I fuochi sono spenti, Godzilla è tornato a dormire, ospiti e accreditati sono andati via, e insomma il FEFF 2016, il diciottesimo, è finito. Al Centro Espressioni Cinematografiche cominciano già a circolare le magiche parole “FEFF 19”. Ma intanto, qualche nota sui film dell'edizione appena conclusa… quelli che ho visto, ovviamente, perché la lineup ogni anno è più ricca, e non si può vedere tutto.
Hong
Kong - la culla del FEFF. Il festival ha avuto due clou cogli
ospiti: uno col grande regista giapponese Obayashi Nobuhiko e uno
quando è salito sul palco nientemeno che Sammo Hung. Il suo ritorno
alla regia The Bodyguard è un film sulla vecchiaia
come stanchezza del corpo - il protagonista (Sammo, ça va sans
dire) è un anziano combattente in ritiro, ancora imbattibile ma
che soffre di senilità e dimentica tutto - ma anche come elegia del
cinema hongkonghese di kung fu, che forse appartiene al passato,
forse è una stagione irripetibile sul viale del tramonto – non a
caso compaiono in cameo vecchi grandi volti del cinema hongkonghese.
Ma il kung fu di Sammo è sempre grande, anche se deve affidarsi
molto al montaggio.
E'
orientato al passato, trattandosi di un biopic, anche Ip
Man 3, il terzo capitolo della mega-biografia di Ip Man
diretta da Wilson Yip e interpretata da Donnie Yen. Un film
piacevole, non il migliore della serie; non sono molto amalgamate le
due storie, prima con Donnie Yen e Zhang Jin contro una banda di
criminali, poi in rivalità fra loro per il titolo di Grandmaster
dello stile wing chun. Ma affascina un combattimento di Ip Man
con un sicario thailandese, prima dentro un ascensore e poi per le
scale. E poi, Mike Tyson è un grande e vedere i suoi pugni contro il
kung fu di Donnie Yen vale da solo il prezzo del biglietto.
Non
ho ancora visto Trivisa,
prodotto
da Johnnie To montando insieme tre storie di tre giovani registi
differenti. Ma
il film hongkonghese più importante è stato il
coraggioso e polemico Ten
Years
(vedi
scheda sotto).
Coraggioso
è anche The
Mobfathers,
uno
dei film migliori di
Herman
Yau, regista molto
prolifico
(anche troppo: la sua produzione è molto disuguale, come sa chi ha
visto il
recentissimo
Nessun
Dorma).
Racconta
del piccolo boss delle triadi Chapman To in lotta per l'elezione a
Dragon
Head
–
solo che il
diabolico super-padrino (un memorabile Anthony Wong coi capelli
lunghi e il bastone col pomo a teschio) trama
in
segreto. Nella descrizione delle elezioni manovrate da chi comanda,
non è chi non veda un riferimento che van ben oltre la politica
interna delle triadi!
Cina
continentale –
una
sezione che
ho
seguito
poco. Davvero
modesto Mojin:
The Lost Legend
di Wuershan; film
tratto da
un romanzo
di
Tianxia Bachang
piuttosto
sfortunato,
visto contemporaneamente
ne
è stato tratto
un
altro film
bruttino
e fortemente
derivativo,
Chronicles
of the Ghostly Tribe
di un
irriconoscibile Lu Chuan, che
non è stato selezionato per il festival - ma tra i due non si
saprebbe quale scegliere.
Ci
si può consolare con
Chonqing
Hot Pot
di
Yang
Qing: non un
capolavoro, ma di
livello ben superiore.
Tre
sfigati
padroni
un ristorante in perdita scavano una galleria per allargarlo e
finiscono nel caveau di una banca.
C'è un sacco di soldi, ma non vogliono prenderli e sparire perché
dovrebbero abbandonare le famiglie. Ma
arriva
la rapina alla
stessa
banca di un gruppo di banditi mascherati… Sarà
per
alcuni un pregio, per altri un difetto (paradossalmente, è
un
po' l'uno e un po' l'altro)
la caratteristica principale del film: ovvero il tentativo di
“avviluppare” la
storia in una confezione più o meno artistica, con ellissi e
ritorni temporali (come un Kubrick, The
Killing,
annacquato). Ma ci si diverte, e la fotografia presenta belle
inquadrature di Chongqing (non solo “turistiche”: notevole una
visione
di appartamenti-formicaio).
Saving
Mr. Wu
di Ding Sheng è
un
discreto thriller, interessante
specialmente
per
il suo aspetto metacinematografico (Andy Lau nella parte di se
stesso, a
parte il nome,
rapito da cattivissimi criminali locali!). Molto migliore
The
Dead End
di Cao Baoping, la
vicenda di tre uomini che hanno commesso un crimine sette anni prima,
e cercano di espiare. Il nuovo capo della polizia, pur provando dei
sentimenti verso uno dei tre che è diventato un bravo poliziotto,
arriva alla verità e alla punizione. Il concetto – espresso
all'inizio da una voce fuori campo scandita con i tipici toni solenni
che ci sono familiari dai film storici cinesi – è che non si
sfugge alla colpa.
Taiwan
–
della
“terza
Cina”, ho
visto solo
un
buon horror intelligente, The
Tag-Along
di
Vic Cheng Wei-hao, su
uno spirito della foresta (un mosien,
un incrocio fra una scimmia e una bambina) che possiede una dietro
l'altra varie persone a Taipei. Forse è un po' lento a mettersi in
moto, ma poi trova i suoi punti di forza, e il climax nella foresta è
senz'altro buono. Il messaggio sottinteso – l'importanza dei legami
familiari e di crearne di nuovi – non è invasivo.
Giappone
– che
resta sempre la
miglior cinematografia del cinema asiatico. Okita Shuichi, una
vecchia conoscenza del festival, non smentisce le sue capacità con
The Mohican Comes Home, che si è piazzato al terzo
posto nel premio del pubblico, ma forse avrebbe meritato il primo
(vedi scheda sotto).
Di
altissimo livello è l'amaro
Three Stories of Love di
Hashiguchi Ryosuke. Il film costruisce la sua
narrazione come
a mosaico, dove
bisogna pensare a quei mosaici fotografici fatti di migliaia di
piccoli frammenti di foto che insieme compongono una figura. Qui tre,
corrispondenti ai tre amori del titoli (il terzo viene rivelato nel
finale). L’analogia
va chiarita nel senso che qui sono piccoli frammenti di vita, “lampi
di esistenza”, assemblati in un modo che è all’inizio
volutamente enigmatico (vedi l’apertura che
pare un’intervista, sembra cinéma-vérité)
– ma poi a poco a poco collegandosi compongono un quadro chiaro e
commovente. Condizione della forma narrativa scelta, cioè la
frammentazione, sono il carattere breve dei frammenti e la bruschezza
della conclusione di essi, che è improvvisa, imperativa, spesso
ellittica. Questa
forma di racconto crea una continuità di tipo ipnotico:
si crea un’“affezione” ai personaggi, quella richiesta da
qualunque film, in modo originale e, in qualche modo, potenziato.
Inoltre il procedimento consente al regista e sceneggiatore
Hashiguchi di accumulare “lampi” (riprendo il termine usato
sopra) di una visione generale una visione viva,
e
fondamentalmente pessimistica, del Giappone.
Ancora
tra i film migliori si
segnala l'horror
Creepy, prima
partecipazione al FEFF di Kurosawa Kiyoshi (vedi scheda
sotto).
Molto
buono è Hime-Anole
di Yoshida Keisuke.
Un po' come
Jonathan
Demme
in
Qualcosa di travolgente (Something Wild),
Yoshida parte in chiave di commedia e poi la rovescia in dramma
thriller (peraltro le uccisioni del serial killer Morita, pur assai
grisly e realistiche,
mantengono un sottofondo di feroce buffoneria alla Kitano
Takeshi). Così, un gioco degli equivoci in chiave comica (il
protagonista Hamada Gaku, come si vede almeno da una scena, ha
studiato l'arte interpretativa di Stan Laurel) si ribalta
completamente in chiave nerissima.
Da
citare anche Lowlife Love di Yoshida Keisuke, bel film
con toni di commedia sul filmmaking come passione vitale
("Fare cinema è come innamorarsi di una puttana da strapazzo...
Però non possiamo mica lasciarla sola, quella puttana, giusto?"),
centrato su un regista indipendente disoccupato, che è libertino e
prepotente nella vita quanto sfortunato, per il suo caratteraccio,
nel lavoro. Attorno a lui una vivace descrizione dei suoi
collaboratori, delle sue attrici (pronte a scopare in cambio di una
parte) e di tutto un mondo cinematografico cialtronesco e assatanato.
Un'inquadratura a un certo punto ricorda Imamura - e fa riflettere
che, in fondo, tutto il film ha un sapore un po' alla Imamura, anche
se naturalmente non raggiunge la sua altezza.
Nakamura
Yoshihiro (l' autore dell'ottimo Fish Story) ci offre il
notevole horror The Inerasable. Il suo forte impatto
non deriva solo dall'ottima regia di Nakamura, che mantiene la
narrazione più sul suggerito che sul mostruoso; deriva dalla
costruzione stessa della storia, sceneggiata dal regista da un
romanzo di Ono Fuyumi. Se all'origine delle storie di fantasmi c'è
un torto sepolto, almeno in Occidente siamo abituati a trovarlo in un
singolo fatto da scoprire e riparare. Qui l'investigazione, condotta
attraverso interviste, testimonianze, ricerche d'archivio, è un
andare a ritroso nel tempo da un male all'altro: è un viaggio nel
dolore, una catena di orrori in cui ogni anello rimanda a uno
precedente, e sembra infinito.
Invece
The Kodai Family di Hijikata Masato, tratto da un
manga, è
un film sentimentale, di spirito leggero. Parte
come una commedia di
ufficio,
con l'impiegata
Kie che ama sognare a occhi aperti e che si trova improvvisamente
corteggiata da un vero e proprio principe azzurro: bello, ricco,
gentile, e
sembra
leggerle nel pensiero. Ma
è
la verità: Kodai è
telepatico, come
pure
i
suoi fratelli. Le cose si complicano, prima
perché la
madre si oppone, poi
quando è
Kie ad avere dei
dubbi...
Il
difetto
del
film è
un uso oscillante della CGI: è straripante prima, quando dà corpo
ai sogni a occhi aperti di Kie, poi praticamente sparisce, per
tornare nel finale. Ma
alcuni
dettagli sono gustosissimi: cito un surreale sogno a occhi aperti
sull'America, con le poche parole d'inglese che Kie conosce,
pronunciate con accento giapponese; o
un
altro sogno in ambientazione da film in costume, alla Mizoguchi, con
colori faded
da pellicola di una volta.
Infine
si può citare en passant un film agile, e divertente per
l'ambientazione nel mondo degli autori di manga, quale Bakuman
di One Hitoshi.
Corea
– il suo cinema
non sarà più quello
strepitoso tsunami artistico che ci aveva colpiti e commossi anni fa,
ma si situa sempre a un livello assai buono. Non per nulla il
festival è stato aperto e chiuso da due film coreani. Il primo è il
notevole The Tiger di Park Hoon-jung, che ha destato
qualche perplessità fra i critici coreani ma è un ottimo film;
direi che è anche più bello di Revenant, al quale fa pensare
per alcuni aspetti. Siamo nel 1925 e i giapponesi stanno sterminando
tutte le tigri coreane; è rimasto un solo superstite, un maschio
enorme e dall'intelligenza prodigiosa. Attorno a lui si intrecciano
la vicenda del protagonista (Choi Min-sik) e di suo figlio, quella di
un gruppo di cacciatori coreani e quella dei militari giapponesi
intenzionati a uccidere la tigre. Non è un film di caccia, anche se
ne ha l'emozione; insiste invece sull'analogia fra la tigre e il
protagonista (entrambi hanno perso la famiglia in questa guerra fra
uomini e belve), e sul rapporto complesso fra di loro che data da
anni e si svela nel corso del racconto. Sebbene il film sia
realistico, mantiene un sottofondo mistico in quanto la tigre
rappresenta l'inaccessibile montagna coreana e per estensione la
resistenza della Corea all'occupazione. Questa tigre non è un kami,
è solo un animale molto forte e intelligente, ma lo è a livello
simbolico; rischiava di diventare un'allegoria retorica ma invece è
gestita con molta accortezza.
Il
film di chiusura del festival
è l'eccellente Sori:
Voice from the Heart di Lee
Ho-jae (vedi scheda sotto).
Per pochi voti Sori
non ha soffiato il primo
posto nel premio del pubblico al compatriota A Melody to
Remember di Lee Han,
un'opera molto
commovente sulla storia di
due
fratellini orfani, maschio e femmina, sperduti nella guerra di Corea
e di un coro di bambini orfani messo su da un tenente musicista
dell'esercito; ma con la formazione del coro non finiscono le
traversie. Il
film segue il principio di Charles Dickens di accumulare sventure
(qui
c'è
perfino un losco affarista pedofilo che concepisce la bambina) finché
non si risolvono in
una conclusione positiva – qui, positiva ma dolente per i morti
della guerra. Se
il cinema coreano è già spietato in sé, figurarsi
quando
un dramma del
genere
viene
messo
in scena in modo duro
come
qui.
Quando
il cattivo/buono del film, chiamato Hook perché ha un uncino al
posto della mano, approva
la proposta di formare il
coro e dice
scherzando “Sarà
uno strappalacrime”,
questo è
un momento (l'unico)
di umorismo metanarrativo sul film. E'
un
po' anodina l'interpretazione dell'idol
Yim Siwan (il tenente), mentre è già meglio Lee Hee-jun nel ruolo
(però facile) di Hook. Ma in un film come questo le star sono i
bambini, e naturalmente tutti colpiscono al cuore; in particolare la
piccola Lee Re (la sorellina) è
eccezionalmente
convincente.
Sempre
sul piano della commozione
ma spostato sul versante comedy
è il
grazioso Making
Family di Cho
Jim-mo, in cui un
genietto di nove anni, nato con l'inseminazione artificiale, vorrebbe
avere una famiglia completa. Scopre chi è il suo padre biologico
hackerando i computer della clinica e vola da solo dalla Corea alla
Cina per trovarlo; il padre non vuole saperne
di lui ma il bambino riesce a conquistare il suo affetto e metterlo
insieme alla madre (che si è precipitata a cercarlo). E' una
commedia
vivace,
piena
di umorismo, dolce senza essere zuccherosa.
Il piccolo
attore Mason
Moon ha
una
carica di spontaneità e simpatia estrema; l'inizio, dove serissimo
mostra conoscenze da adulto sull'inseminazione artificiale parlando
con un dottore sconvolto, è da antologia.
In
Corea l'antipatia diffusa verso i politici prepotenti e corrotti
(diamine, sembra l'Italia!) ha provocato un enorme successo di
pubblico per lo splendido Inside Men di Woo
Min-ho. Questo
political
thriller
su un patto di corruzione intrecciato col gangsterismo,
apparentemente invincibile, ha
la compiutezza di esecuzione dei film migliori: grandi
interpretazioni (Lee Byung-hun come gangster, Cho Seung-woo come
prosecutor
e Baek Yun-shik come mellifluo giornalista corrotto); una
sceneggiatura molto efficace, con colpi di scena e rovesciamenti mai
artificiosi; un
dialogo vivace (grande la
battuta ritornante sui Mojito e le Maldive!); una
bellissima fotografia – basta vedere l'inizio nel panorama
ultra-urbano con la presenza del mega-schermo fra i grattacieli – e
che dire della moltiplicazione dei
video nella scena culminante? Non
è solo bella fotografia: Woo Min-ho ha una capacità rilevante di
messa in scena che crea in ogni momento l'immagine giusta.
Meno
incisivo ma pur sempre assai interessante The Exclusive: Beat
the Devil's Tattoo di Roh Deok (lo strano sottotitolo,
chi se lo chiedesse, è una citazione da una canzone heavy metal), un
thriller che è al contempo una parodia passabilmente dark del
sistema dell'informazione.
Mi
spiace di aver perso The Silenced di Lee Hae-young, ma
l'horror coreano è comunque ben rappresentato da The Priests
di Jang Jae-hyon (vedi scheda sotto). Cito infine
Assassination, di Choi Dong-hoon, un'epica avventurosa
sulla resistenza coreana alla colonizzazione giapponese negli anni
'30; Choi non è qui allo stesso livello del suo bellissimo
The Thieves, ma provvede
un piacevolissimo spettacolo. Solo
passabile Wonderful Nightmare
di Kang Hyo-jin, la cui cosa migliore è il grande caratterista Kim
Sang-ho (presente anche in The
Tiger) nel ruolo del
direttore di un burocratico oltretomba.
Filippine
–
di
cui pochi
film sono riusciti a superare l'affollata selezione di quest'anno, ma
è uno dei migliori film filippini che io abbia avuto modo di vedere
di recente Apocalypse Child di Mario Cornejo. E'
un po' più spostato sul versante arthouse che su quello
popular tipico del festival, ma non in modo marcato. E' girato
a Baler, dove fu girata la scena del surf di Apocalypse Now
(di qui il titolo), e tanto il surf quanto il ricordo del tournage
del film di Coppola hanno un ruolo centrale. E' un film di atmosfera
e di psicologie, fondato su una serie di “verità nascoste” (non
per nulla si apre con l'evocazione dei miti e leggende di Baler,
“assolutamente veri al 50%”) che girano intorno a cinque
personaggi principali davvero ben scolpiti. La domanda principale è
chi sia il vero padre del surfista Ford, un tipo che dire carefree
è dir poco, come scoprono a loro spese le sue donne. Beninteso,
Apocalypse Child non è una commedia, ma neppure un film
tragico: si potrebbe definire, forse, un “dramma nascosto” nella
sua costruzione da thriller dei sentimenti – quell'elemento
misterioso che avvolge il film e che il finale dissipa solo in parte.
Lo stile è elegante e sono affascinanti certi momenti di asincronia
fra il dialogo e l'immagine (va segnalato il montaggio di Laurence S.
Ang).
Thailandia
– un cinema che offre sempre qualche buona sorpresa. Lascia il
segno l'ottimo The Forest di Paul Spurrier (il
regista è un inglese trapiantato in Thailandia e il film è
interamente thai per ambiente, attori e troupe). Per questo film
raffinato, girato a bassissimo budget, credo che il riferimento
migliore possa essere Truffaut, non tanto per il concetto di “ragazzo
selvaggio” quanto, più in generale, per lo sguardo amichevole e
non privo di una compassione dolorosa sul mondo infantile. E' la
storia di una bambina che non parla, soggetta a bullismo a scuola,
che nella foresta fa la conoscenza di un ragazzino misterioso che
vive e pare cresciuto lì. Ma niente di bucolico: il ragazzino uccide
(e mangia) coloro che si avventurano nella foresta (nonché una delle
“bulle” per fare un piacere non richiesto alla sua amica). La
storia è interlineata con quella – sfumata, secondaria - di un
insegnante ex monaco e di una insegnante sfiduciata che lo desidera
(c'è un delicato parallelismo fra le storie di queste due coppie).
La conclusione sfuma, ma con delicatezza, nel mistico. E' un film
complesso come contenuto (affronta questioni fondamentali, la realtà,
la fantasia, la morale ecc.) ma semplice e vorrei dire addirittura
piacevole nello svolgimento. In qualche cosa mi ha ricordato (ma
senza fantasy) Beasts of the Southern Wind.
Heart
Attack di Nawapool Thamrongrattanarit, un film che sprizza
intelligenza, attraversato da una vena di triste umorismo nella sua
satira della personalità workaholic, si potrebbe descrivere
in modo dispettosamente sviante come una storia sentimentale in tempo
di guerra. Ove la guerra è quella del corpo contro il suo
possessore. Un giovane graphic designer freelance, maniaco del
lavoro (non si riposa né dorme mai), deve fare i conti con la
ribellione del corpo, che inizia con un'eruzione sulla pelle del
collo e progredisce in modo inarrestabile. Una giovane dottoressa che
lo ha in cura (la brava Davika Hoorne di Pee Mak) cerca di
spingerlo a darsi un po' di tregua per guarire. Tra i due si instaura
un rapporto sfumato, basato sul non detto, raccontato con bella
delicatezza.
Da
salutare il ritorno di Wisit Sasanatieng con Senior
(non bello però come il
suo The Unseeable).
Questo importante regista non fa film puliti e rifiniti
all'americana: fa esplodere le emozioni, non ha paura
dell'effetto marcato, lascia libero spazio al sentimentalismo,
intreccia le linee narrative seguendole come se ciascuna fosse quella
principale, oscilla senza paura fra assoluta serietà ed esplosioni
di umorismo. Senior non è un horror ma piuttosto un thriller
soprannaturale con un sottofondo mélo (fra una ragazza sensitiva e
un fantasma). Il regista spinge le varie linee verso una conclusione
in cui tutti i pezzi vanno a posto (nel modo selvaggio e appassionato
cui accennavo prima – che poi è molto thailandese, del resto). La
sua passione cinefila è dichiarata dall'aprire il film con una
citazione da The Ring e chiuderlo con una citazione sfacciata
di Hitchcock, Vertigo, nella sequenza finale.
Vietnam
– per chiudere.
Diretto da Ham
Tran, Bitcoin Heist ha punti forti (prevalenti)
e punti deboli. E' visibilmente ispirato a Mission: Impossible,
e come tale non si preoccupa del realismo, anzi, in confronto James
Bond sembra Le Carré; però è divertente e si fa vedere senza noia.
Le scene di azione e di sparatoria sono buone, la fotografia è
competente (bella in particolare, anche se fotograficamente poco
coerente col resto, la sparatoria finale fra barche in mare nel
buio). Il difetto è che a volte il film annega in un mare di
techno-babble – ma chi si intende di computer un po' più di
chi scrive potrebbe accettarlo meglio. Un difetto peggiore è uno
iato fra la storia della caccia al primo cattivo e quella, che segue,
della caccia al secondo.
Fantascienza giapponese
– Non
si può chiudere questo articolo senza ricordare questa piccola ma bella
rassegna, accompagnata da un
volume a cura di Mark Schilling, che ha fatto rivedere alcuni film
del maestro Honda Ishiro, ma soprattutto ha avuto il merito di far
conoscere un genio quale Obayashi Nobuhiko (presente al festival!),
noto fra gli appassionati solo per House (bellissimo, ma
allora che dire di un capolavoro quale Exchange Students?).
Obayashi è uno di quei talenti naturali di cui si dice: fa film
come respira. Il suo approccio surreale e irridentemente libero si è
espresso prima nei cortometraggi sperimentali, poi negli spot
pubblicitari, poi in lungometraggi di allegra originalità. Siccome
ogni tanto salta fuori qualcuno, vestito di nero e coi crisantemi in
mano, a protestare che il cinema è morto, basterebbe fargli vedere
Obayashi (quasi
ottantenne e
ancora in attività) per dimostrargli che il cinema è – come si
dice oltreoceano – still alive and kicking.