Michel Hazanavicius
Il cinema nell'era del sonoro si è dilettato raramente di ripescare la forma del muto. Potremmo citare “Silent Movie” (“L'ultima follia”) di Mel Brooks e “Juha” di Aki Kaurismäki. Ora il bellissimo “The Artist”, scritto e diretto da Michel Hazanavicius, ha avuto un buon successo, al quale evidentemente non è estranea la curiosità (potesse innestare un revival del muto! Ma questa è utopia).
L'argomento, ovviamente, è d'epoca. Negli anni '20 George Valentin (Jean Dujardin) è una grande star, con una vita di successo e un matrimonio in crisi. Viene fotografato casualmente con una bella ragazza aspirante attrice, Peppy Miller (Bérénice Bejo), e ciò lancia la ragazza nel mondo del cinema. Il guaio è che di lì a poco il cinema inizia a parlare (to talk). Mentre Peppy - che è segretamente innamorata di lui - diventa in breve una diva, George vede la sua carriera rovinata (come nella realtà successe a John Gilbert e molti altri); ma l'orgoglio gli impedisce di fare i conti con la vita. Di qui una storia di caduta e redenzione, misto di deliziosa commedia e autentico dramma; avvalendosi di splendide interpretazioni, Hazanavicius la racconta in bianco e nero, con un formato che ricorda le vecchie pellicole mute (ma non è lo stesso come qualcuno ha scritto) e naturalmente muto. L'unico momento in cui sentiamo i rumori, a parte il finale, è nell'interessante sequenza dell'incubo di Valentin. Detto fra parentesi, si crea un piccolo problema espressivo perché vediamo muti anche i frammenti dei film parlati di Peppy, ma non si poteva fare altrimenti.
Michel Hazanavicius comprende perfettamente il concetto del muto. Il cinema muto non era il cinema sonoro senza il suono. L'impossibilità di dialogo continuato o di voce narrante comportava un modo particolare di caricare di significato le immagini: il cinema muto si basava su un'idea totalmente visiva (e infatti quando venne inventato il sonoro diversi teorici del cinema si preoccuparono, non a torto, che andasse persa questa concezione visuale e il cinema si trovasse risospinto verso il teatro). In “The Artist” è un eccellente esempio di questa concentrazione di significato nel visivo l'immagine della locandina del film fallito di George caduta a terra sotto la pioggia e calpestata dai passanti. Oppure il frac di Valentin nella vetrina del monte dei pegni, sopra il colletto del quale vediamo, riflessa nella vetrina, la testa del suo ex proprietario che lo guarda tristemente. O anche lo stupendo gioco “chapliniano” di Peppy col frac di George, nel camerino di quest'ultimo.
Lo stesso vale per il rapporto della didascalia con l'immagine. Il suono di un colpo di pistola e quello di un'auto che va a finire contro un albero sono diversi, ma ambedue si esprimono graficamente con un “Bang!” - solo il cinema muto poteva permettersi di giocare su di questo mediante una didascalia ambigua (ci aspettiamo il primo significato e vediamo il secondo): in modo da produrre la sorpresa, e il sollievo, che proviamo in una scena cruciale di “The Artist”.
Tutto il film ha un valore storico/filologico nella messa in scena. I vari film-nel-film sono in pieno stile dell'epoca: lo mostrano non tanto le ombre e le inquadrature sghembe della scena di tortura nel primo (perché questo è ovvio) ma piuttosto il modo in cui nel secondo, mentre George e Peppy danzano, l'inquadratura esalta il profilo dell'attore. Oppure si guardi come in entrambi i film di cappa e spada interpretati da George Jean Dujardin fa il verso a Douglas Fairbanks. E nel finale la scenografia ricorda perfettamente i numeri di Fred Astaire.
In “The Artist” ritorna nelle scene più drammatiche un'enfasi linguistica (le inquadrature angolate) che ricorda il cinema americano “classico” fine anni '20/anni '40, con l'ottima score di Ludovic Bource “in stile”. Il riferimento è già dichiarato nei bei titoli di testa. Si può notare anche l'uso - però troppo limitato per essere davvero rilevante - di segni d'interpunzione d'epoca come iridi e tendine.
Questa è un'indubbia dimostrazione di capacità, ma Hazanavicius non si limita a comporre semplicemente un abile pastiche: mette in opera un autentico talento. “The Artist” ne dà numerose prove. Per fare qualche esempio: la bella scena del balletto fra George e la sconosciuta di cui si vedono solo le gambe, di qua e di là di un fondale; l'apparizione a George ubriaco dei personaggi del suo ultimo film, lillipuziani, sul bancone del bar; il dialogo di George con la sua ombra (che se ne via via sprezzante!) nel quadro di luce vuoto del proiettore. Da notare l'uso dei poster di film - naturalmente d'invenzione - che compaiono nella narrazione in funzione di commento interno alla vicenda stessa, come un accenno di mise en abyme: “The Thief of Her Heart” quando Peppy parla con George in camerino e lui le aggiunge a matita sul labbro quel neo che farà la sua fortuna; “Lonely Star” quando George si allontana tristemente dopo aver messo all'asta i suoi bene; in modo più vago, “Guardian Angel” è il titolo del film di Peppy che George ormai rovinato va a vedere. Solo che George è troppo orgoglioso per accettare un angelo custode.
Il film ruota intorno alla parola talk. C'è un doppio senso simbolico fra il cinema parlato (talking) e il to talk della moglie, che sta per lasciarlo, nelle battute “Dobbiamo parlare, George” e “Perché ti rifiuti di parlare?” (più tardi, anche Peppy in una triste visita: “Volevo parlare con te”). Perché il problema di George Valentin è che non riesce a parlare con gli altri. Il suo rifiuto di comunicare con chi lo ama e il suo rifiuto del cinema sonoro si unificano nel doppio uso di talk - pertanto la storia del passaggio dal muto al sonoro si riflette nella sua vicenda personale non solo a livello diegetico ma attraverso un'intelligente invenzione linguistica. Così, di un happy ending che non occorre rivelare si può dire questo: non solo il cinema ma anche George Valentin ha imparato a parlare.
sabato 31 dicembre 2011
giovedì 29 dicembre 2011
Sherlock Holmes - Gioco di ombre
Guy Ritchie
Se il primo “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie aveva introdotto una lettura “revisionista”, eterodossa ma tutt'altro che campata in aria, del mito creato da Sir Arthur Conan Doyle, il secondo episodio della serie - “Sherlock Holmes - Gioco di ombre” - è anche migliore del primo. E' scritto da Michele e Kieran Mulroney, con un cambio di sceneggiatori rispetto al film precedente.
Avendo già spianato il terreno con la sorpresa di una coppia Holmes-Watson giovani e atletici (e un Watson decisamente meno eterodiretto di quello tradizionale), Guy Ritchie può dedicarsi interamente tutto al racconto, cosa che gli va benissimo, giacché il regista inglese è un affabulatore compulsivo, innamorato della narrazione per il gusto della narrazione, sempre pronto a perdersi in particolari e in digressioni. Certo, una serie hollywoodiana di forte impegno produttivo come questa non gli permette di esercitare a suo piacere il suo sguardo “laterale” (nota però la bellezza di qualche dettaglio buttato lì, come quel cane bianco interessatissimo durante lo scontro fra Sherlock Holmes e il cosacco); tuttavia, per fare una buona narrazione c'è bisogno esattamente di uno spirito simile, cosa che ignorano molti giovani “pragmatici” americani. Ritchie ama sfoggiare l'onnipotenza del cinema. La visualizzazione dei piani d'attacco di Holmes, oltre a quella dei ragionamenti, unita alla fattura elegante dei flashback e dei momenti di enfatizzazione mediante il ralenti (la fuga nel bosco) manifestano lo stile sciolto e fantasioso del regista.
Nel presente film Holmes se la vede col suo arcinemico ufficiale, il professor Moriarty: il film sfocia in una trascrizione del famoso racconto di Conan Doyle “Il problema finale”, quello delle cascate del Reichenbach. E il Moriarty di Jared Harris è il migliore che ci sia capitato di vedere sullo schermo (accanto a Leo McKern ne “il fratello più furbo di Sherlock Holmes”, d'accordo, ma quella era una parodia). Inoltre il film, che già si regge sull'eccellente coppia Robert Downey jr. e Jude Law, presenta anche un magnifico Mycroft Holmes nell'interpretazione di Stephen Fry (“Wilde”); la scena in cui compare a colazione completamente nudo, sconvolgendo la signora Watson, è da antologia.
Non bisogna dimenticare che è un film d'azione, al che provvede generosamente (volendo cercare il pelo nell'uovo si potrebbe osservare che la scena di mega-azione migliore è praticamente la prima, quella sul treno, mentre la scena madre nella fabbrica d'armi appare un po' lunga). Ma non è solo un action pepato con humour. Era ovvio che inserisse con abilità il classico lavoro di deduzione (dove Watson mostra di avere imparato bene la lezione di Holmes, a differenza di quello dei romanzi e di molte sue incarnazioni sullo schermo); in aggiunta, dà più spazio del primo film a un veloce gioco di rimpallo di battute tra Holmes e Watson che è gustosissimo, commedia screwball della più bell'acqua.
Soprattutto, il film adombra con delizioso umorismo l'elemento omosessuale insito nel rapporto Holmes-Watson (“la nostra relazione atipica”, lo chiama Holmes, urtando il vittoriano Watson che preferisce il termine “collaborazione”). Se il pretesto narrativo è quello di salvare i neo-coniugi Watson dalla vendetta di Moriarty, è esilarante vedere come durante il loro viaggio di nozze Holmes (che appare travestito da donna) si liberi della moglie di Watson buttandola dal treno; e quando subito dopo arruola il marito per una missione a Parigi dicendogli che è “la destinazione più ragionevole per una luna di miele”, non occorre essere il dottor Freud per vederci chiaro. Del resto, nella stessa sequenza, il suo “Dovrà giacere con me, Watson” stendendosi sul pavimento del vagone (per salvarsi dalle raffiche di mitragliatrice, certo, che credevate?) val più di una seduta dallo psicoanalista. Se Sir Arthur Conan Doyle vedesse questo film ne rimarrebbe passabilmente sconvolto: come lo specchio del dottor Jekyll, gli mostrerebbe un'insospettata verità.
Se il primo “Sherlock Holmes” di Guy Ritchie aveva introdotto una lettura “revisionista”, eterodossa ma tutt'altro che campata in aria, del mito creato da Sir Arthur Conan Doyle, il secondo episodio della serie - “Sherlock Holmes - Gioco di ombre” - è anche migliore del primo. E' scritto da Michele e Kieran Mulroney, con un cambio di sceneggiatori rispetto al film precedente.
Avendo già spianato il terreno con la sorpresa di una coppia Holmes-Watson giovani e atletici (e un Watson decisamente meno eterodiretto di quello tradizionale), Guy Ritchie può dedicarsi interamente tutto al racconto, cosa che gli va benissimo, giacché il regista inglese è un affabulatore compulsivo, innamorato della narrazione per il gusto della narrazione, sempre pronto a perdersi in particolari e in digressioni. Certo, una serie hollywoodiana di forte impegno produttivo come questa non gli permette di esercitare a suo piacere il suo sguardo “laterale” (nota però la bellezza di qualche dettaglio buttato lì, come quel cane bianco interessatissimo durante lo scontro fra Sherlock Holmes e il cosacco); tuttavia, per fare una buona narrazione c'è bisogno esattamente di uno spirito simile, cosa che ignorano molti giovani “pragmatici” americani. Ritchie ama sfoggiare l'onnipotenza del cinema. La visualizzazione dei piani d'attacco di Holmes, oltre a quella dei ragionamenti, unita alla fattura elegante dei flashback e dei momenti di enfatizzazione mediante il ralenti (la fuga nel bosco) manifestano lo stile sciolto e fantasioso del regista.
Nel presente film Holmes se la vede col suo arcinemico ufficiale, il professor Moriarty: il film sfocia in una trascrizione del famoso racconto di Conan Doyle “Il problema finale”, quello delle cascate del Reichenbach. E il Moriarty di Jared Harris è il migliore che ci sia capitato di vedere sullo schermo (accanto a Leo McKern ne “il fratello più furbo di Sherlock Holmes”, d'accordo, ma quella era una parodia). Inoltre il film, che già si regge sull'eccellente coppia Robert Downey jr. e Jude Law, presenta anche un magnifico Mycroft Holmes nell'interpretazione di Stephen Fry (“Wilde”); la scena in cui compare a colazione completamente nudo, sconvolgendo la signora Watson, è da antologia.
Non bisogna dimenticare che è un film d'azione, al che provvede generosamente (volendo cercare il pelo nell'uovo si potrebbe osservare che la scena di mega-azione migliore è praticamente la prima, quella sul treno, mentre la scena madre nella fabbrica d'armi appare un po' lunga). Ma non è solo un action pepato con humour. Era ovvio che inserisse con abilità il classico lavoro di deduzione (dove Watson mostra di avere imparato bene la lezione di Holmes, a differenza di quello dei romanzi e di molte sue incarnazioni sullo schermo); in aggiunta, dà più spazio del primo film a un veloce gioco di rimpallo di battute tra Holmes e Watson che è gustosissimo, commedia screwball della più bell'acqua.
Soprattutto, il film adombra con delizioso umorismo l'elemento omosessuale insito nel rapporto Holmes-Watson (“la nostra relazione atipica”, lo chiama Holmes, urtando il vittoriano Watson che preferisce il termine “collaborazione”). Se il pretesto narrativo è quello di salvare i neo-coniugi Watson dalla vendetta di Moriarty, è esilarante vedere come durante il loro viaggio di nozze Holmes (che appare travestito da donna) si liberi della moglie di Watson buttandola dal treno; e quando subito dopo arruola il marito per una missione a Parigi dicendogli che è “la destinazione più ragionevole per una luna di miele”, non occorre essere il dottor Freud per vederci chiaro. Del resto, nella stessa sequenza, il suo “Dovrà giacere con me, Watson” stendendosi sul pavimento del vagone (per salvarsi dalle raffiche di mitragliatrice, certo, che credevate?) val più di una seduta dallo psicoanalista. Se Sir Arthur Conan Doyle vedesse questo film ne rimarrebbe passabilmente sconvolto: come lo specchio del dottor Jekyll, gli mostrerebbe un'insospettata verità.
Breaking Dawn - Parte 1
Bill Condon
In “Breaking Dawn - Parte 1” Edward racconta a Bella di quando andava ancora a caccia di esseri umani (come vittime da dissanguare sceglieva solo criminali; ci sarebbe da rimpiangere che non abbia continuato). La sequenza in flashback è ambientata evidentemente nel 1935, giacché presenta Edward al cinema che vede “The Bride of Frankenstein” di James Whale, uscito quell'anno. E questo è un grazioso inner joke: il regista del presente film, Bill Condon, ne ha diretto nel 1998 uno, assai superiore, dal titolo “Uomini e dei” che raccontava gli ultimi giorni del regista Whale e, in flashback, metteva in scena proprio la realizzazione di “The Bride of Frankenstein”.
Molto grazioso, appunto - e unica cosa degna di nota di “Breaking Dawn”. La saga di “Twilight” è arrivata con questo a quattro episodi, tutti mediocri con l'eccezione del terzo, “Eclipse”, di David Slade; ma questo è sicuramente il peggiore di tutti. C'è da stupirsi di Bill Condon, ma anche della sceneggiatrice Melissa Rosenberg. Se “Eclipse” era riuscito a iniettare un po' di linfa vitale nelle vene esangui della serie (anche per merito dei flashback che lo costellavano), “Breaking Dawn” è una causa persa. Non vi ritroviamo niente che possa dare interesse, né le crisi nervose di Jacob (questo Amleto dei lupi mannari) né il dramma di Bella che si vede crescere dentro un feto mostruoso ma è contro l'aborto, anche quello terapeutico. Il plot è ridicolo, ma attenzione: anche il cinema horror spagnolo di serie B degli anni '60/'70, per fare un esempio, presentava spesso trame quasi altrettanto ridicole, ma resta una delizia naïve. Impossibilitati dalla corposità della produzione a essere tali, Condon & Rosenberg avrebbero potuto essere camp: non hanno osato. Avrebbero potuto essere (un po') horror, come “Eclipse”: non hanno voluto. Se hanno mirato al melodramma eccessivo, nessuno se n'è accorto. Si ha piuttosto l'impressione della plumbea realizzazione burocratica di un copione già infelice di suo; perfino il versante trucco è inferiore alle aspettative.
Robert Pattinson e Taylor Lautner sono già abbastanza legnosi per conto loro, ma Kristen Stewart raggiunge in questo film nuovi livelli di inespressività. Il suo viso assume un po' di drammaticità, se non di espressione, solo quando è scavato perché il feto che porta in grembo le sta succhiando la vita - ma è tutto merito del makeup (infatti si può dire che recita meglio da morta che da viva). Se Kristen Stewart è un'attrice, i Volturi sono il Telefono Azzurro.
Già, i Volturi. Dobbiamo a loro gli unici momenti un po' interessanti a parte lo scherzo sopra citato: l'incubo di Bella all'inizio e la conclusione che anticipa la parte 2 (e che certi multisala proiettano a luci accese perché viene in mezzo ai credits di coda). Poiché questi vampiri cattivissimi, capitanati dal bravo Michael Sheen, sanno fare il loro mestiere. E' più di quanto si possa dire del resto del film.
In “Breaking Dawn - Parte 1” Edward racconta a Bella di quando andava ancora a caccia di esseri umani (come vittime da dissanguare sceglieva solo criminali; ci sarebbe da rimpiangere che non abbia continuato). La sequenza in flashback è ambientata evidentemente nel 1935, giacché presenta Edward al cinema che vede “The Bride of Frankenstein” di James Whale, uscito quell'anno. E questo è un grazioso inner joke: il regista del presente film, Bill Condon, ne ha diretto nel 1998 uno, assai superiore, dal titolo “Uomini e dei” che raccontava gli ultimi giorni del regista Whale e, in flashback, metteva in scena proprio la realizzazione di “The Bride of Frankenstein”.
Molto grazioso, appunto - e unica cosa degna di nota di “Breaking Dawn”. La saga di “Twilight” è arrivata con questo a quattro episodi, tutti mediocri con l'eccezione del terzo, “Eclipse”, di David Slade; ma questo è sicuramente il peggiore di tutti. C'è da stupirsi di Bill Condon, ma anche della sceneggiatrice Melissa Rosenberg. Se “Eclipse” era riuscito a iniettare un po' di linfa vitale nelle vene esangui della serie (anche per merito dei flashback che lo costellavano), “Breaking Dawn” è una causa persa. Non vi ritroviamo niente che possa dare interesse, né le crisi nervose di Jacob (questo Amleto dei lupi mannari) né il dramma di Bella che si vede crescere dentro un feto mostruoso ma è contro l'aborto, anche quello terapeutico. Il plot è ridicolo, ma attenzione: anche il cinema horror spagnolo di serie B degli anni '60/'70, per fare un esempio, presentava spesso trame quasi altrettanto ridicole, ma resta una delizia naïve. Impossibilitati dalla corposità della produzione a essere tali, Condon & Rosenberg avrebbero potuto essere camp: non hanno osato. Avrebbero potuto essere (un po') horror, come “Eclipse”: non hanno voluto. Se hanno mirato al melodramma eccessivo, nessuno se n'è accorto. Si ha piuttosto l'impressione della plumbea realizzazione burocratica di un copione già infelice di suo; perfino il versante trucco è inferiore alle aspettative.
Robert Pattinson e Taylor Lautner sono già abbastanza legnosi per conto loro, ma Kristen Stewart raggiunge in questo film nuovi livelli di inespressività. Il suo viso assume un po' di drammaticità, se non di espressione, solo quando è scavato perché il feto che porta in grembo le sta succhiando la vita - ma è tutto merito del makeup (infatti si può dire che recita meglio da morta che da viva). Se Kristen Stewart è un'attrice, i Volturi sono il Telefono Azzurro.
Già, i Volturi. Dobbiamo a loro gli unici momenti un po' interessanti a parte lo scherzo sopra citato: l'incubo di Bella all'inizio e la conclusione che anticipa la parte 2 (e che certi multisala proiettano a luci accese perché viene in mezzo ai credits di coda). Poiché questi vampiri cattivissimi, capitanati dal bravo Michael Sheen, sanno fare il loro mestiere. E' più di quanto si possa dire del resto del film.
lunedì 12 dicembre 2011
Midnight in Paris
Woody Allen
Proverbio di nuovo conio: l'epoca del vicino è sempre più verde. Quel che è geniale nell'ultimo film di Woody Allen non è l'invenzione che Gil (Owen Wilson) - uno scrittore americano in visita a Parigi con la fidanzata e i futuri suoceri, che non ama questi tempi piatti e sogna la Parigi degli anni '20 - venga trasportato magicamente ogni mezzanotte proprio in quella Parigi, dove incontra Francis Scott Fitzgerald e Zelda, Hemingway e T.S. Eliot, Salvador Dalí e Luis Buñuel, e così via. Quel che è geniale è che vi incontra l'intelligente modella Adriana (Marion Cotillard), la quale ritiene piatti gli anni '20 e sogna la Parigi della Belle Epoque. Ed ecco che per magia Gil e Adriana sono trasportati proprio là, e conoscono Toulouse-Lautrec, Degas e Gauguin - i quali pensano che la loro epoca è piatta, e sognano il Rinascimento...
Innamorato del passato (sta scrivendo un romanzo su un negozio di modernariato, cioè di nostalgia), Gil è infelice perché detesta i suoceri e perché la fidanzata Ines è, per esprimerci in termini lacaniani, una stronza maiuscola; inoltre è visibilmente affascinata da Paul, un giovane professore americano loro compagno, che è un so-tutto e lo fa pesare. Come molti personaggi di Woody Allen, Gil si sente schiacciato perché vive nell'inautenticità. Il problema del film è che questa parte introduttiva è piuttosto vacua. Non vi risplende l'umorismo satirico di Woody (cosa non avrebbe fatto un tempo con simili personaggi!); perfino la descrizione dell'intellettuale pedante manca della giusta ironia. Siccome poi Allen trae parte dei finanziamenti dalle città dove ambienta i film, e quindi deve esibirle, apre “Midnight in Paris” con una serie di immagini di Parigi, belle ma dall'ovvio effetto cartolina, quasi a dire “Togliamoci subito il pensiero”; questo prologo appesantisce il film.
Woody - e non solo il suo protagonista - rinasce quando si sposta nel passato. La descrizione dell'epoca attraverso il suo sguardo di scoperta sconvolta è gustosissima, e Owen Wilson rende molto bene lo shock temporale (per cui piace ad Adriana che gli trova un'aria “smarrita”). Fra i personaggi che incontra, risultano fondamentali Hemingway (Corey Stoll) e Gertrude Stein (Kathy Bates), maestri di morale letteraria e non, poiché leggono il manoscritto del suo romanzo (per inciso, è anacronistico che Gertrude Stein parli di fantascienza, anche se è per accorciare: in quegli anni si sarebbe detto piuttosto “narrativa di anticipazione alla Wells”). Nel cinema di Allen è sempre stata forte la concezione dell'arte e della cultura come una mitologia che serve da guida (ricordiamo il valore pedagogico del cinema classico rivendicato in “Crimini e misfatti”). Qui questa mitologia si incarna in figure fisiche grazie al trasferimento nel passato.
C'è una scena sublime quando Gil (ormai tranquillizzatosi) incontra il giovane Luis Buñuel e vuole sfruttare la sua conoscenza del futuro regalandogli come idea per un film la trama de “L'angelo sterminatore” - e Buñuel non la capisce! I convitati non possono uscire: “Y porqué?”, “Pero no entiendo: porqué non possono lasciare la stanza?”. Questo è stupendo: un barbaglio del miglior Woody Allen del passato.
Più in generale, è delizioso un paradosso morale: quando scopriamo che mezzo mondo vorrebbe vivere in un tempo anteriore idealizzato, la cosa buffa è che ciò dà ragione all'antipaticissimo Paul, che enunciava quest'idea, non in modo elogiativo, all'inizio del film. Alla fine (attenzione, spoiler!) Gil rompe con la fidanzata ma incontra la sua vera donna, una francesina che lo capisce, nella Parigi 2010 e lo vediamo allontanarsi con lei. Ha accettato il presente.
Woody dunque mette in scena felicemente la “festa mobile” della Parigi anni '20, e questa grazia si trasmette al resto del film, anche se il suo fiacco inizio fa rimpiangere, diciamo, anche l'Allen relativamente recente del sottovalutato “Vicky Cristina Barcelona”. Ma il succo di “Midnight in Paris” sta nella sua “moralità” (nel senso di racconto a sfondo morale) sul desiderio e il sogno; e qui Woody coglie il bersaglio. Non stupisce: perché al di là dello humour e del divertimento, tutti i suoi film sono delle moralità.
Proverbio di nuovo conio: l'epoca del vicino è sempre più verde. Quel che è geniale nell'ultimo film di Woody Allen non è l'invenzione che Gil (Owen Wilson) - uno scrittore americano in visita a Parigi con la fidanzata e i futuri suoceri, che non ama questi tempi piatti e sogna la Parigi degli anni '20 - venga trasportato magicamente ogni mezzanotte proprio in quella Parigi, dove incontra Francis Scott Fitzgerald e Zelda, Hemingway e T.S. Eliot, Salvador Dalí e Luis Buñuel, e così via. Quel che è geniale è che vi incontra l'intelligente modella Adriana (Marion Cotillard), la quale ritiene piatti gli anni '20 e sogna la Parigi della Belle Epoque. Ed ecco che per magia Gil e Adriana sono trasportati proprio là, e conoscono Toulouse-Lautrec, Degas e Gauguin - i quali pensano che la loro epoca è piatta, e sognano il Rinascimento...
Innamorato del passato (sta scrivendo un romanzo su un negozio di modernariato, cioè di nostalgia), Gil è infelice perché detesta i suoceri e perché la fidanzata Ines è, per esprimerci in termini lacaniani, una stronza maiuscola; inoltre è visibilmente affascinata da Paul, un giovane professore americano loro compagno, che è un so-tutto e lo fa pesare. Come molti personaggi di Woody Allen, Gil si sente schiacciato perché vive nell'inautenticità. Il problema del film è che questa parte introduttiva è piuttosto vacua. Non vi risplende l'umorismo satirico di Woody (cosa non avrebbe fatto un tempo con simili personaggi!); perfino la descrizione dell'intellettuale pedante manca della giusta ironia. Siccome poi Allen trae parte dei finanziamenti dalle città dove ambienta i film, e quindi deve esibirle, apre “Midnight in Paris” con una serie di immagini di Parigi, belle ma dall'ovvio effetto cartolina, quasi a dire “Togliamoci subito il pensiero”; questo prologo appesantisce il film.
Woody - e non solo il suo protagonista - rinasce quando si sposta nel passato. La descrizione dell'epoca attraverso il suo sguardo di scoperta sconvolta è gustosissima, e Owen Wilson rende molto bene lo shock temporale (per cui piace ad Adriana che gli trova un'aria “smarrita”). Fra i personaggi che incontra, risultano fondamentali Hemingway (Corey Stoll) e Gertrude Stein (Kathy Bates), maestri di morale letteraria e non, poiché leggono il manoscritto del suo romanzo (per inciso, è anacronistico che Gertrude Stein parli di fantascienza, anche se è per accorciare: in quegli anni si sarebbe detto piuttosto “narrativa di anticipazione alla Wells”). Nel cinema di Allen è sempre stata forte la concezione dell'arte e della cultura come una mitologia che serve da guida (ricordiamo il valore pedagogico del cinema classico rivendicato in “Crimini e misfatti”). Qui questa mitologia si incarna in figure fisiche grazie al trasferimento nel passato.
C'è una scena sublime quando Gil (ormai tranquillizzatosi) incontra il giovane Luis Buñuel e vuole sfruttare la sua conoscenza del futuro regalandogli come idea per un film la trama de “L'angelo sterminatore” - e Buñuel non la capisce! I convitati non possono uscire: “Y porqué?”, “Pero no entiendo: porqué non possono lasciare la stanza?”. Questo è stupendo: un barbaglio del miglior Woody Allen del passato.
Più in generale, è delizioso un paradosso morale: quando scopriamo che mezzo mondo vorrebbe vivere in un tempo anteriore idealizzato, la cosa buffa è che ciò dà ragione all'antipaticissimo Paul, che enunciava quest'idea, non in modo elogiativo, all'inizio del film. Alla fine (attenzione, spoiler!) Gil rompe con la fidanzata ma incontra la sua vera donna, una francesina che lo capisce, nella Parigi 2010 e lo vediamo allontanarsi con lei. Ha accettato il presente.
Woody dunque mette in scena felicemente la “festa mobile” della Parigi anni '20, e questa grazia si trasmette al resto del film, anche se il suo fiacco inizio fa rimpiangere, diciamo, anche l'Allen relativamente recente del sottovalutato “Vicky Cristina Barcelona”. Ma il succo di “Midnight in Paris” sta nella sua “moralità” (nel senso di racconto a sfondo morale) sul desiderio e il sogno; e qui Woody coglie il bersaglio. Non stupisce: perché al di là dello humour e del divertimento, tutti i suoi film sono delle moralità.
venerdì 9 dicembre 2011
Miracolo a Le Havre
Aki Kaurismäki
Vi sono due modi di fare miracoli nel cinema. E va detto che di miracoli in “Le Havre” di Aki Kaurismäki ve ne sono diversi. Il primo è sociale: la congiura di solidarietà messa in atto dal lustrascarpe Marcel (André Wilms), dai suoi vicini di un quartiere popolare e da un poliziotto, che riescono a salvare un ragazzino negro clandestino e farlo arrivare a Londra dalla madre. Il secondo è medico e metafisico: l'improvvisa guarigione della moglie di Marcel, Arletty (la grande regular kaurismäkiana Kati Outinen) che stava morendo di cancro in ospedale. Il terzo è simbolico: la fioritura del ciliegio secco alla fine del film, che rappresenta quella fioritura nell'arido terreno della vita che è il miracolo.
Dicevamo, vi sono due modi di fare miracoli nel cinema. Uno è di esibirne esplicitamente la gloria con una sorta di esaltazione estremista, un innalzamento solenne nella costruzione del film, ed è il Frank Borzage di “Settimo cielo” (quel raggio di luce che scende dall'alto!). L'altro è di mostrarlo come un fatto che cade misteriosamente nel quotidiano, con sobrietà narrativa completa, ed è il Dreyer di “Ordet” - o Kaurismäki. Questi sono i due modi legittimi. Tutto il resto - le varie gradazioni di realismo engagé e poeticismo magniloquente - casca nel mezzo e si perde via.
Nel cinema di Kaurismäki l'amore è sempre la salvezza. La Le Havre umanissima del piccolo quartiere stretto attorno a Marcel e al suo protetto (ma c'è anche un corbeau, interpretato da Jean-Pierre Léaud!) ricorda un po' la Parigi anni '30 di René Clair e del Fronte Popolare. Sarà per questo che la moglie di Marcel si chiama Arletty: una magnifica attrice che leghiamo nella memoria al cinema francese di quella stagione, anche se rimase in attività ben più a lungo. Il film è pieno di nomi-omaggio. Il protagonista si chiama Marcel Marx: Marcel come Proust - Marx come Marx. Il ragazzino si chiama Idrissa come un grande regista africano, Idrissa Ouedraogo, il commissario di polizia Monet (farà di nome Claude?); a proposito, la storia, appena accennata in una scena, fra Monet e la padrona del bar è un pezzo splendido dell'asciutto romanticismo kaurismäkiano - quasi ancora più bello del film che lo contiene.
Lo hanno detto per Blasetti e chissà per quanti altri, ma l'espressione viene proprio in taglio qui: Kaurismäki filma come respira. Perché, semplicemente, filma comme il faut; riesce sempre a lasciarci con l'impressione (certo, unilaterale) che il suo sia l'unico modo possibile di filmare. Prendiamo la scena della visita di Monet dal prefetto, che gli ingiunge di trovare al più presto il fuggitivo. L'inquadratura piuttosto distanziata che rimpicciolisce il commissario e quasi lo schiaccia sul fondo; la mancanza del controcampo sul prefetto, che non essendo mai enunciato come viso resta una voce autoritaria che investe il poliziotto. Assolutamente perfetto. O guardiamo quando Marcel al molo lascia un sacchetto con soldi e cibo per il ragazzino nascosto in acqua: all'immagine del sacchetto risponde solo il suono di uno sciacquio, e non occorre altro.
La sobrietà stilistica di Kaurismäki tende all'epicità, quasi all'astrazione. Guardate i suoi personaggi! Immobilità e impassibilità sono le caratteristiche dei personaggi kaurismäkiani (la sigaretta che tengono in bocca non ne è che un prolungamento, un oggetto-simbolo). Il dramma esiste, ma resta chiuso dentro quella loro maschera alla Buster Keaton - e questo, oltre che servire alla sobrietà, ha anche un lato morale. Giustamente dice Marcel al ragazzino negro nel film: “Hai pianto?” - “No” - “Bravo. Non serve a niente”.
Il classico dialogo alla Kaurismäki, solenne non come lessico e fraseggio ma per via della sua pronuncia distaccata che provvede il tono epico, è il perfetto equivalente sonoro dell'impassibilità dei visi. Un vantaggio laterale è che esalta l'umorismo; non manca in “Le Havre” una nuova collezione di battute fulminanti in puro stile kaurismäkiano (Marcel al burocrate spacciandosi per il fratello del nonno del ragazzino negro: “Sono l'albino di famiglia”); di più, si può dire che lo crea, l'umorismo, perché la sua secca nettezza conferisce una buffa risonanza, impagabile, a quello i personaggi dicono. E se a volte il film sfiora il didattico, pure il didattico ci sta - proprio in ragione di questo tono epico.
Attraverso la sua maniera “fredda” Kaurismäki restituisce le emozioni con stupefacente intensità. Fra tanti, citiamo solo un passaggio: la bella scena della riappacificazione fra il vecchio cantante Little Bob e sua moglie (sguardi e sorrisi muti) si lega in montaggio alla scena di Arletty in ospedale che, convinta di dover morire, guarda il porto di Le Havre dalla finestra, come un addio. Ed è commovente e folgorante, questo, come l'ultima passeggiata della vecchia signora ne “La vedova del pastore” di Dreyer. Ancora un altro miracolo.
Vi sono due modi di fare miracoli nel cinema. E va detto che di miracoli in “Le Havre” di Aki Kaurismäki ve ne sono diversi. Il primo è sociale: la congiura di solidarietà messa in atto dal lustrascarpe Marcel (André Wilms), dai suoi vicini di un quartiere popolare e da un poliziotto, che riescono a salvare un ragazzino negro clandestino e farlo arrivare a Londra dalla madre. Il secondo è medico e metafisico: l'improvvisa guarigione della moglie di Marcel, Arletty (la grande regular kaurismäkiana Kati Outinen) che stava morendo di cancro in ospedale. Il terzo è simbolico: la fioritura del ciliegio secco alla fine del film, che rappresenta quella fioritura nell'arido terreno della vita che è il miracolo.
Dicevamo, vi sono due modi di fare miracoli nel cinema. Uno è di esibirne esplicitamente la gloria con una sorta di esaltazione estremista, un innalzamento solenne nella costruzione del film, ed è il Frank Borzage di “Settimo cielo” (quel raggio di luce che scende dall'alto!). L'altro è di mostrarlo come un fatto che cade misteriosamente nel quotidiano, con sobrietà narrativa completa, ed è il Dreyer di “Ordet” - o Kaurismäki. Questi sono i due modi legittimi. Tutto il resto - le varie gradazioni di realismo engagé e poeticismo magniloquente - casca nel mezzo e si perde via.
Nel cinema di Kaurismäki l'amore è sempre la salvezza. La Le Havre umanissima del piccolo quartiere stretto attorno a Marcel e al suo protetto (ma c'è anche un corbeau, interpretato da Jean-Pierre Léaud!) ricorda un po' la Parigi anni '30 di René Clair e del Fronte Popolare. Sarà per questo che la moglie di Marcel si chiama Arletty: una magnifica attrice che leghiamo nella memoria al cinema francese di quella stagione, anche se rimase in attività ben più a lungo. Il film è pieno di nomi-omaggio. Il protagonista si chiama Marcel Marx: Marcel come Proust - Marx come Marx. Il ragazzino si chiama Idrissa come un grande regista africano, Idrissa Ouedraogo, il commissario di polizia Monet (farà di nome Claude?); a proposito, la storia, appena accennata in una scena, fra Monet e la padrona del bar è un pezzo splendido dell'asciutto romanticismo kaurismäkiano - quasi ancora più bello del film che lo contiene.
Lo hanno detto per Blasetti e chissà per quanti altri, ma l'espressione viene proprio in taglio qui: Kaurismäki filma come respira. Perché, semplicemente, filma comme il faut; riesce sempre a lasciarci con l'impressione (certo, unilaterale) che il suo sia l'unico modo possibile di filmare. Prendiamo la scena della visita di Monet dal prefetto, che gli ingiunge di trovare al più presto il fuggitivo. L'inquadratura piuttosto distanziata che rimpicciolisce il commissario e quasi lo schiaccia sul fondo; la mancanza del controcampo sul prefetto, che non essendo mai enunciato come viso resta una voce autoritaria che investe il poliziotto. Assolutamente perfetto. O guardiamo quando Marcel al molo lascia un sacchetto con soldi e cibo per il ragazzino nascosto in acqua: all'immagine del sacchetto risponde solo il suono di uno sciacquio, e non occorre altro.
La sobrietà stilistica di Kaurismäki tende all'epicità, quasi all'astrazione. Guardate i suoi personaggi! Immobilità e impassibilità sono le caratteristiche dei personaggi kaurismäkiani (la sigaretta che tengono in bocca non ne è che un prolungamento, un oggetto-simbolo). Il dramma esiste, ma resta chiuso dentro quella loro maschera alla Buster Keaton - e questo, oltre che servire alla sobrietà, ha anche un lato morale. Giustamente dice Marcel al ragazzino negro nel film: “Hai pianto?” - “No” - “Bravo. Non serve a niente”.
Il classico dialogo alla Kaurismäki, solenne non come lessico e fraseggio ma per via della sua pronuncia distaccata che provvede il tono epico, è il perfetto equivalente sonoro dell'impassibilità dei visi. Un vantaggio laterale è che esalta l'umorismo; non manca in “Le Havre” una nuova collezione di battute fulminanti in puro stile kaurismäkiano (Marcel al burocrate spacciandosi per il fratello del nonno del ragazzino negro: “Sono l'albino di famiglia”); di più, si può dire che lo crea, l'umorismo, perché la sua secca nettezza conferisce una buffa risonanza, impagabile, a quello i personaggi dicono. E se a volte il film sfiora il didattico, pure il didattico ci sta - proprio in ragione di questo tono epico.
Attraverso la sua maniera “fredda” Kaurismäki restituisce le emozioni con stupefacente intensità. Fra tanti, citiamo solo un passaggio: la bella scena della riappacificazione fra il vecchio cantante Little Bob e sua moglie (sguardi e sorrisi muti) si lega in montaggio alla scena di Arletty in ospedale che, convinta di dover morire, guarda il porto di Le Havre dalla finestra, come un addio. Ed è commovente e folgorante, questo, come l'ultima passeggiata della vecchia signora ne “La vedova del pastore” di Dreyer. Ancora un altro miracolo.
Il buono il matto il cattivo
Kim Jee-woon
Se qualcuno ancora non credesse che il cinema d'azione del Far East non ha proprio niente da invidiare a Hollywood, anzi semmai è il contrario, gli basterebbe vedere il prodigioso inizio (che viene subito dopo un'apertura cospiratoria e sussurrata) del western orientale “Il buono il matto il cattivo” di Kim Jee-woon. Ecco due vertiginose discese in picchiata giù dal cielo verso i binari, quella dell'aquila e quella della macchina da presa; si identificano ma non si confondono; è una vera e propria dichiarazione d'intenti circa l'onnipotenza della mdp, che il suo patto faustiano con la computer graphics rende un occhio svincolato da tutte le leggi fisiche. Kim Jee-won celebra l'assolutezza dello sguardo esaltandosi in una sorte di ultra-espressività che non serve a trascinare lo spettatore dentro la storia quanto ad enunciare il proprio stesso trionfo.
Bisogna dire subito che il film del regista coreano (distribuito in Italia dalla coraggiosa, e a volte temeraria, Tucker Film) non vive all'altezza del suo splendido inizio. Anche se la narrazione resta gustosa, quell'esaltazione espressiva non è costante, e il film nel complesso risulta piuttosto episodico (da segnalare un episodio onirico e quasi gotico: quello dell'albergo-bordello nel deserto). La trama è a tratti un po' oscura e macchinosa, ma ciò probabilmente deriva dal fatto che l'edizione internazionale è ridotta rispetto a quella coreana.
Anche se Sergio Leone è evocato fin dal titolo (quello internazionale è “The Good, the Bad, the Weird”), e il film culmina in un duello a tre (un “triello”) che riprende il culmine di “Per qualche dollaro in più”, il riferimento a Leone non è stilistico ma narrativo: la caccia al tesoro da parte di tre personaggi. Siamo nella Manciuria anteguerra, occupata dai giapponesi, ma i protagonisti sono coreani in trasferta. Il matto è Song Kang-ho, delizioso ritratto di bandito tanto spietato quanto simpatico, che sogna di andare a Parigi grazie al bottino come Omar Sharif ne “L'oro di MacKenna” - e qui entra una citazione anacronistica di Je t'aime, moi non plus! Il buono è Jung Woo-sung, bounty killer coreano che dei tre è la figura più compiutamente western, non solo nel cappellone ma anche nelle inquadrature che lo riguardano, come quando si trascina dietro a cavallo Song Kang-ho prigioniero. Il cattivo (Manciuria Kid nell'edizione italiana) è Lee Byung-hun, un killer crudelissimo che nella sua smorfia da psicopatico dimostra di avere studiato attentamente i film western di Klaus Kinski.
Nella caccia al tesoro Kim Jee-woon spinge al massimo (e si diverte molto a farlo) la regola dell'accumulo. Il concetto tradizionale di diversi gruppi che convergono verso lo stesso punto (oltre ai tre ci sono un gruppo di banditi/ribelli e mezzo esercito giapponese) diventa una moltiplicazione delirante del concetto di inseguimento. Super-enfatico, ma con intelligenza, il film si basa su su un flusso inventivo ricco di umorismo (impagabile il matto col casco da palombaro) e su una balistica sfacciatamente esagerata. Quando il buono a cavallo fa fuori da solo la maggior parte dei soldati giapponesi armati fino ai denti, siamo oltre l'invulnerabilità da epos picaresco del western italiano: siamo ai fumetti jacovittiani di Cocco Bill.
Kim Jee-woon è un regista estremamente interessante (“The Quiet Family”, “The Foul King”, “A Tale of Two Sisters”), e “Il buono il matto il cattivo” non è il suo miglior film. E' un esercizio di piacevolissimo manierismo. Non ha intenti allegorici (“Eeeeh, maledetta avidità”, dice il matto con il classico sospiro-imprecazione coreano, che il doppiaggio riesce a mantenere: ma niente di più); in realtà non riflette neppure il linguaggio di Leone, né mette in scena più o meno nostalgicamente i topoi, alla George Lucas: di tutto questo c'è solo il simulacro; ma sedersi e lasciarsi catturare dal piacere visivo e cinetico resta comunque un'esperienza assai gradevole. E' soprattutto grazie ai tre interpreti che il gioco regge, perché vi portano una corposità che impianta il manierismo su basi solide. Cosicché quando alla conclusione viene finalmente messo in scena (con una deliziosa sorpresa finale) quel “triello” leoniano verso il quale il film precipita fin dalle prime inquadrature, è proprio quel loro grumo di concretezza (citazionista anch'essa, per carità, ma spiritosa e vitale) a fornire il cuore dell'interesse alla narrazione.
Se qualcuno ancora non credesse che il cinema d'azione del Far East non ha proprio niente da invidiare a Hollywood, anzi semmai è il contrario, gli basterebbe vedere il prodigioso inizio (che viene subito dopo un'apertura cospiratoria e sussurrata) del western orientale “Il buono il matto il cattivo” di Kim Jee-woon. Ecco due vertiginose discese in picchiata giù dal cielo verso i binari, quella dell'aquila e quella della macchina da presa; si identificano ma non si confondono; è una vera e propria dichiarazione d'intenti circa l'onnipotenza della mdp, che il suo patto faustiano con la computer graphics rende un occhio svincolato da tutte le leggi fisiche. Kim Jee-won celebra l'assolutezza dello sguardo esaltandosi in una sorte di ultra-espressività che non serve a trascinare lo spettatore dentro la storia quanto ad enunciare il proprio stesso trionfo.
Bisogna dire subito che il film del regista coreano (distribuito in Italia dalla coraggiosa, e a volte temeraria, Tucker Film) non vive all'altezza del suo splendido inizio. Anche se la narrazione resta gustosa, quell'esaltazione espressiva non è costante, e il film nel complesso risulta piuttosto episodico (da segnalare un episodio onirico e quasi gotico: quello dell'albergo-bordello nel deserto). La trama è a tratti un po' oscura e macchinosa, ma ciò probabilmente deriva dal fatto che l'edizione internazionale è ridotta rispetto a quella coreana.
Anche se Sergio Leone è evocato fin dal titolo (quello internazionale è “The Good, the Bad, the Weird”), e il film culmina in un duello a tre (un “triello”) che riprende il culmine di “Per qualche dollaro in più”, il riferimento a Leone non è stilistico ma narrativo: la caccia al tesoro da parte di tre personaggi. Siamo nella Manciuria anteguerra, occupata dai giapponesi, ma i protagonisti sono coreani in trasferta. Il matto è Song Kang-ho, delizioso ritratto di bandito tanto spietato quanto simpatico, che sogna di andare a Parigi grazie al bottino come Omar Sharif ne “L'oro di MacKenna” - e qui entra una citazione anacronistica di Je t'aime, moi non plus! Il buono è Jung Woo-sung, bounty killer coreano che dei tre è la figura più compiutamente western, non solo nel cappellone ma anche nelle inquadrature che lo riguardano, come quando si trascina dietro a cavallo Song Kang-ho prigioniero. Il cattivo (Manciuria Kid nell'edizione italiana) è Lee Byung-hun, un killer crudelissimo che nella sua smorfia da psicopatico dimostra di avere studiato attentamente i film western di Klaus Kinski.
Nella caccia al tesoro Kim Jee-woon spinge al massimo (e si diverte molto a farlo) la regola dell'accumulo. Il concetto tradizionale di diversi gruppi che convergono verso lo stesso punto (oltre ai tre ci sono un gruppo di banditi/ribelli e mezzo esercito giapponese) diventa una moltiplicazione delirante del concetto di inseguimento. Super-enfatico, ma con intelligenza, il film si basa su su un flusso inventivo ricco di umorismo (impagabile il matto col casco da palombaro) e su una balistica sfacciatamente esagerata. Quando il buono a cavallo fa fuori da solo la maggior parte dei soldati giapponesi armati fino ai denti, siamo oltre l'invulnerabilità da epos picaresco del western italiano: siamo ai fumetti jacovittiani di Cocco Bill.
Kim Jee-woon è un regista estremamente interessante (“The Quiet Family”, “The Foul King”, “A Tale of Two Sisters”), e “Il buono il matto il cattivo” non è il suo miglior film. E' un esercizio di piacevolissimo manierismo. Non ha intenti allegorici (“Eeeeh, maledetta avidità”, dice il matto con il classico sospiro-imprecazione coreano, che il doppiaggio riesce a mantenere: ma niente di più); in realtà non riflette neppure il linguaggio di Leone, né mette in scena più o meno nostalgicamente i topoi, alla George Lucas: di tutto questo c'è solo il simulacro; ma sedersi e lasciarsi catturare dal piacere visivo e cinetico resta comunque un'esperienza assai gradevole. E' soprattutto grazie ai tre interpreti che il gioco regge, perché vi portano una corposità che impianta il manierismo su basi solide. Cosicché quando alla conclusione viene finalmente messo in scena (con una deliziosa sorpresa finale) quel “triello” leoniano verso il quale il film precipita fin dalle prime inquadrature, è proprio quel loro grumo di concretezza (citazionista anch'essa, per carità, ma spiritosa e vitale) a fornire il cuore dell'interesse alla narrazione.
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