Frances O'Connor
Ci
si lamenta spesso che il cinema d’oggi tratti gli spettatori come
bambini; un benaccetto esempio opposto è il bel film biografico
Emily, su Emily Brontë, l'autrice di Cime tempestose (con un’ottima
interpretazione di Emma Mackey). Scritto e diretto da Frances
O’Connor (che nel 1999 come attrice aveva interpretato Mansfield
Park, tratto da un altro genio femminile dell’Ottocento, Jane
Austen), Emily è un film ellittico, caratterizzato da un montaggio
secco, diretto, verrebbe voglia di dire “militare”, nel passaggio
da una scena all’altra. Una caratteristica del film è l’impiego
insistito, psicologico del primissimo piano; c’è sempre una
pregnanza di linguaggio, che va dall'uso della macchina a mano quando
Emily seppellisce la maschera (in soggettiva della maschera stessa!)
all'impiego del dettaglio quando la pupilla di Emily si dilata sotto
l’effetto dell’oppio. Ma va citato anche l’eccellente uso del
sonoro: vedi, per esempio, la bolla di silenzio che ingloba Emily
dopo che la sorella le ha letto la lettera con la notizia della morte
del suo ex amante segreto, e lei si allontana dal giardino; poi entra
il suono del vento della brughiera sul suo svenimento in camera.
Un
film storico per forza di cose deve smussare e semplificare (Emily
Brontë non pubblicò la prima edizione di Cime tempestose sotto il
suo nome, come vediamo qui, ma sarebbe stato assurdo costruire una
scena per spiegarlo). E’ normale che Emily si prenda più di
qualche libertà sul piano storico; quella imperdonabile è di
sminuire la sorella Charlotte, la grande autrice di Jane Eyre (e
pazienza poi per la terza sorella, Anne): sembra quasi che Emily sia
la sola scrittrice in famiglia. Ma ciò che veramente importa a
Frances O’Connor è di mettere in risalto la solitudine di Emily,
spiritualmente isolata, soprannominata “la strana”, che si
permette di scherzare sul sermone appena sentito e su Dio.
L’impressionante scena in cui un gioco mettendosi una maschera per
far indovinare chi si imita diventa, quando tocca a lei, quasi una
seduta spiritica con l'evocazione della madre morta riprende
l’elemento gotico di Cime tempestose, e non per caso. Al centro del
film sta il rapporto di Emily col debole curato Weightman, suo
indeciso amante, che l’abbandonerà, ma soprattutto quello col
fratello Branwell (un po’ romanticizzato rispetto all’individuo
sgradevole che era), scrittore fallito, pittore (questo nel film si
vede poco), scioperato ammiratore di Shelley. pecora nera della
famiglia, ma l’unico che la capisce, suo mentore circa la libertà
di pensiero e suo complice in anarchiche avventure.
Il
loro affetto assume, specialmente da parte di Branwell, tratti
incestuosi (“my love”) e si capisce subito dove ci porta questo
concetto: a Cime tempestose, a Heathcliff e Catherine, che non sono
fratelli di sangue ma come fratello e sorella sono cresciuti insieme.
Così, non solo in accenni minimi (la finestra aperta nel finale) ma
nell’impianto generale il film contiene in filigrana il romanzo; e
questo, realizzato senza forzare l'elemento biografico, è il suo
tratto di originalità. Non appaiono quindi meramente illustrative le
immagini della brughiera mentre vediamo Emily scrivere: il film sa
trasmettere il senso del paesaggio, il genius loci, di cui Emily
Brontë intesse con potenza la sua opera.
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