sabato 7 maggio 2016

Sole alto

Dalibor Matanić

Il vicino di casa che incontri sul pianerottolo, il negoziante da cui vai a comprare il pane, la maestra di tuo figlio – questa nube di persone che costituiscono il “noi” di un popolo, e sono quelle che diventano improvvisamente il nemico (e vengono chiamati “quelli”) quando scoppia una guerra civile. Ne è il fattore più tragico (e in qualche maniera è oscuramente connesso alla sua ferocia). Detto per inciso, è la capacità di rappresentazione di quest'aspetto che è mancata in genere al cinema italiano nella sua rappresentazione delle due grandi guerre civili della penisola, il cosiddetto Risorgimento e quella del 1943-45 (con alcune notevoli eccezioni, di cui la principale è Il Gattopardo).
Non manca, invece, al bellissimo film di Dalibor Matanić, anche sceneggiatore, Sole alto (Zvidzan), distribuito dalla coraggiosa Tucker Film di Udine-Pordenone (purtroppo in versione doppiata, ma a questo in Italia non c'è rimedio). Un film già interessante per l'origine: è una coproduzione tra Slovenia, Croazia e Serbia, paesi ancora profondamente divisi. Analisi morale della guerra e del dopoguerra sotto il segno dello strazio umano, strazio della violenza e strazio della memoria, il film scava nel solco della guerra civile jugoslava raggiungendo un vertice di dolorosa intensità attraverso tre storie d'amore impossibile (star-crossed lovers, direbbe il Bardo) fra un giovane croato e una ragazza serba, sulle sponde di un lago la cui dolcezza (i tuffi nell'acqua, la festa popolare nel primo episodio) diventa, si vorrebbe dire, sprecata.
Pur se scandito in episodi narrativamente indipendenti, il film gioca su una serie di elementi ritornanti, di cui il primo e più evidente è l'uso degli stessi (ottimi) attori, Tihana Lazović e Goran Marković, nei ruoli delle tre diverse coppie protagoniste degli episodi (e ciò è rispecchiato in diversi analoghi ritorni di attori in più parti): questa scelta di casting sta alla base del film, che è pensato per essa, e lo indirizza - un ottimo modo per esprimere il senso di tragedia collettiva che lo attraversa.
Sole alto è diviso in tre capitoli a distanza di dieci anni: 1991, l'inizio della guerra civile, 2001, i suoi effetti immediati, 2011, gli effetti a lungo termine. Li dividono due sequenze mute con musica di cui la prima è una delle pagine più impressionanti del film: consta di una serie di immagini documentarie, esterni ed interni, di case distrutte – dove la cosa che mi ha colpito di più è stata vedere delle antenne satellitari abbandonate e pendenti: a ricordarci che la guerra civile non si è combattuta in qualche buco barbaro del terzo mondo ma nel cuore dell'Europa. Il secondo interludio è un camera-car che mostra la ricostruzione.
Il film ha un realismo psicologico che in un certo senso si fonde con l'ottima fotografia diretta, “fisica”, luminosa di Marko Brdar. Molto giocato sul non detto, sull'implicito che si rivela a poco a poco, Sole alto è un grande lamento su un dolore irreparabile - ma che tuttavia va riparato. La conclusione aperta del terzo episodio (o meglio, più che aperta, ellittica, perché si intuisce bene il prosieguo), che viene dopo una grande pagina di recitazione muta a due, apporta alla conclusione un fragile filo di speranza nell'universo cupo del film.
La caratteristica del film di Matanić è la sua imponente intessitura di rimandi, “figure” che ritornano e si richiamano, come fili rossi visuali, in collegamento con il ritornare dei volti nel grande, quasi maestoso tema narrativo. Sono luoghi: il lago attorno al quale si svolgono le tre storie, il chiosco, i cimiteri. Sono azioni: il rimestare nervosamente nel piatto, che ritorna in tutti e tre gli episodi, l'inseguire correndo un'auto, e in primo luogo il bagno nel lago, ripreso in inquadrature subacquee in tutti gli episodi, che fa da vero trait d'union. Sono anche battute di dialogo: “Mi mancherà tutto questo” dice Jelena nel primo episodio in riva al lago, “Mi è mancato questo” dice Nataša ritornata al lago nel secondo. E sono, con un'evidenza nascosta e potente, animali. A volte essi hanno un valore narrativo: una delle immagini più potenti del film si ha quando risuona il primo sparo e vediamo un gregge di pecore che voltano la testa in quella direzione e restano immobili, come raggelate. Ricordo anche, nel secondo episodio - sulla ricostruzione materiale di una casa che non riesce a divenire ricostruzione morale dopo la distruzione - l'apparizione di alcune galline, segno di abitazione, dove all'inizio c'era solo un gatto che correva via. Però in genere l'apparizione di questi animali ha una pregnanza autonoma, degna del cinema nordico: come il ragno in due episodi, oppure quel cane con le orecchie dritte che appare nel secondo e nel terzo come un testimone, o quasi (nel terzo) uno spirito guida. Vale anche per la musica intradiegetica (per esempio un brutto rock jugoslavo degli anni '80 che risuona alla radio dell'auto nel primo episodio in un contesto profondamente drammatico viene sentito nuovamente alla radio dell'auto all'inizio del terzo) e i suoni in generale; se Sole alto fosse un film americano, vincerebbe facilmente l'Oscar per il magistrale montaggio del suono.
Questa intessitura dà al film un'unità profonda e contestualmente un alto valore estetico: è un principio estetico che non è fine a se stesso ma informa la complessità del film – evitando con ciò il ricorso alla “sola drammaturgia” del cinema “impegnato”, elevandolo per valore del linguaggio e (val la pena di usare quest'aggettivo impegnativo) profondità spirituale. 
 

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