida che dice le preghiere
ebraiche ogni sera e implora “Voglio tornare dai miei fratelli!”
Questo
tuttavia rientrerebbe ancora nei canoni del realismo psicologico.
Molto più importante è la stupefacente scena che ha luogo dopo
un’ellissi di dieci anni, con Edgardo ora adulto e convintamente
cattolico, dopo la presa di Roma e dopo che ha rifiutato di tornare
alla famiglia (“Il battesimo mi ha salvato”). Ora Pio IX è
morto; durante la traslazione della salma al Verano, nel 1881, la
plebaglia attacca il corteo e vuole buttare il cadavere nel Tevere.
Edgardo è nel corteo e si batte per difendere il carro funebre –
importante il suo grido “E’ morto! E’ morto!” – ma poi
all’improvviso cambia posizione e grida “Sì, lo buttiamo nel
Tevere, ‘sto porco di un papa!”. Poi fugge. E’, questo, un
momento centrale del film, dove si ripete quell’esplosione
ricorrente nel cinema di Bellocchio che è la bestemmia. Un momento
che che non rappresenta una rovesciamento di posizione del
personaggio, il quale infatti rimane nella chiesa cattolica (cercherà
persino di battezzare la madre in punto di morte), bensì, ancora, la
sua scissione. Infatti, segue una sequenza conclusiva terribile. La madre è sul letto di morte (il padre è morto da tempo) ed Edgardo si presenta in casa Mortara per la prima volta. Ben accolto da fratelli e sorelle, viene portato in camera della madre, e fa per battezzarla con l'acqua santa. Lei gli ferma la mano: "Io sono nata ebrea e morirò ebrea"; si copre il viso, recita la preghiera ebraica e muore.
La splendida inquadratura finale presenta, in un bilanciamento dell'immagine, la sintesi visuale di un'unità irrevocabilmente spezzata, attraverso un bellissimo surcadrage. Nell'apertura dello spazio a sinistra vediamo Edgardo (attaccato dal fratello) accasciato; in quello analogo a destra la camera della madre morta; e al centro in primo piano, ma non come elemento di mediazione, quel tavolo che nel corso del film ha rappresentato l'unità familiare (anche sotto il profilo religioso) ma ora è vuoto e abbandonato.
Premesso
che tutta la storia cinematografica di Bellocchio, da I pugni in
tasca a Marx può aspettare, ce lo rivela come il più profondamente,
e dolorosamente, autobiografico dei grandi registi italiani (non
l’ovvietà mnemonica di Fellini, non il maledettismo un po’
compiaciuto di Pasolini, e neppure la Aufhebung quasi serena di
Bertolucci): l’ipotesi è che Bellocchio veda in Edgardo qualcosa
di analogo alla propria fascinazione – una repulsione che contiene
un elemento di attrazione – verso il cattolicesimo e la sua pompa
(fondamentale in questo senso era già Nel nome del padre). Questo
regista ateo ha sempre sentita fortissima la presenza della religione
cattolica – e qui possiamo ripensare non solo alla sua educazione
dai Barnabiti ma alla madre religiosissima, ossessionata dal peccato,
di cui ci racconta in Marx può aspettare. E’ uno dei tratti che lo
apparentano a Buñuel. Ciò lancia forse una luce, a contrariis,
sulla scissione di Edgardo? Quel ch’è certo, lo sguardo su questa
scissione – che non arriva a risolverla, ma la presenta con una
profondità che potremmo definire quasi shakespeariana – è la
ricchezza maggiore di un film molto ricco.