Dalibor
Matanić
Il
vicino di casa che incontri sul pianerottolo, il negoziante da cui
vai a comprare il pane, la maestra di tuo figlio – questa nube di
persone che costituiscono il “noi” di un popolo, e sono quelle
che diventano improvvisamente il nemico (e vengono chiamati
“quelli”) quando scoppia una guerra civile. Ne è il fattore più
tragico (e in qualche maniera è oscuramente connesso alla sua
ferocia). Detto per inciso, è la capacità di rappresentazione di
quest'aspetto che è mancata in genere al cinema italiano nella sua
rappresentazione delle due grandi guerre civili della penisola, il
cosiddetto Risorgimento e quella del 1943-45 (con alcune notevoli
eccezioni, di cui la principale è Il Gattopardo).
Non
manca, invece, al bellissimo film di Dalibor Matanić, anche
sceneggiatore, Sole alto (Zvidzan), distribuito dalla
coraggiosa Tucker Film di Udine-Pordenone (purtroppo in versione
doppiata, ma a questo in Italia non c'è rimedio). Un film già
interessante per l'origine: è una coproduzione tra Slovenia,
Croazia e Serbia, paesi ancora profondamente divisi. Analisi morale
della guerra e del dopoguerra sotto il segno dello strazio umano,
strazio della violenza e strazio della memoria, il film scava nel
solco della guerra civile jugoslava raggiungendo un vertice di
dolorosa intensità attraverso tre storie d'amore impossibile
(star-crossed lovers, direbbe il Bardo) fra un giovane croato
e una ragazza serba, sulle sponde di un lago la cui dolcezza (i tuffi
nell'acqua, la festa popolare nel primo episodio) diventa, si
vorrebbe dire, sprecata.
Pur
se scandito in episodi
narrativamente indipendenti, il film gioca
su una serie di elementi
ritornanti, di cui il primo
e più evidente è l'uso
degli stessi (ottimi)
attori, Tihana Lazović
e Goran Marković, nei
ruoli delle tre diverse
coppie protagoniste degli episodi (e ciò
è rispecchiato in diversi
analoghi ritorni di attori in più parti): questa
scelta di casting sta alla
base del film, che è pensato per essa, e lo indirizza
- un
ottimo modo per esprimere
il senso di tragedia collettiva che lo
attraversa.
Sole
alto è diviso in tre capitoli a distanza di dieci anni: 1991,
l'inizio della guerra civile, 2001, i suoi effetti immediati, 2011,
gli effetti a lungo termine. Li dividono due sequenze mute con musica
di cui la prima è una delle pagine più impressionanti del film:
consta di una serie di immagini documentarie, esterni ed interni, di
case distrutte – dove la cosa che mi ha colpito di più è stata
vedere delle antenne satellitari abbandonate e pendenti: a ricordarci
che la guerra civile non si è combattuta in qualche buco barbaro
del terzo mondo ma nel cuore dell'Europa. Il secondo interludio è un
camera-car che mostra la ricostruzione.
Il
film ha un realismo psicologico che in un certo senso si fonde con
l'ottima
fotografia diretta, “fisica”,
luminosa di
Marko Brdar. Molto giocato
sul non detto, sull'implicito che si rivela a poco a poco, Sole
alto è un grande lamento su un
dolore
irreparabile - ma che
tuttavia va riparato. La
conclusione aperta del terzo episodio (o meglio, più che aperta,
ellittica, perché si intuisce bene il prosieguo), che viene dopo una
grande pagina di recitazione muta a due, apporta alla conclusione un
fragile filo di speranza nell'universo cupo
del film.
La
caratteristica del film di Matanić
è la
sua imponente
intessitura di rimandi,
“figure” che ritornano e si richiamano,
come fili rossi visuali, in
collegamento con il ritornare dei volti nel grande, quasi maestoso
tema narrativo. Sono luoghi:
il lago attorno al quale si svolgono le tre storie, il chiosco, i
cimiteri. Sono azioni:
il rimestare nervosamente nel piatto, che ritorna in tutti e tre gli
episodi, l'inseguire correndo un'auto, e in primo luogo il bagno nel
lago, ripreso in inquadrature subacquee in tutti gli episodi, che fa da vero trait
d'union. Sono anche battute di dialogo: “Mi mancherà tutto questo”
dice Jelena nel primo episodio in riva al lago, “Mi è mancato
questo” dice Nataša ritornata al lago nel secondo. E
sono, con un'evidenza nascosta e potente, animali. A volte essi hanno
un valore narrativo: una delle immagini più potenti del film si ha
quando risuona il primo sparo e vediamo un gregge di pecore che
voltano la testa in quella direzione e restano immobili, come
raggelate.
Ricordo
anche, nel secondo episodio - sulla ricostruzione materiale di una
casa che non riesce a divenire ricostruzione morale dopo la
distruzione - l'apparizione di alcune galline, segno
di abitazione, dove
all'inizio c'era solo un gatto che
correva via. Però in genere
l'apparizione di questi animali ha una pregnanza autonoma, degna del
cinema nordico: come il ragno in due episodi, oppure quel cane con le
orecchie dritte che appare nel secondo e nel terzo come un testimone,
o quasi (nel terzo) uno spirito guida. Vale
anche per la musica
intradiegetica
(per esempio un brutto rock jugoslavo degli anni '80 che risuona alla
radio dell'auto nel primo episodio in un contesto profondamente
drammatico viene sentito nuovamente alla radio dell'auto all'inizio
del terzo) e i suoni in generale; se Sole alto fosse
un film americano, vincerebbe
facilmente l'Oscar per il magistrale montaggio
del suono.
Questa
intessitura dà al film un'unità profonda e contestualmente un alto
valore estetico: è un
principio estetico che non è fine a se stesso ma informa la
complessità del film – evitando con ciò il ricorso alla “sola
drammaturgia” del cinema “impegnato”, elevandolo per valore
del linguaggio e (val la pena di usare quest'aggettivo impegnativo)
profondità spirituale.
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